martedì, febbraio 22, 2011

Alla Mamma

José Emilio Pacheco

Terribile è la fotografia
Pensare che nei suoi oggetti quadrangolari
Giace un istante del 1959
Volti che non sono piú,
Aria inesistente
Perché il tempo si vendica
Di quanti rompono l'ordine naturale congelandolo,
Le foto si screpolano, ingialliscono,
Non sono la musica del passato;
Sono il boato
Del crollo d'interne rovine
Non sono il verso, son lo scricchiolio
Della nostra irrimediabile cacofonia.

José Emilio Pacheco
Trad. genseki

José Emilio Pacheco


José Emilio Pacheco

Birds in the night

(Vallejo e Cernuda si incontrano a Lima)

A partire dalle coste del Perú ha messo in crisi
L'industria della pesca e ha provocato nelle cittá
del litorale l'invasione di uccelli.
Tutta la notte odo l'alato rumore che precipita
E come in un poema di Cisneros,
Albatri, pellicani e cormorani
Muoiono di fama a Lima, in pieno centro;
Sono torturati baudelariamente.

In questi vicoli miserabili
(Tanto simili a Messico)
César Vallejo passeggió, fece l'amore, deliró
Scrisse versi.

Giá! Ora lo imitano, lo venerano
"È un orgoglio per il continente",
In vita lo presero a calci, a sputi,
Lo ammazzarono di fame e di tristezza.

Disse Cernuda che nessun paese
Ha mai tollerato vivi i suoi poeti.

Va bene cosí.
Sarebbe forse meglio
Essere il Poeta Nazionale
Che tutti salutano per strada?
**
César Vallejo
Mi duole nelle ossa l'umiditá
Che trafigge come un cilicio
Qui soccombe per il mal di mare il nativo
Delle alte cittá dell'entroterra
Secche o morte
Messico sull'altipiano
Che fu bosco e laguna
E oggi è terrore e chissáche altro.
Dalla finestra entra l'aria di Lima
L'umiditá come una forma di pianto
Oggi venedí
15 aprile
Mezzo secolo dopo
La morte di Vallejo.
**
José Emilio Pacheco
Trad genseki

lunedì, febbraio 14, 2011

A sua madre

Fu quando tutti i voli si fecero marmo
Che l'autunno frullava nel fondo delle mie pupille
E le foglie più pesanti ancora del loro lutto
Non cessavano di balenare come monete
Senza una faccia senza una luna

Perduto il tuo volto nel suo occaso incessante
Anche il mio nome era un altro
La mia vicenda entrava nel porto
Le mie ultime lettere le scrivevo sulla carta da imballaggio

Dove potevo ormai appendere il cappello?
Sedermi al tavolo da gioco?
Accoccolarmi nell'orto sapendo che non mi amavi?
Che non mi amavi?
E le ali le scolpiva lo scalpello del volo
Nel marmo di quel pezzetto di cielo

Non fosti il mio battello
I tuoi occhi non mi furono lago

Sulla tua altra sponda aspettavo
Il mio traghetto, ora ora soltanto
So che avrai una mano per accarrezzare
I capelli stessi della luce

genseki

Manuel Altolaguirre

L'anima e la memoria

Manuel Altolaguirre

da: “Il cavallo greco”

Dopo la morte l'anima non si sente nuda. L'anima si veste della sua memoria, si limita con essa, illuminandola da dentro con la propria intelligenza e la propria volontà in modo che nulla di quanto visse resti occulto. L'anima resta avvolta dal paesaggio del suo comportamento, dei suoi pensieri, delle sue emozioni. La memoria, che in vita ci abbandona con tanta frequenza, nella morte ci presta il suo mantello, ci conforta e ci salva.

**

Se non in me, dove sta la mia vita? L'idea che possa essere registrata in un'intelligenza superiore mi riempie di speranza.

**

Rientriamo in noi solo con la morte. In tal modo ci incorporiamo con la forma totale della nostra storia, che, siccome il nostro corpo non è sufficiente per tante e tali attitudini, muore nell'attesa del giorno in cui sarà ancora convocato dallo spirito.
Morire è essere pianura, un grande volto impassibile, uno specchio di tutta l'anima nel quale si può leggere tutta una vita. Dove restò il tempo? Nell'oblio o nella disperazione. Nulla di tutto questo si trova in quel volto la cui presenza è un riflesso della divina sapienza che lo sta giudicando.
Le nostre vite sono come fiumi che sboccano in uno specchio. Quando tale specchio rifletta in un sol colpo e per sempre tutto quello che fummo, è perché finalmente siamo arrivati al momento della morte.

**

Nessun campo tanto vasto come la nostra memoria, percorrerlo è cercare se stessi. Ma questa ombra che cerca di conoscersi a forza di camminare su e giù per la propria vita non sono interamente io. Nemmeno questi che riceve a poco a poco strane impressioni e si mostra insensibile alla maggior parte di esse sono io, anche se nel mio sogno gli conferisco consistenza. Solo mi riconosco negli altri. Essi sono la mia riva e io l'ombra, è la loro luce che confondendosi con i miei primi grigi, forma le aurore, e se io sono d'acqua e loro di roccia, al nostro urto si formeranno piagge e litorali; se sono calore e loro neve, nel nostro incontro la primavera darà i suoi fiori e l'autunno maturarà i suoi frutti.

trad. genseki

Regola grammaticale

Regola grammaticale

La grammatica, come norma colettiva in poesia, non ha ragion d'essere. Ogni poeta forgia la propria grammatica personale e che non puo' essere trasferita, la propria sintassi, ortografia, analogia, prosodia, semantica. Basta che non esca dalle consuetudini di base dell'idioma. Il poeta può persino cambiare, in certo modo la struttura letterale e fonetica di una stessa parola, secondo i casi. E questo, lungi dal restringere la portata socialista e uniersale della poesia, come si potrebbe credere, la dilata all'infinito. Si sa che quanto più personale (ripeto, non dico individuale) è la sensibilità dell'artista, tanto la sua opera è più universale e collettiva.

César Vallejo

Otto Klemperer: Prelude to Richard Wagner's Lohengrin

Il nome

Il mio nome era tutto quello che volevi sapere
Elsa. Il mio nome.
All'Osteria del Gozzo tra una toma
E un gotto di Carcairone
Ti avvicinavi al mio ginocchio
Come la volpe alle uova del pavone
Ma nemmeno il mio ginocchio
Sapeva il mio nome,
Poi passeggiando ti indicavo
I gattici fioriti, gli arbusti della fusaria
E i fori delle mine fluviali
Profumavi di alga il mio nome
Lo chiedevi sulle unghie
Nel sorriso, nella curva del collo
Nella profondità del tuo tepore
Il mio nome pero' non lo conoscevo
Lo avevo perduto forse una volta in stazione
Mi era caduto di tasca mente cercavo
Di obliterare il biglietto nella fessura
Di quella macchina troppo gialla
La geografia delle tue mani non era
Mappa sufficiente per indovinare nemmeno la mia origine
Ritornammo passando per il lago
In Nissan
Come un grande cigno bianco


genseki

Il crepitare altissimo d'incendi

Il crepitare altissimo d'incendi
lassù sull'altipiano dove le nuvole di marmo
Ci oscuravano il respiro
Il vento delle lacrime ti scuoteva
Come i rami dell'abete
Il fumo si faceva più solido
Tu dipingevi quel melo dalla finestra del bagno
Ti osservavo dalla siepe
Tra gli altri alberi da frutto
Al congedarti odore di verderame
Poi fu sera, tramonto, oltre la curva fiamme
Come sfrigolavano cervi e miniature
Un istante di cenere il nostro
Con un occhio ai tuoi collant
Fissavo il rogo della cordigliera
Come un'immenso coniglio rosso
Scuotere sfrenato le orecchie
Davanti al parabrezza.

genseki

Juan Larrea

Juan Larrea

Spine quando nevica

Sognami sognami in fretta stella di terra
Coltivata dalle mie palpebre afferrami per i miei manici d'ombra
Inebriami di ali di marmo ardendo, ardendo stella stella tra le mie ceneri

Potere potere alla fine trovare sotto il mio sorriso la statua
Di una sera di sole i gesti a fior d'acqua
Gli occhi a fior di inverno

Tu che nell'alcova del vento stai vegliando
L'innocenza di dipendere dalla bellezza “volandera”
Che si tradisce nell'ardore con cui le foglie si voltano verso il petto più debole

Tu che assumi luce e abisso al borco di questa carne
Che cade fino ai miei piedi come vivezza ferita

Tu che in selva d'orrori avanzi smarrita

Supponi che nel mio silenzio vive una oscura rosa senza uscita e senza lotta

**

Il mare in persona

Eccolo il mare innalzato in un battito di ciglia
Il mare senza sogno come una grande paura di trifogli fioriti
Nella postura della terra sottomessa come sembra
Se ne vanno digià con le loro lane di evidenza sulla nube e sulla sua fatica
All'ombra di un olmo non c'è mai tempo da perdere

Credula squisita l'oscurità mi viene incontro
Nella mia fronte abita lo scorza di pane che mi porto dentro
Tagliato a picco su un uccello insicuro

Così mi allontano per azione del piano
Che mi cuce alle piante che precorrono il mare
Un cervo d'autunno scende a leccare la luna della tua mano
E ora sulla mia sponda il mondo comincia a spogliarsi
Per morire d'alberi in fondo ai miei occhi
I miei capelli si riempiono di pesci di penombra
Di scheletri di navi forzate

Senza andare più lontano
Sei fredda come l'ascia che abbatte il silenzio
Nella lotta tra il paesaggio e il suo colpo d'occhio

Poi quando il cielo esporta i suoi pianisti celebri
E la pioggia l'odore della mia persona
Come il tuo bel cuore si tradisce

Trad. genseki

Isola ti chiamavo

Isola ti chiamavo Elsa, Elisa
Tu mi chiamavi. Come mi chiamavo?
Non mi chiamavo, non avevo nome.
Tu sempre domandavi finché quasi
Volevo dirti di chiamarmi cigno
Nube, Callisto, Melibeo, Elosabad,
Islamey, Lohengrin, Ulisse. Zero.
Come mi chiamo? Ancora me lo chiedi?
Mi chiamero', mi chiamero' Tiamo.
Tu non smettevi pero' di domandare
Fino a rientrare nel tuo secondo sogno.

Gerardo Diego
Trad.genseki

San Sebastiano


Guido Reni

San Sebastiano

San Sebastiano

Legato a un tronco un corpo, torso bianco bersaglio.
Sibilo, volo, un bosco di saette.
Candore che oramai si scorge appena
Di bellissima pelle. Ombre
Di penne e di steli ecco oscurano
La lividezza così prepotente. Fiumi
Di sangue macchiano sul petto
Le bande della nobiltà nel Cristo.

Danzando fu la sua danza rapita.
Tronco non fu d'olivo in fiamma e nodo
Né fusto di betulla argentea lebbra.
Né torsione veementissima del sandalo
Che immobilizzi così sul proprio asse
L'alata varietà solo in un grido.

È Sebastiano il martire che vendica
La superbia oceanica, lo scoglio
Ove un titano incatenato canta
Nel fuoco e nella danza si scatena.
La fiamma non rubo' ma l'alimenta
Col suo sangue la esalta e la ridona
Al cielo che l'assorbe in nuovo incendio.

O bandiera di rossi e di violetti
E azzurri rapidissimi, o incolume
Sebastiano nell'asta, nel candore
Zebrato. Gia s'estraggono quei dardi
E nel sollievo tu canti in trionfo,
Danzi la fe di Cristo insanguinata.

Gerardo Diego
Trad. genseki

L'azzurro

Fu l'azzurro che garantì la nostra nascita
In dolcezza e celebrata promessa,
Poi qualcuni guardo' attraverso lo sguardo
Come affaciandosi da una finestra aperta
E un altro risuono' inclemente
Nel vuoto della voce:
L'anima esplose come reticolo
Come carosello di spore
Le mani le avevamo legate in mille nodi
Un nodo per ogni nome
Uno per lo sguardo, uno per chi origliava
Dalla stretta fessura delle orecchie
Il mondo si fece allora giardino
La speranza condannata a germogliare
Ognuno ha diritto ad almeno due vite
Una contiene se stessa e un'altra
La morte resta il seme piú fecondo.

genseki

Pelléas et Mélisande (Mes longs cheveux)

 
Posted by Picasa

Per ricordarmi dei tuoi capelli

Per ricordarmi dei tuoi capelli
Mi bastava fissare le mie dita
Le lune delle tue unghie, pure
Erano sciabole delle mie iridi.
Il segreto come decifrarlo?
O il tormento dei tuoi gesti,
Quando toglievi la mollica del pane
Scartavi il cuore delle mele
Ti chinavi ad accarezzare la caviglia
Con la tempia all'altezza della tavola preparata?
Il fiume dei tuoi capelli
Era come un firmamento
Un oceano di rame
Salato come il ghigno delle fiamme
Nell'inesanatura del caminetto.

genseki