Ad Odessa ti aspettavo all'aereoporto
Ansioso di vederti spuntare con l'impermeabile giallo
Il tichettio sotto le braccia e la valigetta
Di metallo sferico
ma era in una latteria che reclinavo la testa
Una di quelle della mia infanzia
Con cannella e ardesia
a profumare il crepuscolo
E un sogno di giacinti stridenti
Le mosche le friggeva quella lampada azzura
E fu così che non seppi abbandonare i tuoi occhi
Ad altre ali, ad altri coltelli
A fendere il volo e la polpa
Poi furono solo labbra e abbracci
Il profumo acre di terital
Il tuo dolore che mi sprigionava
Come un nodo, un virgulto di muscoli
L'impermeabile giaceva davanti al caminetto
Come nei migliori film di una volta
La coperta era anch'essa in bianco e nero
Come la busta di vaniglia del lattaio.
genseki
domenica, gennaio 30, 2011
Bolañismi
Soñé que estaba soñando y que en los túneles de los sueños encontraba el sueño de Roque Dalton: el sueño de los valientes que murieron por una quimera de mierda.
Sognai che stavo sognando e che nei tunnel del sogno incontravo il sogno di Roque Dalton: il sogno dei valorosi che morirono per una chimera di merda.
Roberto Bolaño
Trad. genseki
Sognai che stavo sognando e che nei tunnel del sogno incontravo il sogno di Roque Dalton: il sogno dei valorosi che morirono per una chimera di merda.
Roberto Bolaño
Trad. genseki
Roque Dalton
Alta ora di notte
Quando mi saprai morto tu non dire il mio nome
Perchè si fermerebbero e la morte e il riposo.
La tua voee, campana di tutti e cinque i sensi
Sarà il pallido faro che la mia nebbia cerca.
Quando mi saprai morto dimmi sillabe strane
Pronuncia pane, fiore, ape, lacrima e tormenta.
Non lasciare che le tue labbra trovino le mie undici lettere,
Ora ho sonno, ho amato e ho vinto il silenzio.
No, non dire il mio nome quando mi saprai morto
Dalla terra più oscura mi chiamerebbe la tua voce.
No, non dire il mio nome, non lo dire, per favore
Quando mi saprai morto tu non dire il mio nome.
27/01/11
14:38:09
Il mare
Ci sono grandi pietre nella tua tempestosa oscurità
Grandi pietre con le loro date lavate dalla tua ombra
Perchè persino il sole mangia della tua ombra
Scricchiola nel freddo congedandosi dall'aria
Che non osa penetrare in te.
O mare in cui i disperati possono dormire
Cullati da impassibili esplosioni
Alfabeto di vertigine paisage diluito che aggrediscono i muri
I gabbiani, la spuma dei pesci sono la tua primavera
La furia è una piramide verde
Una resurrezione del fuoco più acuto il tuo clima
La tua miglior traccia sarebbe una chiocciola
Che cammina con passi di bambino nel deserto.
Siempre amai i villaggi dissimili
Apparentemente rubati dalle mani del mare
Citfadine presso la sabbia
Porto scandalosi nel'elbrezza del salnitro
Casali rabbrividenti tra la nebbia piena di coralli
Grandi citàa titanice di fronte alle tempeste umiliate
Borghi di pescatori ciechi sotto un faro di olio
Fabbriche in agguato tra gli atolli con un largo coltello
Valapraiso come una grande cascata sospesa
Manta Punàa porti dell'Ecuador negatori delle foglie
Buenaventura aromatica come un gran porto sudicio
Panamàa con gli occhi (punzados?) dalla depravazione
Cartagena sempre in attesa dei pirati
Affamata
Wilemstadt naufraga nei domini del petrolio
Tenerife e la sua dolce coppa di vino
Barcellona che sbadiglia tra banche e carabinieri
Napoli bellamente tumefatta
Genova Leningrado Sochi La Guaira Buenos Aires
Montevideo come una margherita
Puerto Limon Corinto
Acajutla in una lenta spiaggia della mia patria
Dove tuti si guardano nello specchio pesante solcato dai delfini
Scostando come rapida sciabila
Le spighe infinite di smeraldo.
Ora di cenere
Finisce settembre. E' l'ora giusta per dirti
Quanto difficile è stato non morire.
Questa sera per esempio
Ho nelle mani grige
Libri belli che non so comprendere,
Non potrei cantare sebbene abbia smesso di piovere
E non ho ragione di ricordare
Il primo cane che amai da bambini.
Da quando ieri te en andasti
Persino la musica si è fatta umida e fredda.
Quando morirò
Solo ricorderanno il mio giubilo mattutino e palpabile,
La mia bandiera senza diritto a stancarsi,
La concreta verità che distribuii dal fuoco,
Il pugno che resi unanime
Con il clamore di pietra che pretese la speranza.
Fa freddo senza di te, Quando morrò
Diranno con buone intenzioni
Che non seppi piangere
Piove di nuovo.
Mai come oggi hanno tardato tanto le sette meno un cuarto.
O voglia di ridere
O di uccidermi.
*
Trad. genseki
Quando mi saprai morto tu non dire il mio nome
Perchè si fermerebbero e la morte e il riposo.
La tua voee, campana di tutti e cinque i sensi
Sarà il pallido faro che la mia nebbia cerca.
Quando mi saprai morto dimmi sillabe strane
Pronuncia pane, fiore, ape, lacrima e tormenta.
Non lasciare che le tue labbra trovino le mie undici lettere,
Ora ho sonno, ho amato e ho vinto il silenzio.
No, non dire il mio nome quando mi saprai morto
Dalla terra più oscura mi chiamerebbe la tua voce.
No, non dire il mio nome, non lo dire, per favore
Quando mi saprai morto tu non dire il mio nome.
27/01/11
14:38:09
Il mare
Ci sono grandi pietre nella tua tempestosa oscurità
Grandi pietre con le loro date lavate dalla tua ombra
Perchè persino il sole mangia della tua ombra
Scricchiola nel freddo congedandosi dall'aria
Che non osa penetrare in te.
O mare in cui i disperati possono dormire
Cullati da impassibili esplosioni
Alfabeto di vertigine paisage diluito che aggrediscono i muri
I gabbiani, la spuma dei pesci sono la tua primavera
La furia è una piramide verde
Una resurrezione del fuoco più acuto il tuo clima
La tua miglior traccia sarebbe una chiocciola
Che cammina con passi di bambino nel deserto.
Siempre amai i villaggi dissimili
Apparentemente rubati dalle mani del mare
Citfadine presso la sabbia
Porto scandalosi nel'elbrezza del salnitro
Casali rabbrividenti tra la nebbia piena di coralli
Grandi citàa titanice di fronte alle tempeste umiliate
Borghi di pescatori ciechi sotto un faro di olio
Fabbriche in agguato tra gli atolli con un largo coltello
Valapraiso come una grande cascata sospesa
Manta Punàa porti dell'Ecuador negatori delle foglie
Buenaventura aromatica come un gran porto sudicio
Panamàa con gli occhi (punzados?) dalla depravazione
Cartagena sempre in attesa dei pirati
Affamata
Wilemstadt naufraga nei domini del petrolio
Tenerife e la sua dolce coppa di vino
Barcellona che sbadiglia tra banche e carabinieri
Napoli bellamente tumefatta
Genova Leningrado Sochi La Guaira Buenos Aires
Montevideo come una margherita
Puerto Limon Corinto
Acajutla in una lenta spiaggia della mia patria
Dove tuti si guardano nello specchio pesante solcato dai delfini
Scostando come rapida sciabila
Le spighe infinite di smeraldo.
Ora di cenere
Finisce settembre. E' l'ora giusta per dirti
Quanto difficile è stato non morire.
Questa sera per esempio
Ho nelle mani grige
Libri belli che non so comprendere,
Non potrei cantare sebbene abbia smesso di piovere
E non ho ragione di ricordare
Il primo cane che amai da bambini.
Da quando ieri te en andasti
Persino la musica si è fatta umida e fredda.
Quando morirò
Solo ricorderanno il mio giubilo mattutino e palpabile,
La mia bandiera senza diritto a stancarsi,
La concreta verità che distribuii dal fuoco,
Il pugno che resi unanime
Con il clamore di pietra che pretese la speranza.
Fa freddo senza di te, Quando morrò
Diranno con buone intenzioni
Che non seppi piangere
Piove di nuovo.
Mai come oggi hanno tardato tanto le sette meno un cuarto.
O voglia di ridere
O di uccidermi.
*
Trad. genseki
Luis Cernuda
Dove vive l'oblio
Dove vive l'oblio
In quei vasti giardini senza aurora
Dove io solo sia
Memoria di una pietra sepolta tra le ortiche
Sopra la quale il vento alla sua insonnia sfugge
Dove il mio nome lasci
Tra le braccia dei secoli il corpo che designa,
E non vi sia più nessun desiderio.
In quella gran regione ove l'angelo terribile dell'amore,
Non celi come acciaio
Nel mio petto la sua ala,
Sorridendo pieno di grazia aerea mentre cresce il tormento.
Là dove infine abbia termine l'affanno che esige un padrone ad immagine sua
Sottomettendo la propria a un'altra vita
Senza altro orizzonte che quello d'altri occhi fronte a fronte.
Dove pene e fortuna siano soltanto un nome,
Cielo e terra nativi attorno ad un ricordo,
Dove senza saperlo io mi ritrovi libero
Dissolto nella nebbia, assenza,
Un'assenza leggera come carne di bimbo
Laggiù, laggiù lontano
Dove vive l'oblio.
IV
Io fui
Colonna ardente, luna di primavera
mare dorato, occhi grandi.
Cercai quel che pensavo
Pensai come nel languido sogno dell'alba,
Quel che il desio dipinge nei giorni adolescenti.
Cantai, salii,
Un di fui luce,
In fiamma trascinato.
Come un colpo di vento
Che l'ombra va disfando
Nel nero caddi,
Nel mondo mai sazio
Son stato.
V
Voglio con afanno sonnolento
Della morte più lieve godere
Tra i boschi ed i mari di rugiada
In aria dissolto che trascorre e ignora
La morte voglio averla tra le mani
Rapido frutto colore di cenere
Fragile qual corno
Di luce quando nasce l'inverno
Voglio poterne bere la lontana amaezza:
Voglio ascoltarne il sogno dal rumore di arpa
Mentre sento diffondersi il freddo nelle vene
Perchè soltanto il freddo mi potrà consolare.
Morro' d'un desiderio
Se sottil desiderio vale morte;
Di me stesso privato vivere di desiderio
Senza mai risvegliarmi, senza ricordi
Lassù, lassù perduto nel freddo della luna.
*
VI
Il mare è un oblio
Una canzone, un labbro
Il mare è un amante
Che risponde al desio
È come un usignolo
Le sue acque son piume
Impulsi che si alzano
Fino alle fredde stelle
Accarezza con sogni
Che schiudono la morte
Che son lune accessibili
Son la vita più alta.
Sopra le spade oscure
Van le onde godendo.
*
trad genseki
Dove vive l'oblio
In quei vasti giardini senza aurora
Dove io solo sia
Memoria di una pietra sepolta tra le ortiche
Sopra la quale il vento alla sua insonnia sfugge
Dove il mio nome lasci
Tra le braccia dei secoli il corpo che designa,
E non vi sia più nessun desiderio.
In quella gran regione ove l'angelo terribile dell'amore,
Non celi come acciaio
Nel mio petto la sua ala,
Sorridendo pieno di grazia aerea mentre cresce il tormento.
Là dove infine abbia termine l'affanno che esige un padrone ad immagine sua
Sottomettendo la propria a un'altra vita
Senza altro orizzonte che quello d'altri occhi fronte a fronte.
Dove pene e fortuna siano soltanto un nome,
Cielo e terra nativi attorno ad un ricordo,
Dove senza saperlo io mi ritrovi libero
Dissolto nella nebbia, assenza,
Un'assenza leggera come carne di bimbo
Laggiù, laggiù lontano
Dove vive l'oblio.
IV
Io fui
Colonna ardente, luna di primavera
mare dorato, occhi grandi.
Cercai quel che pensavo
Pensai come nel languido sogno dell'alba,
Quel che il desio dipinge nei giorni adolescenti.
Cantai, salii,
Un di fui luce,
In fiamma trascinato.
Come un colpo di vento
Che l'ombra va disfando
Nel nero caddi,
Nel mondo mai sazio
Son stato.
V
Voglio con afanno sonnolento
Della morte più lieve godere
Tra i boschi ed i mari di rugiada
In aria dissolto che trascorre e ignora
La morte voglio averla tra le mani
Rapido frutto colore di cenere
Fragile qual corno
Di luce quando nasce l'inverno
Voglio poterne bere la lontana amaezza:
Voglio ascoltarne il sogno dal rumore di arpa
Mentre sento diffondersi il freddo nelle vene
Perchè soltanto il freddo mi potrà consolare.
Morro' d'un desiderio
Se sottil desiderio vale morte;
Di me stesso privato vivere di desiderio
Senza mai risvegliarmi, senza ricordi
Lassù, lassù perduto nel freddo della luna.
*
VI
Il mare è un oblio
Una canzone, un labbro
Il mare è un amante
Che risponde al desio
È come un usignolo
Le sue acque son piume
Impulsi che si alzano
Fino alle fredde stelle
Accarezza con sogni
Che schiudono la morte
Che son lune accessibili
Son la vita più alta.
Sopra le spade oscure
Van le onde godendo.
*
trad genseki
Punto per punto
Punto per punto corrispondeva
Il tracciato del tuo candore con lo zenith
Con il calore vuoto del rame con le sue mani adunche
Quando afferravano lo specchio
Per maledire la lebbra degli occhi, la speranza
Delle labbra e tuttte quante le possibili preghiere:
Invoca il concavo risuonare su se stessa
della costernazione, quando anche il cielo
manca al respiro – gridava
E l'accoglievi aprendo tutti i pori
Alla pioggerellina rinfrescante della disperazione.
genseki
Il tracciato del tuo candore con lo zenith
Con il calore vuoto del rame con le sue mani adunche
Quando afferravano lo specchio
Per maledire la lebbra degli occhi, la speranza
Delle labbra e tuttte quante le possibili preghiere:
Invoca il concavo risuonare su se stessa
della costernazione, quando anche il cielo
manca al respiro – gridava
E l'accoglievi aprendo tutti i pori
Alla pioggerellina rinfrescante della disperazione.
genseki
La mano cerca il cenno
La tua voce cercava la parola come
La mano cerca il cenno, l'occhio il sottinteso
Come l'ala smarrita cerca la caduta
E il volo il rigore retto del mezzogiorno
La tua voce cercava la parola
Come il bagliore cerca l'elissi
Come qualsiasi sfera il punto e a capo
La tua voce si cercava nella parola
Come Achille cercava una tartaruga
Che accettasse la competizione
Come la trama cerca il dialogo
Il sentiero le orme l'erba del te il tepore del burro
La tua voce si cercava sempre a una soglia
Su di un limite sostando presso il verbo
Infinitamente vicina al suo svelarsi
Nella caducitá del proprio senso.
genseki
La mano cerca il cenno, l'occhio il sottinteso
Come l'ala smarrita cerca la caduta
E il volo il rigore retto del mezzogiorno
La tua voce cercava la parola
Come il bagliore cerca l'elissi
Come qualsiasi sfera il punto e a capo
La tua voce si cercava nella parola
Come Achille cercava una tartaruga
Che accettasse la competizione
Come la trama cerca il dialogo
Il sentiero le orme l'erba del te il tepore del burro
La tua voce si cercava sempre a una soglia
Su di un limite sostando presso il verbo
Infinitamente vicina al suo svelarsi
Nella caducitá del proprio senso.
genseki
Agua Mojada
Guardala come si divincola
Come cerca di sfuggire alla storia
Di rientrare a tentoni nello sguardo
Da cui era uscita in forma di certezza
In quello spazio tra corpo e consapevolezza
In cui ogni corpo appare come oscenamente triste
Per volersi separare dalla sua genericitá
Eddai! Guarda come si contorce, tutta bagnata
porta qua quegli stracci, le orecchie, i tasselli
Porta qua, svelto prima che piova
Anzi, guarda che sta giá piovendo come
Quando eri bambino ad Ormea e la pioggia
Si porta via la neve sporca, la neve che non è piú bianca ma è sporca
E la pioggia se la porta via la porta via nei tombini
Sotto terra la neve bianca ma sporca sotto la terra nera
Piange e la pioggia cade sulla pioggia
Strato di pioggia su strato di pioggia
E lo sguardo cade sullo sguardo
Strato di sguardo su strato di sguardo
E la storia cade sulla storia strato a strato di storia
Fino a coprire lo sguardo della sua ignominia
E inutilmente si divincola si scuote scampana
Strilla come acqua su acqua la storia
La storia si scioglie nel tempo
genseki
Come cerca di sfuggire alla storia
Di rientrare a tentoni nello sguardo
Da cui era uscita in forma di certezza
In quello spazio tra corpo e consapevolezza
In cui ogni corpo appare come oscenamente triste
Per volersi separare dalla sua genericitá
Eddai! Guarda come si contorce, tutta bagnata
porta qua quegli stracci, le orecchie, i tasselli
Porta qua, svelto prima che piova
Anzi, guarda che sta giá piovendo come
Quando eri bambino ad Ormea e la pioggia
Si porta via la neve sporca, la neve che non è piú bianca ma è sporca
E la pioggia se la porta via la porta via nei tombini
Sotto terra la neve bianca ma sporca sotto la terra nera
Piange e la pioggia cade sulla pioggia
Strato di pioggia su strato di pioggia
E lo sguardo cade sullo sguardo
Strato di sguardo su strato di sguardo
E la storia cade sulla storia strato a strato di storia
Fino a coprire lo sguardo della sua ignominia
E inutilmente si divincola si scuote scampana
Strilla come acqua su acqua la storia
La storia si scioglie nel tempo
genseki
Carne Manzottin
Il Duca detto anche lo Spadaro
Si dice, nelle piole dei borghi prossimi, che a Scoriosozzo qualcuno pur visse - , sussurró il comissario Fabro appoggiandosi rumorosamente alla spalliera della vecchia sedia - un tal Buca o Duca detto Spadaro, di lui poco si sa, se non che vegetava e ingrassava accanto alla stufa inebetito dalla televisione. Si dice che en tenesse accesa piú d'una contemporaneamente, en possedeva, pare, varie decine, e scendesse alla pianura in contate occasioni con una vecchia carretta dal bagagliaio pieno di scatolette di carne manzottin. Tutti nella valle e nella pianura hanno visto qualche volta un catorcio sudicio pieno di scatolette di carne manzottin. Sembra che la carne manzottin non la abbia mai tirata fuori dal bagagliaio. Perché teneva il bagagliaio zeppo di scatole di carne manzottin? Lermita, dica sinceramente, lei ha mai aperto nella sua vita una scatola di carne manzottin, en ha mai gustato il contenuto? - Comissario che cosa vuole da me? Risposi in un tono accentuato di stizza annoiata. - Non la prenda cosí caro Lermita, soltanto voglio che condivida con me questo esperimento – e, dopo aver goffamente frugato nelle tascone della deformata giacca di fustagno giallino che un tempo era forse stata arancione, gonfiate da una intera collezione di grandi mandilli stropicciati che dovevano aver raccolto e seccato intere secchiate di sudore commissarile, en trasse una scatoletta di carne manzottin, infilando l'indice nell'apposito anello con la cautela e il rispetto con cui il giovane sposo infila l'anello nuziale al dito della snella fanciulla davanti all'altare adornato di gigli, anche se in questo caso la manovra era all'inverso giacché si trattava di infilare l'anello nel dito e non il dito dell'anello di modo che non potevo fare a meno di pensare ad un oscena parodia del sacramento, inscenata con sfacciatagine blasfema dal comissario Fabro, per inveterato liberopensantismo o per studiare quelche mia reazione per qualche sua misteriosa ragione, aprí il contenitore metallico, e con l'altra mano rovesció il suo contenuto rosa e gelatinoso in un piattino celeste che il solerte cameriere, a un suo cenno imperioso gli aveva testé recato. I frammenti di carne rosa sfumavano nel grigio torbido della gelatina che verso l'esterno del cilindro, di cui aveva assunto per compressione la forma, andavano acquistando una tonalitá giallina, filamenti sopravissuti ad una soprannaturale macelleria in una nebbia solidificata, tutto il cieco orrore della realtá mi strinse la gola in una morsa ferrea, soffocavo, l'insensatezza impenetrabile dell'essere tremava come un cuore sfiancato negli ultimi battiti rosa dei filamenti che si dibattevano nella loro gelatina; Fabro trasse dal viluppo dei mandilli il suo opinello con cui divise esattamente in due la massa che ai miei occhi pareva palpitante, per un attimo pensai che i frammenti di carne trasformati in pseudopodi schizzassero verso i miei occhi e mi penetrassero nel cervello per succhiarmi quello che mi restava di autocoscienza – Che cosa le succede Lermita? - La voce di Fabro mi liberó da quell'incubo, i filamenti rientrarono nella gelatina e i miei occhi nelle loro orbite. Fabro mi stava offrendo nel piattino azzurro una metá della carne, l'altra meta la stava giá rumorosamente masticando lui, vincendo il ribrezzo con uno sforzo sovrumano la inghiottii anch'io a bocconcini. Perché il Duca Spadaro girava per la valle con il bagagliaio pieno di scatole di carne manzottin? Vi era un qualche legame tra Duca Spadaro e Dreiser Cazzaniga? La carne manzottin aveva qualche cosa a che fare con la morte di Dreiser Cazzaniga? Io en avevo mangiato un pezzo e non ero morto li per li. La carne manzottin era un segnale, un messaggio, una domanda? Dreiser Cazzaniga en conosceva la risposta e per questo doveva essere messo a tacere?
Si dice, nelle piole dei borghi prossimi, che a Scoriosozzo qualcuno pur visse - , sussurró il comissario Fabro appoggiandosi rumorosamente alla spalliera della vecchia sedia - un tal Buca o Duca detto Spadaro, di lui poco si sa, se non che vegetava e ingrassava accanto alla stufa inebetito dalla televisione. Si dice che en tenesse accesa piú d'una contemporaneamente, en possedeva, pare, varie decine, e scendesse alla pianura in contate occasioni con una vecchia carretta dal bagagliaio pieno di scatolette di carne manzottin. Tutti nella valle e nella pianura hanno visto qualche volta un catorcio sudicio pieno di scatolette di carne manzottin. Sembra che la carne manzottin non la abbia mai tirata fuori dal bagagliaio. Perché teneva il bagagliaio zeppo di scatole di carne manzottin? Lermita, dica sinceramente, lei ha mai aperto nella sua vita una scatola di carne manzottin, en ha mai gustato il contenuto? - Comissario che cosa vuole da me? Risposi in un tono accentuato di stizza annoiata. - Non la prenda cosí caro Lermita, soltanto voglio che condivida con me questo esperimento – e, dopo aver goffamente frugato nelle tascone della deformata giacca di fustagno giallino che un tempo era forse stata arancione, gonfiate da una intera collezione di grandi mandilli stropicciati che dovevano aver raccolto e seccato intere secchiate di sudore commissarile, en trasse una scatoletta di carne manzottin, infilando l'indice nell'apposito anello con la cautela e il rispetto con cui il giovane sposo infila l'anello nuziale al dito della snella fanciulla davanti all'altare adornato di gigli, anche se in questo caso la manovra era all'inverso giacché si trattava di infilare l'anello nel dito e non il dito dell'anello di modo che non potevo fare a meno di pensare ad un oscena parodia del sacramento, inscenata con sfacciatagine blasfema dal comissario Fabro, per inveterato liberopensantismo o per studiare quelche mia reazione per qualche sua misteriosa ragione, aprí il contenitore metallico, e con l'altra mano rovesció il suo contenuto rosa e gelatinoso in un piattino celeste che il solerte cameriere, a un suo cenno imperioso gli aveva testé recato. I frammenti di carne rosa sfumavano nel grigio torbido della gelatina che verso l'esterno del cilindro, di cui aveva assunto per compressione la forma, andavano acquistando una tonalitá giallina, filamenti sopravissuti ad una soprannaturale macelleria in una nebbia solidificata, tutto il cieco orrore della realtá mi strinse la gola in una morsa ferrea, soffocavo, l'insensatezza impenetrabile dell'essere tremava come un cuore sfiancato negli ultimi battiti rosa dei filamenti che si dibattevano nella loro gelatina; Fabro trasse dal viluppo dei mandilli il suo opinello con cui divise esattamente in due la massa che ai miei occhi pareva palpitante, per un attimo pensai che i frammenti di carne trasformati in pseudopodi schizzassero verso i miei occhi e mi penetrassero nel cervello per succhiarmi quello che mi restava di autocoscienza – Che cosa le succede Lermita? - La voce di Fabro mi liberó da quell'incubo, i filamenti rientrarono nella gelatina e i miei occhi nelle loro orbite. Fabro mi stava offrendo nel piattino azzurro una metá della carne, l'altra meta la stava giá rumorosamente masticando lui, vincendo il ribrezzo con uno sforzo sovrumano la inghiottii anch'io a bocconcini. Perché il Duca Spadaro girava per la valle con il bagagliaio pieno di scatole di carne manzottin? Vi era un qualche legame tra Duca Spadaro e Dreiser Cazzaniga? La carne manzottin aveva qualche cosa a che fare con la morte di Dreiser Cazzaniga? Io en avevo mangiato un pezzo e non ero morto li per li. La carne manzottin era un segnale, un messaggio, una domanda? Dreiser Cazzaniga en conosceva la risposta e per questo doveva essere messo a tacere?
Tristano Lermita
sabato, gennaio 22, 2011
Prima del grande urto
Avrei voluto averti conosciuta
Prima di addormentarmi nella macchina
Di addormentarmi davanti al palmizio
E il rombo poi e tutto quello sfacelo
E il gusto di bile nella bocca e di zinco
E le lacrime della carne come stille
Di rimorso quando ti caddero le forbici dal grembo
E i miei occhi si fecero porosi
Al potassio, al silicio del tuo ventre
Avrei voluto conoscerti prima del grande urto
Prima della voce roca prima della cassa toracica
Della fiera affamata, del pietrificarsi della fiamma nel focolare
Tra stemmi de emblemi avrei voluto conoscerti
Elevando il tuo fiato ad orifiamma
I tuoi occhi a guizzo di tromba il tuo dolore
Come la volpe in fuga si sarebbe nascosto tra le felci
la mia polvere si sarebbe deposta
Sui tuoi scaffali, sui tuoi guanciali come nel sogno
Del gatto che dorme ora sul raso e ti conserva
per se e per me in possibile memoria.
genseki
Prima di addormentarmi nella macchina
Di addormentarmi davanti al palmizio
E il rombo poi e tutto quello sfacelo
E il gusto di bile nella bocca e di zinco
E le lacrime della carne come stille
Di rimorso quando ti caddero le forbici dal grembo
E i miei occhi si fecero porosi
Al potassio, al silicio del tuo ventre
Avrei voluto conoscerti prima del grande urto
Prima della voce roca prima della cassa toracica
Della fiera affamata, del pietrificarsi della fiamma nel focolare
Tra stemmi de emblemi avrei voluto conoscerti
Elevando il tuo fiato ad orifiamma
I tuoi occhi a guizzo di tromba il tuo dolore
Come la volpe in fuga si sarebbe nascosto tra le felci
la mia polvere si sarebbe deposta
Sui tuoi scaffali, sui tuoi guanciali come nel sogno
Del gatto che dorme ora sul raso e ti conserva
per se e per me in possibile memoria.
genseki
Rimorsi
Per tanti anni ho pascolato i miei rimorsi
Alla falda dei tuoi capelli, dimentico
Che nel mondo c'erano ancora nuvole,
Che il ghiaccio continuava a fiorire dal granito
I miei rimorsi li ho nutriti di verbena,
Di rucola, di erba cipollina, ma erano i tuoi capelli
Il loro orizzonte, la tua chioma screpolata e lisa
Il suo odore di acquaragia e nei giorni di festa
Di pinosilvestrevidal.
Neppure il rimorso piú piccolo ho voluto
Lasciarlo preda dei denti, l'ho stretto al petto
Come un tumore, come un ratto lo ho coccolato
E intanto crescevano i tuoi capelli, fino ai larici
Fino al pino mugo gemevano nella brina
Come steli spezzati, gocciolavano appena
Spruzzati di notte a ricordarmi quanto fosse
Pieno, il nostro niente ardente di tanto dolore
E il rimorso un ricorso prudente di fronte
A tutto il male che ci univa nella comune abiezione
Di animali infermi di parola, di verbo infetti
E di voce corrosa.
genseki
Alla falda dei tuoi capelli, dimentico
Che nel mondo c'erano ancora nuvole,
Che il ghiaccio continuava a fiorire dal granito
I miei rimorsi li ho nutriti di verbena,
Di rucola, di erba cipollina, ma erano i tuoi capelli
Il loro orizzonte, la tua chioma screpolata e lisa
Il suo odore di acquaragia e nei giorni di festa
Di pinosilvestrevidal.
Neppure il rimorso piú piccolo ho voluto
Lasciarlo preda dei denti, l'ho stretto al petto
Come un tumore, come un ratto lo ho coccolato
E intanto crescevano i tuoi capelli, fino ai larici
Fino al pino mugo gemevano nella brina
Come steli spezzati, gocciolavano appena
Spruzzati di notte a ricordarmi quanto fosse
Pieno, il nostro niente ardente di tanto dolore
E il rimorso un ricorso prudente di fronte
A tutto il male che ci univa nella comune abiezione
Di animali infermi di parola, di verbo infetti
E di voce corrosa.
genseki
Un'altra Melisande
Ancora su Melisanda si distende il pensiero
Avvinto dalla sua natura vegetale,
Dal suo pullulare e germogliare dal susurro
Che sono le sue parole, la memoria radicale
Non sa di luoghi la sua tensione è atopica
Si sviluppa sempre come dentro se stessa
Per questo e solo per questo la chioma, rossa,
O aranciata è mistica imitazione dell'acqua
Ovazione al multiple frullo di tanti uccelli
Tutti vorrebbero bere dai suoi capelli
Io vorrei bere dai suoi capelli
La conoscenza liquida dello sprofondare in verticale
Nel corpo terroso ehe ci modella.
Il vero abbraccio è abbraccio di acqua e terra
Il solo amplesso in cui tutto si trasforma
Nella prossimitá del senza forma.
O Melisanda che non hai dato frutto
Ma solo chioma e rami d'etere e cromo
Nei pozzi rabbrividiva in te l'estraneitá
Gelida dei cieli, delle loro metalliche distanze
Ma lo spazio era nulla al tuo narcotizzante germinare
Le tue parole ti ricoprivano come corteccia.
*
genseki
Avvinto dalla sua natura vegetale,
Dal suo pullulare e germogliare dal susurro
Che sono le sue parole, la memoria radicale
Non sa di luoghi la sua tensione è atopica
Si sviluppa sempre come dentro se stessa
Per questo e solo per questo la chioma, rossa,
O aranciata è mistica imitazione dell'acqua
Ovazione al multiple frullo di tanti uccelli
Tutti vorrebbero bere dai suoi capelli
Io vorrei bere dai suoi capelli
La conoscenza liquida dello sprofondare in verticale
Nel corpo terroso ehe ci modella.
Il vero abbraccio è abbraccio di acqua e terra
Il solo amplesso in cui tutto si trasforma
Nella prossimitá del senza forma.
O Melisanda che non hai dato frutto
Ma solo chioma e rami d'etere e cromo
Nei pozzi rabbrividiva in te l'estraneitá
Gelida dei cieli, delle loro metalliche distanze
Ma lo spazio era nulla al tuo narcotizzante germinare
Le tue parole ti ricoprivano come corteccia.
*
genseki
La tua voce
No, la tua voce non la trovi nella poesia
Non risuona nel gioco delle vibranti
Liquida come il guizzo della lingua
Nel sogno torrenziale del bacio,
Di quel bacio, o di quel petalo
La tua voce non si spezza qui in inflessioni
Di edera e di felce elastiche come il passo
Di una mattina elegante correndo in un parco alla moda
Tra scoiattoli e tepore non raschia l'intonaco
Non aderisce alla pietra come la lucertola agostana
Nel chiaroscuro del patio, non brilla nel fondo del pozzo
Come la corona di Melisanda
Non affoga avvolgendo come la cascata dei suoi capelli
Melisanda appartiene al mondo vegetale,
Esprime il desiderio della clorofilla
La tua voce furono forse le spine che la prefigurararono
O il luppolo scabroso e adesivo, ma certo sotto la sua pelle
Vellutata da pomice e borotalco
É l'animale che si tende nel sua salto verso la morte
La tua voce si faceva di malva e violetta
Aprendosi al mio goffo silenzio
Come il bosco al ricordo del temporale
Ma a stento contiene i brividi lo strazio
Degli artigli, la convulsione gemella della preda e del predatore
La tua voce non risale dalla profonditá della poesia
Fino a farsi coscienza della parola ma si acquatta nella sua morte
Come un bianco felino in una tana,
Madida e felpata, come la tua lingua di un altro bacio
...
Non risuona nel gioco delle vibranti
Liquida come il guizzo della lingua
Nel sogno torrenziale del bacio,
Di quel bacio, o di quel petalo
La tua voce non si spezza qui in inflessioni
Di edera e di felce elastiche come il passo
Di una mattina elegante correndo in un parco alla moda
Tra scoiattoli e tepore non raschia l'intonaco
Non aderisce alla pietra come la lucertola agostana
Nel chiaroscuro del patio, non brilla nel fondo del pozzo
Come la corona di Melisanda
Non affoga avvolgendo come la cascata dei suoi capelli
Melisanda appartiene al mondo vegetale,
Esprime il desiderio della clorofilla
La tua voce furono forse le spine che la prefigurararono
O il luppolo scabroso e adesivo, ma certo sotto la sua pelle
Vellutata da pomice e borotalco
É l'animale che si tende nel sua salto verso la morte
La tua voce si faceva di malva e violetta
Aprendosi al mio goffo silenzio
Come il bosco al ricordo del temporale
Ma a stento contiene i brividi lo strazio
Degli artigli, la convulsione gemella della preda e del predatore
La tua voce non risale dalla profonditá della poesia
Fino a farsi coscienza della parola ma si acquatta nella sua morte
Come un bianco felino in una tana,
Madida e felpata, come la tua lingua di un altro bacio
...
Scoriosozzo
Che cosa ci faceva Dreiser Cazzaniga nei boschi di Scoriosozzo, che cosa lo aveva spinto a recarsi alle pendici del Monte Mucrone, alle soglie alte e luminose della Melanopartene, che avvolta nei suoi sette mantelli rossi benediceva il dolore dei pellegrini accogliendoli uno a uno tra i pesanti panneggi per un tempo sempre molto breve ma che ai meschini pareva un'eternitá di muschiosa beatitudine? Era difficile rispondere anche e soprattuto ora che questa domanda non si poteva piú farla direttamente a lui. Il Commissario Fabro pensava che Dreiser Cazzaniga dovesse conoscere qualcuno nel paese di Scoriozozzo; la difficoltá, tuttavia, stava nel fatto che il pasello di Scoriozzozzo in realtá non esisteva, e non solo non esisteva, nemeno aveva abitanti, Scoriosozzo era solo il mortuario sogno massonico di una pallida e grassa borghesia pedemontana. Quello che avrebbe potuto sembrare un borgo pittoresco radicato solidamente nel tempo e nel granito grigio del costone era in realtá solo un incastro di villule ottocentesche dalle forme grottescamente iniziatiche, simboliche, egiziane, di quell'Egitto di cartapesta e tarocchi che tanto affascinava il grasso Schikaneder. Certo dopo piú di un secolo quei tristi manieri melodrammatici in cui il granito era impiegato per imitare la cartapesta e che poggiavano su creste e costoni anch'essi di granito avevano assunto un tale convinzione del loro ruolo nel paesaggio da far si che Scoriozozzo potesse apparire un borgo agli occhi del viandante e persino del villegiante se non fosse stato che non aveva abitanti, e se non aveva abitanti come poteva Dreiser Cazzaniga essere ospitato da uno di loro per essere poi assassinato? In realtá nella valle si diceva o meglio si mormorava che un abitante residesse in quel triste mondo sarastriano anche se solo pochi si azzardavano a pronunciare il suo nome: un tale Duca o Buca detto anche Tucano: grasso, grasso, grasso, con lo sguardo perso perennemente in una smorfia di meraviglia eravi che diceva averlo scorto intento a far provvista di legna sul Mucrone e su Serretto nell'iminenza dell'inverno rigido di Scoriozozzo. Mo dove viveva, nessuno pareva saperlo a volerlo rivelare. Comunque Tristano decise di seguire il lentissimo Fabro nella sua ricerca. Il borgo di Scoriosozzo non lo si poteva percorrere senza essere scossi da un certa inquietudine, le sue magioni altezzose rivelavano nel portamento che la loro origine non era nell'arroganza rapace e spensierata di una feroce aristocrazia alpina, adusa alla razzia e al gelo, ma nei costumi biedermeier di un opulenta e untuosa e tronfia e suina borghesia di pianura e della pianura piú stagnante del continente. Stagnante nel suo ottuso benessere, nella sua cultura cimiteriale, nei suo entusiasmi cadaverici, nella sua grossolana teosofia. Scoriosozzo non era un borgo era un sogno molesto che si era a tal punto aggrappato al granito e alle robuste radici dei faggi da aver acquistato le convincenti sembianze di una solida esistenza. Scoriosozzo lo faceva star male come una sonata di Schubert suonata dalla figlia scrofolosa di un industriale di pianura per i suoi compari di sfruttamento e stupro prima di andarsene tutti al bordello marocchino a sodomizzare le tredicenni, Non poteva sopportare di immaginare i salotti tivestiti di mogano in cui un tempo la luce proveniente da pomposi candelabri illuminava tremante i ritratti di antenati comprati al mercato dell'antiquariato a metri quadri.
Tristano Lermita
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