giovedì, dicembre 16, 2010

A bocca spenta

Chi potrebbe dormire con i piedi
Anche ravvolti nel camicione
Come fossero due baci qualsiasi?
I piedi lasciali fuori dal tuo sonno.
Nel mio posso accogliere anche loro
Con tutti gl altri pesci
A bocca spenta.

genseki

lunedì, dicembre 13, 2010

Le tue calze

Le tue calze stese sul balcone
Trionfavano dell’angolo del quinto piano
Ma il vero tepore era quello dentro
Il tinello, il latte, il sapone, lo zinco
Ti guardavo dormire senza piedi
E aspettavo il freddo del mattino
Per godere di un altro caffè
Della vista delle ortensie disseccate
Dal vetro del tram sognando arance
Su fino alla collina del cancro
Pensavo al tuo fianco stanco
Orizzonte del mio riposo.

genseki

Achim von Arnim


Breton su Arnim

Parte I

Breton su Achim von Arnim

All'epoca in cui il ventenne Achim von Arnim studiava fisica e matematica all'universitá di Goettingen si affrontano due concezioni scientifiche l'una delle quali assai recente, che lungi dal tendere ad avvicinarsi intraprendono l'una contro l'altra una lotta mortale. Nelle circostanze storiche in cui tale dibattito si svolge, per uno spirito agile e ardente come quello di Arnim non è possibile la neutralitá. Per renderlo comprensibile non mi resta che ripercorrere le peripezie a prima vista curiose del dramma mentale che allora si rappresentava sotto l'apparenza puramente intellettuale di imporre una scelta tra due metodi, quello sperimentale e quello speculativo che portano con sé la necessitá di scegliere tra due spiegazioni profondamente discordanti del mondo e della vita.
Non si insisterá mai troppo sul ruolo che la fisica ha svolto nelle preoccupazioni dei romantici. La ranocchia scorticata che, inaspettatament nel 1786, sul tavolo di Galvani, compie il movimento ben conosciuto, tenendo conto della straordinaria rivelazione che ha rappresentato per loro, dell'aiuto che ha loro donato nella percezione di un mondo nuovo, subito agghindato di mistiche grazie e dell'abitudine che essi acquisirono di mettere il loro cuore a nudo, proprio come il suo, ebbene, poeticamenente quella ranocchia potrebbe essere considerata il loro totem. Ora, quando nell'anno 1800 Arnim entra nel circolo universitario di Iena, è notevole che il suo genio lo attragga verso Ritter che, movendo dall'esperinza di Galvani giunge, con Volta, di cui ignorava le ricerche, a mettere in luce alcuni fenomeni suscettibili di confermare la scoperta del magnetismo animale. La figura di Ritter, effettivamente sembra la piú attraente del momento. Fisico, ma anche cabalista, teosofo e poeta, Ritter, come egli stesso narra nei suo “Frammenti” era afflitto da un tic bizzarro che si presentava come un folletto e che ricorda molto da vicino la “scrittura automatica” dei medium. Tale tic lo obblgava a interrompersi continuamente mentre scriveva e ad annotare sui margini le cose piú buffe. Questo surrealista ante litteram diviene dopo Mesmer il piú grande apologeta del sonno, grazie al quale, dice, “L'uomo ricade nell'organismo universale, è davvero onnipotente fisicamente, si muta in un mago”. Egli si concentra sul magnetismo e sul sonnambulismo. Scrive: “nel magnetismo animale si esce dall'ambito della coscienza volontaria per entrare in quello dell'attivitá automatica, ove di nuovo il corpo organico si comporta come una cosa inorganica e ci rivela cosí, contemporaneamente i segreti di due mondi”. Per farsi un'iea precisa delle sue idee e dell'estensione dei suoi interessi prendiamo in considerazione questa affermazione: “Molti dei miei frammenti non ho potuto pubblicarli, perché nella loro forma primitiva sarebbero apparsi troppo scabrosi, soprattutto uno, composto poche settimane prima del matrimonio dell'autore e che è di tale natura che sarebbe sembrato impossibile che con idee simili un uomo potesse pensare di sposarsi”. A quanto pare si trattava della storia dei rapporti sessuali attraverso i secoli, con, a modo di epilogo una descrizione della forma ideale di tali rapporti, fatta in modo tale che “nessun giudice, nemmeno il piú liberale sarebbe stato clemente con l'autore, nonostante il rigore della dimostrazione”. È significativo che Achim von Arnim, la cui prima opera è un “Abbozzo di una teoria dei fenomeni dell'elettricitá” fosse ospite abituale nella casa di campagna di Ritter a Belvedere presso Iena. È in questa casa che si organizza un “partito anti-schelling” e si attacca vivacemente la sua “Filosofia della Natura”. Ritter considerava il sistema di Schelling “un pezzo di fisica” e considerava il suo autore “incapace di essere un vero filosofo: un filosofo chimico, niente di piú che un filosofo-elettricista”. Alcuni autori menzionano, in questo periodo della vita di Arnim, l'esistenza di una relazione con Novalis. Pare, tuttavia, che si trattase solo di contatti occasionali dovuti ad un legame di riconoscenza che legava Ritter a Novalis che l'aveva scoperto e strappato alla sua condizione miserabile. Nonostante le sue frequenti e sospette incursioni nel mondo metafisico, tutto fa pensare che uno scienziato di gran classe come Ritter godesse, agli occhi di un giovane formato al rigore metodologico e di temperamento curioso come Arnim, di un maggior prestigio che un poeta mistico smarrito a un punto tale da rimproeverare a Fichte di non aver posto l'estasi alla base del suo sistema. In ogni modo la morte di Novalis nel 1801 rende la sua influenza possibile su Arnim temporalemente molto limitata. Sappiamo inoltre che Arnim, che subito si interesó ai lavori di Priestley e di Volta, e a quelli del fisico umorista Lichtemberg, e il cui protestantesimo era sensibilmente kantiano, non intrattenne nessuna relazione personale con Schelling. Siccome fu tra i primi a condannare la su “Filosofia della natura”, non poté, necessariamente seguire il suo autore attraverso i capricci della sua evoluzione e neppure, a maggior ragione accodarsi quando l'opportunismo, che per meglio sedurre Schelling aveva preso la forma di caroline Schlegel, gli dettó la conversione alle idee piú nebulose di Ritter e di Jacob Boehme che impregnavano il neocatolicesimo di allora.

mercoledì, dicembre 08, 2010

Nei giardini di Adone

Nei giardini di Adone coltivo vane parole
Effimere come teneri piselli -
Che il gelo di febbraio non permette,
E il timido bramito di rampicanti
Invano alzano al luminoso melo -
Prosperare fino al pallido verde
Che riassume l’orto nella sua delicata
Finita tessitura sonora, fuga e contrappunto
Tra sperma e clorofilla
Persino la lavanda geme il suo profumo
Nel giocondo canestro pronta
A morire avendo appena il tempo
Di rammemorare l’amido e la zampogna.

genseki

sabato, dicembre 04, 2010

La voce

È la parola che alberga la voce
La mia parola rifugio al tuo discorso
Al canto forse, ti modula la bocca
La tua parola suscita il mio fiato
Non lascia dimorare la mia lingua
La parola è rifugio della voce, canestro
Ove riposa in frequente sussulto
Fragranza è la voce nella spazio del dire
Nella morta parola sovrana voce sparge
Polline e strilli demenza e campane
Fino a che tutto il suono sia incarnato.

La paura

Era d’asfalto

Era d’asfalto la lingua bianca
La lingua della paura
E il prato era oltre quel nastro
Quel bianco che lecca cento metri di denti
Ê pane la mia paura, è mollica
Tu sei il suo latte
Gocciola tepore con roco fiato
Scaldato al rosso degli scogli
Era d’asfalto la paura
Quella bianca sul prato
Quella che confonde i pioppi con le gocce
Con un asfodelo in mano
Davanti al parabrezza hai aperto
La porta della paura
Nel tripudio sconcio di mille denti.

Briggio: La Stazione

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venerdì, dicembre 03, 2010

Mouchette

I giardinio d'Adone

Fioriscono nei giardini d’Adone
Sillabe, corolle di senso , effimere
In vimini e coccio
Versi maschere rime e tanti altri petali
Soavi al tatto, al credere; fuori
Incede alta foresta col ritmo del Vero
Brucia corona di specchi ogni chioma
E parla solo chi brucia
E cenere consola.

Raccogli viandante nel palmo della mano
Le reliquie di questo incendio
Che fu occhio e cuore
E sangue feconderá il tuo giardino
Fino alla prossima resurrezione.

Nessuno che sia saggio
Protegge la parola, la sua dal fuoco
Lascia che dilegui in altra bocca
D’altri ancora tormento e sospetto

Fioriscono ancora nei giardini d’Adone
Rime e parole, giá cavo il respiro si fa fiamma
D’altri petali, d’altre carezze e cenere
Ove sospetto ora foresta ora morte.

Lo sciamano di Briggio

Anche Briggio come alquanto altri barrios valligiani possdeva il proprio sciamano, colui che era incaricato di tramandare le gesta ella stirpe e la continuitá delle tradizioni e della parlata. Lo sciamano del barrio di Briggio aveva un nom benedetto, dorato: era infatti chiamato Abbondio, Abbondio Agatupolo e tutti nelle stradine strette e scivolose, cui l’umiditá quasi perenne conferiva odore di muffa, muschio e bollitura di cavol con mosto solevano designarlo con rispetto, o a volte con mal disimulata stizza Mastro Abbondio. Di origine forse levantina giunse nel barrio come calafato e fattosi ginnasiarca si elevó poco a poco con le sole sue forze fino alla prestigiosa carica di sciamano che nessuno per lunghissimi anni pensó mai di contendergli. No, mai fu sfidato Mastro Abbondio. Di modesta statura e carnagione scura aveva la fronte scolpita da tre profonde rughe che si accentuavano quando assumeva il fiero cipiglio con cui era solito presentarsi in pubblico nelle occasioni ufficiali e nelle festivitá e proprio nel centro delle tre rughe come un punto di intersezione un pronunciata prominenza callosa, come una specie di piccolo corno.
Si fissó nella memoria del giovin Dreiser Cazzaniga, tale prominenza, come marchio del sapere e della cultura a tal segno che quando giá era uno studioso, onesto adolescente non poteva figurarsi Cicerone, Patone o Aristotele stesso senza una pronuncatissima protuberanza frontale come unicorni, insomma del Parnaso. Voce aveva roca e carnosa per lo smodato uso di nicotina che ingiallivagli altresí le falangi dell’indice e del medio della mano destra. Gran parte della sua vita era dedicata alla stesura di una monumentale “Historia Barrii Briggi” grazie a una cospicua documentazione messagli a disposizione dal fratello, persona grigia e da tutti ignorata nonostante i somigliassero come due gocce d’acqua, forse proprio pe l’assenza del corno di Mastro Abbondio. Della sua maggiore fatica soleva egli dare pubbliche letture in molto contate occasioni, sfogliava allora davanti agli attoniti briggesi immensi fasci di scartafacci, borbottando con voce roca che si confondeva nel fruscio pergamenaceo senza mai iincontrare quelloche cercava. Queste letture non erano lette perché non trovava mai quello che aveva intenzione di leggere. Alla sua morte non fu possibile trovare traccia dell’opera sua maggiore, nemmeno poche righe che si potessero ad essa attibuire. Tra colpi di tosse e arzigogoli delle mani egli riusciva, tuttavia di comunicare ai briggesi la tesi principale che aveva scoperto e dimostrato. I briggesi erano originari di Trebisonda, in Asia Minore ed erano giunti nell’umido barriio chiamati da un rdine monastico del luogo per la loro perizia artigianale nella produione di oggetti sferici, biglie, perle, pelote e palle. Adduceva come prova di questa teoria il fatto che nella parlata briggesi si trovassero elementi celtici. Il fatto che a Trebisonda non vi fossero celti e che anzi un proverbio di Cappadocia citato da Bessarone suonasse: “Raro come un celta in Trebisonda” non turbava i briggesi che non sapevano chi fosse Bessarione e non avevano mai udito parlare di Cappadocia. L’ordine monastico poi aveva la sua sede in Marsiglia ed era stato fondato molti secoli dopo l’esodo preteso dei briggesi da Trebisonda secondo lo stesso mastro Abbondio; neppure questa contraddizione aveva peró il potere di scuotere la ferma fede che gli abitanti del barrio riponevano nel loro sciamano, vuoi percé non la notavano, vuoi perché il fatto di potersi fregiare di tale esotica provenienza gli faceva sentire superiori agl altri villani che appartenevano al luogo dove erano spuntati come funghi dall’umido sottobosco.
Soleva Mastro Abondio abbellire il suo discorso con citazioni in antiche, illustri lingue straniere e soprattutto in castigliano. Grande e amara fu la sopresa del giovin Dreiser Cazzaniga quando, avendo appreso egli il castigliano, dovette rendersi conto del fatto che le citazioni di Mastro Abbondio non solo non erano in castigliano ma in uno scorretto gagliego, ma che nemmeno il loro significao coincideva con quello che Mastro Abbodio gli attribuiva. La figura dello Sciamano cadde fragorosamente nella mente di Dreiser Cazzaniga laciando il suolo cosparso di cocci taglienti. Per lunghi anni Dreiser Cazzaniga irrise e rabbiosamente denigró Mastro Abbondio e l’opera sua e solo dopo che vari lustri accumularono sulle sua spalle dolore e delusioni comprese che Matro Abbondio aveva svolto nel Barrio una nobile e amara funzione, non per le sue conoscenze e per la sua cultura, ché non possedeva né le une né l’altra, ma per aver saputo scolpire nelle anime dei giovani briggesi il rispetto per il sapere e l’amore per la propria terra e la propria stirpe facendo in modo che si sentissero parte di una vicenda che superava le loro vite individuali e affondava nei secoli, che si sentissero un popolo, pochi anni prima che la televisione finisse pre traformarli definitivamente in una plebe stracciona dipendente dall’annona.

venerdì, novembre 19, 2010

Per i tre grandi maestri del realismo drammatico del XVII secolo, Caravaggio, Rembrandt e Bernini, lo spechio è un'utensile quasi altrettanto importante del pennello, o lo scalpello. L'obiettivo consisteva nello scongelare l'espressione della passione, liberandola dalle restrizioni imposte dai modelli classici; nel dotare della maggiore autenticitá possibile la mobilitá naturale del volto e i gesti del corpo. E mentre si convertivano nei loro propri modelli per portare a compimento questo processo di animazione, scoprirono l'intensitá della propria identificazione con la storia che raccontavano. Autoritraendosi, gli artisti si trasformavano in attori e pubblico contemporaneamente, i produttori e consumatori della propria rappresentazione.
Simon Schama
Il potere dell'arte
Bernini

Memorie di Dreiser Cazzaniga

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Memorie di Dreiser Cazzaniga

L'Africa di Dreiser Cazzaniga

Come avvenne che Dreiser Cazzaniga nel pieno della sua amara goventú finisse nel Cuore Tenebroso del'Africa Equatoriale? Neppure lui riuscí mai a chiarirselo bene. Per imitare Rambaldo? Per idealismo? Per paura? Per desiderio di avventtura? La sola cosa che Dreiser Cazzaniga mostró sempre di sapere con sicurezza fu che la decisione sciagurata la prese durante un'escursione con Beaumont in un mattino fragrante tra l'abetaia e il mare dell'adolescenza mentre presentiva la discesa del Dio ladro e medico di cui a quei tempi adorava le tracce lievi sui prati e l'arena: Hermes.
Poi la decisione la mantenne. L'Africa di Dreiser Cazzaniga fu una discesa iniziatica nelle viscere della sua pretenziosa ingenuitá. Lui, a volte la chiamava proprio stupiditá. Dreiser Cazzaniga era stato programmato per essere un perdente (lo abbiamo giá visto).
Il viaggio comincio nei Paesi bassi cattolici, Dreiser Cazzaniga ricorda di come fu portato quasi di peso dall'entusiasmo degli amici fino al'aereo. Era il primo aereo dela sua vita e non capí niente di quello che doveva fare per imbarcarsi. Se lo trovó fatto, lo fece, insomma senza poi potersi ricordare quello che aveva fatto. Poi fu una locanda aeroportuale piena di ubriachi calvi provenienti dalla poderosa isola di Albione che vomitavano e pisciavano per i corridoi e sugli ascensori. Piú morto che vivo, in una mattina di riflessi di cromo raggiunse il velivolo che doveva portarlo in Camerun. Del volo non ricordó mai pú nulla salvo lo scalo a Kano per problemi di stabilitá dovuti all'infuriare del vento Rosso, l'Harmattan. Restarono ore nell'aereoport che doveva essere rovente avvolti in una fiammegiante nebbia di sabbia rossa. Il suo casuale compagno di viaggio era un bulgaro che gli spiegava in una specie di inglese (Dreiser no capiva l'inglese) come per vincere la paura dell'Africa la cosa migliore fosse l'acquavite di ginepro di cui aveva una bottiglia in ogni tasca della sahariana. (Dreiser Cazzaniga anche se non capiva l'inglese capiva perfettamente quello che il bulgaro voleva dirgli in quello che egli credeva fosse inglese). Poi l'aereo decolló e dopo una serie infinita di vuoti d'aria finalmente atterró a Douala. Una nube di calore insopportabile e umido come quello del calderone di una antica tintoria colpí e avvolse il poverso Dreiser Cazzaniga mettendo al tappeto quel poco che restava del suo buon senso giá screpolato da ore e ore di ansia intervallate da raffiche di paura. Nel mezzo di una folla frenetica egli cominció a distribuire scellini, franchi, corone, talleri a qualsiasi sbirraccio gli si avvicinasse con fare minaccioso e si ritrovó senza bagaglio in una cella di fango secco dal suolo di fango pisciato in mezzo a topi e escrementi e altri insetti in qualche luogo attorno all'aeroporto di Douala. Dopo un tempo che non seppe mai calcolare nel ricordo la porta si aprí e un uomo entró gridando: “Dreiser! Dreiser!” Distribuendo pacche sulla spalle a tutti gli sbirracci e sorrisi e sigarette, fece cenn a Dreiser Cazzaniga di seguirlo. Dreiser Cazzaniga lo seguí. Era un gigante canuto dalla dentatura gialla e nera, portava una camicia che la settimana precedente aveva dovuto essere bianca, e una collana di denti di varie fiere anch'essi gialli e neri in mezzo ad altri feticci pelosi, stivali messicani, la fondina di una pistola in cui teneva le chiavi della macchina e il guinzaglio di uno dei suoi cani. Dreiser Cazzaniga entró nella sua macchina come si entra in un frigorifero, la barba gli si ricoprì si brina. Avrebbe trascorso i primi venti giorni in Africa tormentato da una violenta bronchite. L'interno della macchina era pieno di denti, conchiglie e feticci pelosi che pendevano sporchi da ogni gancio disponibile. Sui sedili giacevano abbandonati porno di Taiwan e film di Kungfu di Hongkong. Dreiser Cazzaniga si abbandonó alla spossatezza che precede la morte bianca mentre il veicolo si apriva il passo in un delirio di claxon e di mani tese che il Señor Zocco si affrettava a colmare di banconote stropicciate. La casa di Don Zocco era circondata da altissimi muri, cani rabbiosi, servi servili, siepi spinose. Dreiser Cazzaniga en varc'il cancello con il rombo rovente della febbre nelle tempie. Un servo in mutande trateneva a stento un cane dai denti coperti di una leggera bava rosa, Dreiser Cazzaniga non aveva piú forza per avere paura. La sua stanza gli fu mostrata e Don Zanco lo invitó a trascorrere la serata, se avesse voluto con i suoi invitati in piscina. Dreiser Cazzaniga declinó l'invito, ovviamente, Un motore di Boeing ronzava senza sosta nella sua testa, lo assordava lo spingeva a fumare una sigaretta dopo l'altra.
Solo. Cercava di dormire. Il motore non si spegneva, la notte era come un'immensa spugna caldissima e profumata, che ottundeva i sensi e lasciava solo il sussulto di sporadici palpiti di paura. Dreiser Cazzaniga cercó un po' di fresco guardando fuori dalla finestra. a finestra dava sulla piscina, nella piscina Don Zanco e i suoi amici saltavano tra gli spruzzi circondati da una decina di schiamazanti ragazzine nude. Sembravano trainati dalle punte dei loro sessi turgidi sui forti corpi spossati dal gin. Dreiser Cazzaniga rinunció a scendere in piscina, si rassegnó al motore del Boeing, si lasció cadere sul letto e cadde in un doloroso sopore. Poi il motore si spense, Dreiser Cazzaniga precipitó con terrore nel nulla del suo silenzio interno. Si riseveglió gridando nel silenzio azzurro della sua prima mattina africana, nell'illusione tanto dolce che i grandi alberi che incorniciavano il paesaggio che si vedeva dalla finestra fossero scaturiti di colpo dalla terra proprio nel corso di quella sola notte.

Memorie d Dreiser Cazzaniga




Il Barrio di Briggio ove Dreiser Cazzaniga trascorse la prima gioventù.
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Il folle melograno

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