sabato, dicembre 18, 2010

Ontologia e caffé

Il caffé lo preferivi senza sale
L'ontologia dialettica
Scendevi le scale da anni nei miei sogni
E le tue ascelle erano il nido
O la tana tiepida del mio frugare
L'indivia nel tinello
L'odore di ammoniaco sul pianerottolo
Tutto quanto in una luce di sabato mattina
Vissuto al mercoledi, non pensavo nemmeno
A togliere i tuoi alluci dalle tasche del mio cappotto
Quando dovevo andare al Collegio Docenti
Gli accarezzavo mentre dormivo sul calorifero
Ma comprando il giornale mi dimenticavo il tuo nome
Il tuo indirizzo era quello di un altro portone
Se sventolavi lo facevi da un altro balcone
Il mio desiderio si perdeva tra le antenne
Poi ti incontravo in una nuova latteria
E era sempre una sorpresa vederti tra i ceci
E la mezzaluna fragrante della panissa
E non sapere come cominciare quel discorso
Che si era tane volte interrotto per sempre.

*
genseki

Nascita del canto

Poi sarebbero apparse anche le ali
Sole, sull'orizzonte come una fuga di pioppi
Nel crepuscolo del parabrezza
Come l'arco di un'arpa vulcanica inclinata sulla pianura
E noi due li a tremare
Con i palmi madidi delle mani
Con i pollici in astinenza e tutto quel rimorso di bottiglie
Sulla sporcizia dimenticata dei tavoli
Immonde nella loro diafana immensitá
Ci minacciavano fin nel ventre del bagagliaio
Dove ci stringemmo tra catene e ruote di scorta
Nel desiderio di un'altra nascita canora.

genseki

Honegger: Une Cantate de Noel (Christmas Cantata) (1/3)

Da altri vertici mossa, sibilando, fragorosa
Come lava che nel suo cammino sfrigolando soffoca
L'ascoltavo avanzare ma il nero, l'oscuro
Non era il manto, non l'avvolgente panneggio
Che rifulgeva notturno; l'ossame avariato
Che ticchettava nella sua voce e quell'odore di farina
Che finiva per disfare anche la speranza.
Non lasciavano spazio alla serenitá selvosa
Che percepivo salire dal muschio, dalla foglie di betulla
Gioielli sul velluto delicato degli aghi di pino.
Alle spalle, come l'alito dell'attesa, gialla
Come l'avorio dello sfinimento con passo arenoso,
Tra gli anemoni marciti delle primavere che mancammo
Scendeva come fuoco incerto serpeggiante tra trucioli,
Tra rovi, da vertici ove i Baal sanguinavano dai ventri
Gonfi e crudeli, la maledizione sfinita
Che evocammo sul nostro abbraccio
A sigillarne il patto infecondo come monete
Prestate l'una all'altra nel mutuo d'usura dei corpi.
Cosí ci avrebbe trovati come il morto diadema
Nella tomba dello scrigno vuoto tra le risatine dei sorci
E lo schiamazzare dei corvi pochi istanti prima
Che tutto il bosco crollasse e la realtá del male
Si svelasse nella sua nausea d'oceano.

genseki

Al confine, al silenzio

Era nel punto di intersezione del sogno
Che perforava la palma il centro di quella e altre reti
Staccionate, filo spinato
altri limiti e canalizzazioni come vene
Dello spazio inclinato, del manto, della pelle
Era nel punto in cui il sogno confina con il simbolo
Sotto quel lnguaggio frondoso, la brezza di trillanti ghirlande
E l'anima che il pollame lascia cadere nelle piume bianche
Che avanzava verso il proprio sogno
E che in esso avanzanza anche quel nulla
L'altro, il senza tempo, l'oscuro volto di luce assoluta
E non era che il suo corpo addormentato
Quello che carbonizzava le parole, che si assopiva nei suoi brividi
Che si faceva eterno nel panico e poi nell'alito
Piú fermo ancora convinto in se stesso posto
A guardia del suo concepirsi di fronte alla possibilitá
Al confine, al silenzio.

genseki

giovedì, dicembre 16, 2010

A bocca spenta

Chi potrebbe dormire con i piedi
Anche ravvolti nel camicione
Come fossero due baci qualsiasi?
I piedi lasciali fuori dal tuo sonno.
Nel mio posso accogliere anche loro
Con tutti gl altri pesci
A bocca spenta.

genseki

lunedì, dicembre 13, 2010

Le tue calze

Le tue calze stese sul balcone
Trionfavano dell’angolo del quinto piano
Ma il vero tepore era quello dentro
Il tinello, il latte, il sapone, lo zinco
Ti guardavo dormire senza piedi
E aspettavo il freddo del mattino
Per godere di un altro caffè
Della vista delle ortensie disseccate
Dal vetro del tram sognando arance
Su fino alla collina del cancro
Pensavo al tuo fianco stanco
Orizzonte del mio riposo.

genseki

Achim von Arnim


Breton su Arnim

Parte I

Breton su Achim von Arnim

All'epoca in cui il ventenne Achim von Arnim studiava fisica e matematica all'universitá di Goettingen si affrontano due concezioni scientifiche l'una delle quali assai recente, che lungi dal tendere ad avvicinarsi intraprendono l'una contro l'altra una lotta mortale. Nelle circostanze storiche in cui tale dibattito si svolge, per uno spirito agile e ardente come quello di Arnim non è possibile la neutralitá. Per renderlo comprensibile non mi resta che ripercorrere le peripezie a prima vista curiose del dramma mentale che allora si rappresentava sotto l'apparenza puramente intellettuale di imporre una scelta tra due metodi, quello sperimentale e quello speculativo che portano con sé la necessitá di scegliere tra due spiegazioni profondamente discordanti del mondo e della vita.
Non si insisterá mai troppo sul ruolo che la fisica ha svolto nelle preoccupazioni dei romantici. La ranocchia scorticata che, inaspettatament nel 1786, sul tavolo di Galvani, compie il movimento ben conosciuto, tenendo conto della straordinaria rivelazione che ha rappresentato per loro, dell'aiuto che ha loro donato nella percezione di un mondo nuovo, subito agghindato di mistiche grazie e dell'abitudine che essi acquisirono di mettere il loro cuore a nudo, proprio come il suo, ebbene, poeticamenente quella ranocchia potrebbe essere considerata il loro totem. Ora, quando nell'anno 1800 Arnim entra nel circolo universitario di Iena, è notevole che il suo genio lo attragga verso Ritter che, movendo dall'esperinza di Galvani giunge, con Volta, di cui ignorava le ricerche, a mettere in luce alcuni fenomeni suscettibili di confermare la scoperta del magnetismo animale. La figura di Ritter, effettivamente sembra la piú attraente del momento. Fisico, ma anche cabalista, teosofo e poeta, Ritter, come egli stesso narra nei suo “Frammenti” era afflitto da un tic bizzarro che si presentava come un folletto e che ricorda molto da vicino la “scrittura automatica” dei medium. Tale tic lo obblgava a interrompersi continuamente mentre scriveva e ad annotare sui margini le cose piú buffe. Questo surrealista ante litteram diviene dopo Mesmer il piú grande apologeta del sonno, grazie al quale, dice, “L'uomo ricade nell'organismo universale, è davvero onnipotente fisicamente, si muta in un mago”. Egli si concentra sul magnetismo e sul sonnambulismo. Scrive: “nel magnetismo animale si esce dall'ambito della coscienza volontaria per entrare in quello dell'attivitá automatica, ove di nuovo il corpo organico si comporta come una cosa inorganica e ci rivela cosí, contemporaneamente i segreti di due mondi”. Per farsi un'iea precisa delle sue idee e dell'estensione dei suoi interessi prendiamo in considerazione questa affermazione: “Molti dei miei frammenti non ho potuto pubblicarli, perché nella loro forma primitiva sarebbero apparsi troppo scabrosi, soprattutto uno, composto poche settimane prima del matrimonio dell'autore e che è di tale natura che sarebbe sembrato impossibile che con idee simili un uomo potesse pensare di sposarsi”. A quanto pare si trattava della storia dei rapporti sessuali attraverso i secoli, con, a modo di epilogo una descrizione della forma ideale di tali rapporti, fatta in modo tale che “nessun giudice, nemmeno il piú liberale sarebbe stato clemente con l'autore, nonostante il rigore della dimostrazione”. È significativo che Achim von Arnim, la cui prima opera è un “Abbozzo di una teoria dei fenomeni dell'elettricitá” fosse ospite abituale nella casa di campagna di Ritter a Belvedere presso Iena. È in questa casa che si organizza un “partito anti-schelling” e si attacca vivacemente la sua “Filosofia della Natura”. Ritter considerava il sistema di Schelling “un pezzo di fisica” e considerava il suo autore “incapace di essere un vero filosofo: un filosofo chimico, niente di piú che un filosofo-elettricista”. Alcuni autori menzionano, in questo periodo della vita di Arnim, l'esistenza di una relazione con Novalis. Pare, tuttavia, che si trattase solo di contatti occasionali dovuti ad un legame di riconoscenza che legava Ritter a Novalis che l'aveva scoperto e strappato alla sua condizione miserabile. Nonostante le sue frequenti e sospette incursioni nel mondo metafisico, tutto fa pensare che uno scienziato di gran classe come Ritter godesse, agli occhi di un giovane formato al rigore metodologico e di temperamento curioso come Arnim, di un maggior prestigio che un poeta mistico smarrito a un punto tale da rimproeverare a Fichte di non aver posto l'estasi alla base del suo sistema. In ogni modo la morte di Novalis nel 1801 rende la sua influenza possibile su Arnim temporalemente molto limitata. Sappiamo inoltre che Arnim, che subito si interesó ai lavori di Priestley e di Volta, e a quelli del fisico umorista Lichtemberg, e il cui protestantesimo era sensibilmente kantiano, non intrattenne nessuna relazione personale con Schelling. Siccome fu tra i primi a condannare la su “Filosofia della natura”, non poté, necessariamente seguire il suo autore attraverso i capricci della sua evoluzione e neppure, a maggior ragione accodarsi quando l'opportunismo, che per meglio sedurre Schelling aveva preso la forma di caroline Schlegel, gli dettó la conversione alle idee piú nebulose di Ritter e di Jacob Boehme che impregnavano il neocatolicesimo di allora.

mercoledì, dicembre 08, 2010

Nei giardini di Adone

Nei giardini di Adone coltivo vane parole
Effimere come teneri piselli -
Che il gelo di febbraio non permette,
E il timido bramito di rampicanti
Invano alzano al luminoso melo -
Prosperare fino al pallido verde
Che riassume l’orto nella sua delicata
Finita tessitura sonora, fuga e contrappunto
Tra sperma e clorofilla
Persino la lavanda geme il suo profumo
Nel giocondo canestro pronta
A morire avendo appena il tempo
Di rammemorare l’amido e la zampogna.

genseki

sabato, dicembre 04, 2010

La voce

È la parola che alberga la voce
La mia parola rifugio al tuo discorso
Al canto forse, ti modula la bocca
La tua parola suscita il mio fiato
Non lascia dimorare la mia lingua
La parola è rifugio della voce, canestro
Ove riposa in frequente sussulto
Fragranza è la voce nella spazio del dire
Nella morta parola sovrana voce sparge
Polline e strilli demenza e campane
Fino a che tutto il suono sia incarnato.

La paura

Era d’asfalto

Era d’asfalto la lingua bianca
La lingua della paura
E il prato era oltre quel nastro
Quel bianco che lecca cento metri di denti
Ê pane la mia paura, è mollica
Tu sei il suo latte
Gocciola tepore con roco fiato
Scaldato al rosso degli scogli
Era d’asfalto la paura
Quella bianca sul prato
Quella che confonde i pioppi con le gocce
Con un asfodelo in mano
Davanti al parabrezza hai aperto
La porta della paura
Nel tripudio sconcio di mille denti.

Briggio: La Stazione

Posted by Picasa

venerdì, dicembre 03, 2010

Mouchette

I giardinio d'Adone

Fioriscono nei giardini d’Adone
Sillabe, corolle di senso , effimere
In vimini e coccio
Versi maschere rime e tanti altri petali
Soavi al tatto, al credere; fuori
Incede alta foresta col ritmo del Vero
Brucia corona di specchi ogni chioma
E parla solo chi brucia
E cenere consola.

Raccogli viandante nel palmo della mano
Le reliquie di questo incendio
Che fu occhio e cuore
E sangue feconderá il tuo giardino
Fino alla prossima resurrezione.

Nessuno che sia saggio
Protegge la parola, la sua dal fuoco
Lascia che dilegui in altra bocca
D’altri ancora tormento e sospetto

Fioriscono ancora nei giardini d’Adone
Rime e parole, giá cavo il respiro si fa fiamma
D’altri petali, d’altre carezze e cenere
Ove sospetto ora foresta ora morte.

Lo sciamano di Briggio

Anche Briggio come alquanto altri barrios valligiani possdeva il proprio sciamano, colui che era incaricato di tramandare le gesta ella stirpe e la continuitá delle tradizioni e della parlata. Lo sciamano del barrio di Briggio aveva un nom benedetto, dorato: era infatti chiamato Abbondio, Abbondio Agatupolo e tutti nelle stradine strette e scivolose, cui l’umiditá quasi perenne conferiva odore di muffa, muschio e bollitura di cavol con mosto solevano designarlo con rispetto, o a volte con mal disimulata stizza Mastro Abbondio. Di origine forse levantina giunse nel barrio come calafato e fattosi ginnasiarca si elevó poco a poco con le sole sue forze fino alla prestigiosa carica di sciamano che nessuno per lunghissimi anni pensó mai di contendergli. No, mai fu sfidato Mastro Abbondio. Di modesta statura e carnagione scura aveva la fronte scolpita da tre profonde rughe che si accentuavano quando assumeva il fiero cipiglio con cui era solito presentarsi in pubblico nelle occasioni ufficiali e nelle festivitá e proprio nel centro delle tre rughe come un punto di intersezione un pronunciata prominenza callosa, come una specie di piccolo corno.
Si fissó nella memoria del giovin Dreiser Cazzaniga, tale prominenza, come marchio del sapere e della cultura a tal segno che quando giá era uno studioso, onesto adolescente non poteva figurarsi Cicerone, Patone o Aristotele stesso senza una pronuncatissima protuberanza frontale come unicorni, insomma del Parnaso. Voce aveva roca e carnosa per lo smodato uso di nicotina che ingiallivagli altresí le falangi dell’indice e del medio della mano destra. Gran parte della sua vita era dedicata alla stesura di una monumentale “Historia Barrii Briggi” grazie a una cospicua documentazione messagli a disposizione dal fratello, persona grigia e da tutti ignorata nonostante i somigliassero come due gocce d’acqua, forse proprio pe l’assenza del corno di Mastro Abbondio. Della sua maggiore fatica soleva egli dare pubbliche letture in molto contate occasioni, sfogliava allora davanti agli attoniti briggesi immensi fasci di scartafacci, borbottando con voce roca che si confondeva nel fruscio pergamenaceo senza mai iincontrare quelloche cercava. Queste letture non erano lette perché non trovava mai quello che aveva intenzione di leggere. Alla sua morte non fu possibile trovare traccia dell’opera sua maggiore, nemmeno poche righe che si potessero ad essa attibuire. Tra colpi di tosse e arzigogoli delle mani egli riusciva, tuttavia di comunicare ai briggesi la tesi principale che aveva scoperto e dimostrato. I briggesi erano originari di Trebisonda, in Asia Minore ed erano giunti nell’umido barriio chiamati da un rdine monastico del luogo per la loro perizia artigianale nella produione di oggetti sferici, biglie, perle, pelote e palle. Adduceva come prova di questa teoria il fatto che nella parlata briggesi si trovassero elementi celtici. Il fatto che a Trebisonda non vi fossero celti e che anzi un proverbio di Cappadocia citato da Bessarone suonasse: “Raro come un celta in Trebisonda” non turbava i briggesi che non sapevano chi fosse Bessarione e non avevano mai udito parlare di Cappadocia. L’ordine monastico poi aveva la sua sede in Marsiglia ed era stato fondato molti secoli dopo l’esodo preteso dei briggesi da Trebisonda secondo lo stesso mastro Abbondio; neppure questa contraddizione aveva peró il potere di scuotere la ferma fede che gli abitanti del barrio riponevano nel loro sciamano, vuoi percé non la notavano, vuoi perché il fatto di potersi fregiare di tale esotica provenienza gli faceva sentire superiori agl altri villani che appartenevano al luogo dove erano spuntati come funghi dall’umido sottobosco.
Soleva Mastro Abondio abbellire il suo discorso con citazioni in antiche, illustri lingue straniere e soprattutto in castigliano. Grande e amara fu la sopresa del giovin Dreiser Cazzaniga quando, avendo appreso egli il castigliano, dovette rendersi conto del fatto che le citazioni di Mastro Abbondio non solo non erano in castigliano ma in uno scorretto gagliego, ma che nemmeno il loro significao coincideva con quello che Mastro Abbodio gli attribuiva. La figura dello Sciamano cadde fragorosamente nella mente di Dreiser Cazzaniga laciando il suolo cosparso di cocci taglienti. Per lunghi anni Dreiser Cazzaniga irrise e rabbiosamente denigró Mastro Abbondio e l’opera sua e solo dopo che vari lustri accumularono sulle sua spalle dolore e delusioni comprese che Matro Abbondio aveva svolto nel Barrio una nobile e amara funzione, non per le sue conoscenze e per la sua cultura, ché non possedeva né le une né l’altra, ma per aver saputo scolpire nelle anime dei giovani briggesi il rispetto per il sapere e l’amore per la propria terra e la propria stirpe facendo in modo che si sentissero parte di una vicenda che superava le loro vite individuali e affondava nei secoli, che si sentissero un popolo, pochi anni prima che la televisione finisse pre traformarli definitivamente in una plebe stracciona dipendente dall’annona.