martedì, aprile 13, 2010

Storia della calligrafia cinese

François Cheng

La calligrafia

La calligrafia esalta la bellezza visuale degli ideogrammi e non invano divenne in Cina un'arte maggiore. Quando pratica quest'arte un arte, un cinese scopre il ritmo profondo del suo essere e comunica con gli elementi. Per mezzo dei tratti significanti si consacra interamente. Lo spessore e la scioltezza dei tratti gli permettono di esprimere i molteplici aspetti della propria sensiblitá: forza e tenerezza, impulso e quiete, tensione e armonia. Quando ottiene l'unitá di ogni ideogramma e l'equilibrio tra i caratteri, il calligrafo attinge alla cosa in sé e realizza la sua propria unitá. Gesti immemoriali e sempre di nuovo intrapresi, la cui cadenza, come in una danza con la spada si plasma istantanemante grazie ai tratti che si slanciano, si incrociano, volano oppure affondano che assumono un significato e aggiungono altri significati a quello codificato delle parole. In efetti si puó parlare di senso per quanto riguarda la calligrafia perché la sua indole gestuale e ritmica non permette in nessun modo di dimenticare che opera con segni. Durante una esecuzione, il calligrafo ha sempre in qualche modo in mente il significato del testo. Per questo la scelta di un brano non è mai gratuita o indifferente.

I testi preferiti dai calligrafi sono senza dubbio i testi poetici. (Versi, poesie, prose poetiche). Quando un calligrafo affronta un poema non si limita a un mero atto di copia. Nel calligrafare risuscita integralmente il movimento gestuale e il potere immaginario dei segni. È questa la sua maniera di calare nella realtá profonda di ciascuno di essi, di adattarsi alla cadenza propriamente fisica del poema e alla fin fine di ricrearlo.

Anche i testi di indole incantatoria attraggono i calligrafi. In essi, l'arte calligrafico restituisce ai segni la loro funzione magica e sacra. I monaci taosti giudicano l'efficacia dei talismani o degli incantesimi che tracciano dalla qualitá della calligrafia che permette la comunicazione adeguata con l'al di là. ...

Il poeta non puó essere insensibile alla funzione sacra dei segni tracciati. Come il calligafo che nel suo atto dinamico ha l'impresione di vincolare i segni al mondo originario, di scatenare un movimento di forze armoniche o contrarie, il poeta non dubita che combinando i segni ruba qualche segreto ai genii dell'universo, come dimostra questo verso di Du Fu:
Finito il poema stupiscono demoni e dei

Questa convinzione ha come conseguenza che ognuno dei segni che compongono il poema acquisisce una presenza e una dignitá eccezionali. Questo spiega anche la ricerca, durante la composizione del poema di una parola chiave: la parola occhio che illuminando in un sol colpo il poema intero rivela il mistero di un mondo occulto. Numerosi annedoti rivelano come un poeta si prosterna davanti ad un altro e lo venera come “Maestro di una parola” all'avergli “rivelato”la parola assolutamente esatta e necessaria che li permette di finire il poema e cosí di “completare la creazione”.

François Cheng
La scrittura poetica in Cina
Trad. genseki

lunedì, aprile 12, 2010

Georg Trakl

Quelle che seguono sono due proposte di traduzione da Georg Trakl. Ho sempre cercato di tradurre Trakl, sempre sono rimasto deluso del risultato. L'antinatinatura tutta mentale di Trakl simula il paesaggio e ci coinvolge invece in un teatro cattolico del crepuscolo e del disfacimento. Quasi ai limiti della putrefazione dei contenuti psichici.
La traduzione non trasmette pienamente queste sensazioni ma è un primo approccio.
genseki

Georg Trakl

Canto a sette della morte

Quiete e silenzio

Pastori seppellirono il sole nel bosco fresco
Un pescatore trasse
Dal rabbrividente stagno la luna nella sua rete

In azzurro cristallo
Abita il pallido uomo, le guance volte alla sua stella
Oppure china il capo in sonno purpureo.

Tuttavia sempre sfiora nero volo d'uccelli
Chi guarda, il santo fiore azzurro,
Pensa prossimo silenzio d'obliato, angelo spento.

Di nuovo annotta la fronte in pietra lunare
Radiosa giovinetta
Appare la sorella in autunno e nero marcire

*



Nascita

Monti: nero, silenzio e neve.
Rossa dal bosco scaturisce caccia
Oh lo sguardo muschioso della fiera.

Silenzio materno, tra neri abeti
S'aprono mani dormienti
Quando cadente fredda luna appare
Oh, la nascita dell'uomo. Notturna mormora
Acqua azzurra sul fondo della falesia;
Sospirando sfiora la sua immagine l'occhio dell'angelo caduto.

Pallido si risveglia nella stanza soffocante
Come due lune
Risplendono gli occhi di pietrificata vegliarda.

Ahimé, il grido della puerpera. Con nera ala
Culla la notte sogni di bimbo,
Neve che lenta discende da nubi purpuree.

Trad genseki

Il piccolo Monchiero

Monchiero era piccolino
E condannato, lo avreste abbigliato
potendo – di pelle di lepre,
Leprotto, dai grandi occhiali rotti
I riccioli pieni di spighe
E forse scarpe che non ricordo
Dormiva sul balcone, Monchiero,
Tra le ceste di lumache poste a spurgare
Nel candore della farina tutti i peccati
Della loro lascivia, uno a uno
In fondo la linea del fiume il gelo
Il filare dei pioppi il pastore Thorvaldsen
Maledicendo il silenzio di tutti quei ciottoli
Mentre pascolava i suoi cani rossi
Che freddo sul balcone,
La madre dormiva al calduccio del metano
Tra le lenzuola unte nell'odore della lana fracida
Che ha odore di cane e di fango di fiume
Dove si macerano gli ontani
I suoi peccati li scontava al freddo
Il piccolo Monchiero
A colazione la madre lo obbligava
A predere il bricco del latte bollente
Con le mani nude
Lo avresti rivestito di pelliccia
Di merlo
potendo – il piccolo Monchiero
Con un berreto fatto con metá guscio
Di una nocciola di Cortemilia con le sue ditina rosse rosse
E screpolate, cadeva e si rialzava
Solo nei punti in cui il selciato
Era piú duro e tagliente
Era proprio come suo padre il piccolo Monchiero
Uno zingaro di tutti i peccati, un porco di tutti i macelli
Era come suo padre e lei gliele avrebbe fatte pagare tutte
Quelle che lui le aveva fatto a lei, alla mamma
Del piccolo Monchiero, zampe di gatto su unghie spezzate
Contento di ripetermi con tutta la sua innocenza
Che lui era cosí proprio come suo padre
Che non sapeva far nulla, un fagnano da nulla
Le avrebbe pagate tutte quelle che le avrebbe combinato
A lei con la moto sul balcone al freddo di tutti i peccati
Non seppi mai guardarlo con la venerazione
Che il suo martirio avrebbe meritato
Il piccolo Monchiero, io che attraversavo
Tutte le mattine le lastre di ghiaccio in bicicletta
Con un berretto basco e il chiuei rosso,
Non lo seppi guardare, ora da morto
Mi affligge quaggiú il raggio glorioso
Della sua bellezza fangosa.

genseki

*

venerdì, aprile 09, 2010

Erano quasi gioielli

Erano quasi gioielli, questi,
Che andavano poco a poco trasfomandosi
In una idea meno cangiante di se stessi
Quasi splendori boccioli sfarinando
Germinazioni di mitili e di marne
Bandiere fresche alla corrente aperte
Sullo sfondo screziato di un mare
Come un oltraggio a ogni altra ferita
Altri, forse, frammenti di schiuma
Spruzzi fosilizzati alla soglia del culmine
All'ansia del precipizio, al punto esatto
Della fronte dove fibrilla l'elitra del sogno
Ove il bagliore è presentito nella tenebra
E fulmina la coscienza con la dolorosa necessitá
Di cominciare tutto il suo processo
Erano quasi spendore, scintilla dileguandosi
Nell'effimero del loro pullulare, sciami
Gemme appena, grani cristalli di placton
Si combinavano allora rispecchiandosi
Ognuno nel suo riflesso ecchimosi
Fino a riemergere allora da un qualche fondo
Provvisti ora di un interno e di un esterno
Erano quasi gioielli, quasi talismani
Di rigenerazioni disorganiche, miriade
Frammentaria e tagliente nell'assoluta
E limpida infine ineludibile crescita
Delle loro sere, sereni quasi sibili.

genseki

*

sabato, marzo 27, 2010

Orphée


Corot

Orfeo

Orfeo

Orfeo portava con sé l'odore delle cabine dei bagni
Odore di sudore, iodio, sale polpa putrida di legno, bucce di banana
Disseccate dal sole
Orfeo veniva con il suo bandoneon da lontane pampas
Con un poncio ovale, con la caffettiera in tasca
Con la tasca che sapeva di uova tostate nell'orzo
Orfeo suonava ovale e il mondo s'inclinava a spirale
Davanti al suo naso di emarginazione
Il suo naso negro indio il suo naso triste come le ande
Come le araucarie deportate tra i sambuchi
Delle brianze immemoriali di tutte le umide prealpi
Orfeo compartiva le sue bistecche con i suoi sogni di topolino affamato
Faceva due passi avanti un inchino un ipotesi una disgiuntiva
Nelle parentesi aperte tra due tacchi
Orfeo scioglieva i cani del pianto dalle feritoie lebbrose degli occhi
Quando ricordava Muchacha Minnehaha con la chioma caffelatte
A rivoli nella segala e le ditina dei piedi divaricate
A ogni spinta poderosa dei suoi lombi di allora
Il passo di orfeo, con le sue scarpe di vernice
Schiva l'ombra del tacco di un alto tacco
Evoca un tarlato anfiteatro e colpisce come un crotalo
La sistole di una smarrita solitudine.

genseki

Sarastro Ballanche

Pierre Simon Ballanche


Ballanche

Secondo il Biografo Enid Starkie Ballanche è una delle fonti principali di ispirazine per Rimbaud. In realtá non vi sono prove che Rimbaud abbia avuto una conoscenza di prima mano delle opere di queso mistico lionese, ma potrebbe averne avuto contezza attraverso Chateaubriand e Michelet. In realtá è difficile pensare che Ballanche e Rimbaud possano avere qualche cosa in comune. Sembra piú certo, anche se non dimostrato, che Ballanche abbia piuttosto influenzato Schikaneder e Mozart. La descrizione qui tradotta dell'iniziazione ai misteri di Iside da parte di Orfeo richiama irresistibilmente Pamino e Sarastro. In fondo Pamino è un Orfeo flautista e Tamina una Euridice fortunata.
L'Egitto di Ballanche è un mondo onirico, si tratta di un grande sogno silenzioso e minerale, non vi sono quasi rumori che provengano da orgnismi biologici. Lo sciabordio dell'acqua é lo sfondo sonoro. Uno spazio definito architettonicamente è lo spazio di questo Egitto mitico, ma non si tratta di una architettura per uso umano.
L'immagine che viene alla mente leggendo queste righe è quella del quadro l'isola dei morti. Il pittore conosceva Ballanche.
L'assenza dell'organico, del pullulante, di tutto ció che striscia e fermenta è ció che rende meno credibile ogni convergenza tra Ballanche e Rimbaud. Il cratilismo Rimbaud poteva averlo attinto dallo stesso Crátilo sviluppandolo poi in un abbozzo di poetica.
*

Ballanche

Da Orfeo
Vol IV

Giunsi in Egitto al tempo del'inondazione del'inondazione del Nilo. È uno spettacolo inconcepibile per chi non lo abbia visto. I muri delle cittá, le case degli abitanti, gli edifici pubblici, i templi degli dei, sono battuti dalle molli onde del fiume che, in qualche mo, si è mutato nell'Egitto stesso. Non vi racconteró, principe ecellente, i lavori inauditit che sono stati messi in opera per giungere a rendere regolari i benefici di questa meravigliosa inondazione, per produrre un'eguale distribuzione dele acque, per prevenire gli inconvenienti di una crscia troppo rapida o troppo lenta, troppo abbondante o troppo misurata; infine per guidare a decrescita del Nilo, quando vuole ritornare nel suo alveo, e per impedire che il suolo da lui fecondato non divenga una vasta palude insaubre. Si è dovuto scavare canali, elevare dighe, formare vasti laghi, simili a mari contenuti da rive indistruttibili: lavori incredibili che confondono l'immaginazione. Da nessuna parte, sapete, la potenza dell'uomo s é manifestata come in Egitto, Questa terra, conquista sapiente di un'industiositá interamente umana, cominció, si dice, essendo nient'alro che una stretta linea di capanne di canna. Prima era l'ippopotamo che regnava in pace; il coccodrillo, tiranno assoluto d'immense inondazioni, si adormentava al sicuro, e al suo risveglio spargeva il terrore tra gli animali he popolavano quella fangosa contrada.
“Ti dico saggio Evandro, che si trattava di una industria umana, per distiguere ai votri occhi l'Egitto dalle contrade dei Titani. le Muse che un tempo mi avevano ispirato non mi avevano insegnato niente a proposito di un tipo di lavori e di tradizioni come quelli. Cosí, una volta superato lo stretto del faro, finii per credermi trasportato in un altro universo. Tutti i miei pensieri erano svaniti; tutta la mia scienza, o piuttosto ciò che io credevo fosse la mia scienza, si era dissolta come vano vapore. Grotte fatidiche della Samotracia, risveglio civilizzatore della Tracia, potere della lira, tutto spariva per me nelle profonditá di un ricordo in qualche modo spento. Mi sembrav di entrare in una nuova vita in cui tutte le condizioni dell'esistenza sarebbero cambiate.
...

Dovunque avevo conosciuto soltanto popoli nuovi, uomini appena usciti dalla quercia o dalla roccia; per la prima volta mi trovavo prsso un popolo antico, tra uomini che contavano lunghe generazioni di antenati. Ovunque avevo assistito, come ala nascita della societá; qui potevo ammirarla in tutta la pienezza di una grandezza confermata dal tempo. Ovunque avevo incontrato una razza umana prossima alle orignini oscure, culla di ogni cosa; qui era una razza umana giá separata dalle origini oscure da alcuni grandi secoli di tradizioni che si dicono sicure...

Che cosa doveva essere allora per me il ricordo di quelle fotezze di eroi costruite sulle rocce, simili a nidi d'aquila, fortezze che sovente abbiamo considerato come cittá primitive, che cosa doveva essere in presenza di tante cittá popolose, piene di magnifici edifici, obbedienti a leggi non antiche ma eterne?
...
Per l'Egitto, i Titani non hano sradicato gradualmente vaste foreste per farvi entrare la luce; il suolo in tutta la sua estensione dovette essere stato creato dall'uomo prima che vi si stabilisse. Fuori non vi sono i boschi, soggiorno dell'oscuritá antica, ma le sabbie del deserto o i flutti tempestoi del mare.
...
Ció che stupisce di piú, (in Egitto) è che tutto è simbolico, e che si ha inmediatamente un sentimento indefinibile di queste creazioni simboliche, segno davvero di un'intelligenza forse divina.
La lingua presenta un senso misterioso e uno letterale, un senso nascosto e un senso scoperto, un senso profondo e uno superficiale; gli stessi monumenti sono una lingua dii emblemi.
...
Anche il Nilo, che nasconde il segreto delle sue sorgenti ignorate, sembra un'immagie rapida e viva delle tradizioni che si perdono nella notte dei tempi. Sembrerebbe che con il suo limo fecondo trascini tutte le leggi dell'allegoria.
...
L'egiziano, educato da ció che vede, mette un'intenzione allegorica in tutto quello che fa.

In Egitto, cittá di cui voi potreste appena concepire l'estenione, si attraversano in seno a un vasto silenzio o in mezzo a un rintocco sucessivo e prolungato, come quando si ode dalla cima dei monti, il rumore iafferrabile delle valli profonde. E questo vasto silenzio è interrotto solanto dal sordo sciabordio di un'nda prigioniera che si culla su se stessa, o si rompe conro alti muri neri, dai suoni uniformi di una moltitudine di navicelle i cui remi colpiscono a colpi cadenzati la superficie del fiume e dalle grida dei piloti che le dirigono, che si chiamano e si evitano reciprocamente. Questo aspetto scuote tutti i pensieri, rovescia tutte le convinzioni piú intime: sembrerebbe di scivolare attraverso un mondo fantastico.
...
Si avanza di scoperta in scoperta in un mondo creato dal sogno.
...
Questa civiltà saggia e perfeta, ma fissa e uniforme, che avevo sotto gli occhi, mi faceva apprezzare meglio tutto il fascino di quelle civiltá appena abozzate, che promettevano una varietá di usanza e di costumi piú o meno severi o irridenti.

La vita in Egitto, sembra reggersi sul nulla; cosí gli uomini cercano di darle la durata della morte. Tutte le differenti epoche della vita umana, come una sequenza di vite e di morti che nascono le une dalle altre, sono celebrate con cerimonie funebri, Cosí l'uomo non giunge alla sua ultima morte che attraverso una serie di successivi trapassi: e quest'ultima morte a sua volta è il passaggio a un'altra vita. Cosí luomo, quando entra in una nuova tappa della vita prende il lutto di quella precedente; è dunque succesivamente in lutto della sua propria esistenza mobile e cangiante...

Sbaglia stranamente chi creda che l'Egiziano voglia unicamente sottrarre il suo corpo e le sue opere alla distruzione; quello che vuole, soprattutto, è stabilizzare proprio la morte, stabilizzarla come emblema e pegno di immortalitá.
...
La veritá non si insegna, essa illumina chi ne è degno. I preti dell'Egitto non scostano mai il velo che
copre la statua di Iside e loro stessi non l'hanno mai vista senza velo.

*

Tre massime sono il fondamento dell'iniziazione; ... Eccole: Nessuno è degno della veritá se non la scopre da solo. Nessuno puó giungere alla veritá si non scopre se stesso. Infine, nessuno è in grado di comprendere la veritá se non è stato in grado di raggiungerla da solo. Dio ha fatto tutto quando ha dato il linguaggio agli uomini: è la grande rivelazione universale del genere umano. I sacerdoti dell'Egitto, dunque, non insegnano nulla perché credono che tutto è nell'uomo; non fanno che scartare gli ostacoli. Vanno piú lontano, gli adepti, gli adepti che non possono entrare con i loro propri sforzi nella sfera delle idee e dei sentimenti in cui si vuole introdurli sono respinti come profani. I depositari della saggezza credono che la veritá è una cosa pericolosa per l'uomo che non la trova in sé.

Ballanche
Trad genseki.

venerdì, marzo 26, 2010

La fleur des amants


La fleur des amants è rimasta in me un simbolo occultato, dimenticato, sepolto. Proprio questo suo stato di presenza latente ha fatto si che condizionasse la mia vita in modo piú profono di quanto sia in grado di valutare ora. Un simbolo sepolto nella terra della mente è come un seme, chhe va germogliando in corolle impreviste.
Certo qui la corolla è la meraviglia, l'imprevisto, la ricerca ossessiva del talismano, la sfiducia nell'amore e la fiducia nella magia naturalis,
genseki

Zá-barás

Zá'-barás mi è apparsa questa mattina mentre stavo guardando l'insegna di un ristorante, in realtá non mi ha condotto molto lontano, il messaggio che recava si è fermato a un livello alquanto superficiale. Sembrava promettere di piú. Comunque, eccola qua.

Zá'-barás nel suo manto di squame
Danza nel fuoco spento tra onde e fiamme dimenticate
Danza sulle chiocciole che furono carbone
Sulle foglie scartate dei carciofi
Le capre marine leccano il sale dalla pianta dei suoi piedi
Zá'-barás è un corpo di delfino
Ti si disfa tra le braccia come un banco di alici all'ombra del volo di un gabbiano
Occhi di poseidonia tra gemiti bianchi di gallinelle dalle zampe di corallo
Chi trascina la sua conchiglia sfrigolante
Su cui agita il suo corpo iridato dalle brezze nella samba del sálnitro?
Eccola! Scompiglia lettere e sillabe
Come se un oceano di combinazioni innumerevoli si frangesse sulla scogliera
Sollevando spruzzi di parole sonore come la caduta uno sciame di scarabei
Sul fondo di un vassoio d'argento
Zá'-barás al compasso delle tue chele anche lo scorpione
Si fa mantide e dirige la sua preghiera proprio al cuore dell'amanita esculenta delle spiagge
Zá'-barás
Il polipo vorrebbe aver artigli per ghermire i tuoi seni di di medusa
Il mio corpo ti schiaccia e ti serra in una lotta che mi lascia gli occhi liquefatti
I miei occhi gocciolano dentro di me
Portano la freschezza della tua immagine
Alla mucosa riarsa del palato alla lingua di salgemma
Goccia a goccia gocciola il desiderio di vedere una a una le dita dei tuoi piedi
Trascinarsi a passo di milonga
Sulla battigia che protegge il sole.

martedì, marzo 23, 2010

Il vecchio Remolaccia

Il vecchio Remolaccia
Aveva un tumore di fragola
Appena sotto il naso, uno appena dietro l'orecchio
Aveva una macchia di vino vecchio
A colare dalla fronte al mento a ciocche
A scoppi il vecchio Remolaccia
Sangue di barbabietola
Il cugino di sampietro e di john dory
Era quello che preferivo contemplare
Nella sua arsura, nell'arida gloria rossiccia
Della vetrata in cui se la godeva
Con tutti i grandi santi calvi, il vecchio Remolaccia
Quel furbo, sangue di barbabietola
Sempre ben dritto sapete tra le coste e gli asparagi
E le loro aureole e le coroncine di piselli
Suonando il tamburo con i fiori d'aglio
E il fegato piú giallo di un limone
Si prendeva per il sole si credeva
Chissá cosa e poi scoppiare
In foglie novelle di pioppi e giovani ramoscelli di frassino
Il vccchio Remolaccia, ma dai! Con tutti i suoi tumori
Le macchie i nidi, gli scoiattoli, l'artrite e i millepiedi
Sempre ficcato nel suo buco con quel vaso di vino
Tracanna e canna
Lasiatelo dormire con la testa sul cavolfiore come un angioletto
Tutto rosso e gonfio e trasuda il suo pus
Fino al ruscello
Nella sua vetrata

*

genseki

lunedì, marzo 22, 2010

La plume, où est-elle?


Nadja

avec quelle grâce elle
dérobait son visage derrière la lourde plume
inexistante de son chapeau !
André Breton
Nadja

*

Con quanta grazia ella celava il viso dietro la voluminosa piuma inesisente del suo cappello.

Trad genseki

Jules Lapache

Jules Lapache morì in ospedale con i polmoni completamente atrofizzati. Jules Lapache morì annegato in se stesso. Jules Lapache fu il miglior amico di Dreiser Cazzaniga, forse la sola persona che Dreiser Cazzaniga avrebbe potuto considerare amico. Era un cacciatore-raccoglitore del neolitico inserito per un casa bizzarro del destino in una delle regioni più industrializzate del mondo sviluppato. Avrebbe vissuto e visse effetivamente per certi periodi più o meno lunghi di bacche, erbe selvatiche e della cattura di piccoli mammiferi. Portava nel mondo una curiositá instancabile, una paura istintiva delle donne, l'impossibilitá di accettare qualsiasi forma anche minima di ragionevole agio e di cura della sua persona. Era talmente stoico che a prima vista appariva cinico.
Ignorava l'esistenza di qualsiasi istituzione, passó un lungo periodo in carcere per aver lasciato passare il periodo concesso per il pagamento di una multa amministrativa e non aver poi mai risposto alle successive notificazioni giudiziarie. Un caso forse unico in Europa per una persona sana di mente. Ebbe molti figli, soprattutto figlie che era solito abbandonare alle cure delle rispettive madri. Non sapeva quasi nulla della sua numerosa prole. Solo qualche vaga notizia dalla quale curiosamente emergeva che quasi tutti e tutte lavoravano nel settore zoologico: allevamento o addestramento. Jules Lapache passava lunghi periodi scrivendo lettere immaginarie a ciascuno dei suoi figli e organizzando una immaginaria festa di compleanno suo al quale invitarli tutti. A quanto fu dato sapere a Dreiser Cazzaniga i suoi figli e figlie, tutti indistintamente lo odiavano e disprezzavano con fredda determinazione. Quanto doveva pesare questo dolore sull'anima di Jules Lapache! Perché anche Jules Lapache doveva avere un'anima, pensava Dreiser Cazzaniga, anche se lui en avrebbe fatto volentieri a meno. La morte di Jules Lapache segnó per Dreiser Cazzaniga la fine dell'illusione infantile che restava inconsapevolmente intessuta a quasi tutti i movimenti della sua coscienza della sua propria immortalitá. Adesso Dreiser Cazzaniga era direttamente esposto al vento della morte. Non c'era davvero piú nulla tra lui e Lei. Jules Lapache fu per Dreiser Cazzaniga un monito vivente e la testimonianza reale della forza della volontá di vivere che trasforma alchemicamente tutte le sostanze della depressione e dell'autodistruzione in scaturigine di passione. Jules lapache morí affogato in se stesso. Si affogó da solo, sigaretta dopo sigaretta, ogni sigaretta la fumava singolarmente, fumava le sigarette una per una e ogni sigaretta era potenzialmente per lui l'ultima sigaretta. Morí affogato da se stesso, dentro se stesso, solo, annegó come Flebas il fenicio. Annegó.
I bronchi pieni di acqua, i suoi figli lo odiavano. Jules Lapache temeva le donne, le insultava, soleva, con loro, esprimersi con lazzi e sarcasmi che suonavano sempre pateticamente violenti, era senza difese con loro. Le donne solevano disprezzarlo. Alcune lo socorrevano. Jules Lapache è morto dopo aver sofferto tutte le sofferenze, dopo essere stato spogliato di tutte le illusioni, anche dell'illusione dell'autodistruzione. Forse per questo lo avrá accolto con un sorriso la Vergine, Kannon, colei che ascolta i gemiti nel mondo, colei a cui non volle mai abbandonarsi, la intravide oltre la pellicola di acqua che bruciava quello che restava della sua vista e per un istante eternamente lo accolse con un sorriso degli occhi di felce, un sorriso di tante braci, con il sorriso che lui aveva sempre onorato sfuggendolo e negandolo.

genseki
*

Lu Spadaro di Quittengo scrive in una nota che spera di condividere con Dreiser Cazzaniga altri ricordi. Quali ricordi potrá condividere con chi non ne ha piú di ricordi? Con chi non en ha piú e neppure vuole piú averne? Lu Spadaro di Quittengo leggerá queste righe? Se lo fará potrá collaborare con qualche ricordo suo al nostro sforzo di ricostruzione delle Memorie di Dreiser Cazzaniga. Gliene saremo davvero grati.
a cura di genseki

martedì, marzo 16, 2010

Cuor suppliziato

Cuor suppliziato

Cuor suppliziato

Triste il mio cuore va sbavando a poppa
Tutto coperto di trinciato forte
Sopra gli sputano schizzi di zuppa
Vengono dopo i lazzi della truppa
Che in una gran risata infine scoppia
Triste il mio cuore va sbavando a poppa
Tutto coperto di trinciato forte

quegli insulti itifallici e nonneschi
Lo hanno interamente depravato;
Al vespro van scarabocchiando affreschi,
Graffiti Itifallici e nonneschi
A voi marosi abracadabranteschi
Dono il mio cuore perché sia lavato:
Che con insulti ittifallici e nonneschi
Lo han depravato.

Quando le cicche saranno tutte spente
Cosa ti resterá cuore rubato?
Il baccanale verrá coi ritornelli
Quando le cicche saranno tutte spente
Mi si rivolteranno le budella
Se il cuore triste sará ancora infangato
Cosa ti resterá cuore rubato?

Rimbaud
Trad.genseki

Note sulle memorie di Dreiser Cazzaniga

Nota sulle memorie di Dreiser Cazzaniga

Lo stato in cui ci sono giunti i diversi materiali che costituiscono le memorie di Dreiser Cazzaniga permettono di formulare diversi ipotesi sulla forma definitiva che egli avrebbe voluto conseguire. Nessuna di queste ipotesi può essere considerata definitiva, e probabilemente lo stesso Dreiser Cazzaniga aveva in mente diversi e contradditori progetti che non giunsero mai a una forma meno fluida, di quella alla quale ci troviamo di fronte.
Dreiser Cazzaniga era un collezionista saltuario. Collezionava qualsiasi cosa in modo programmaticamente non sistematico e soprattuto assolutamente non esasustivo.
Per un lungo periodo collezionó i biglietti di qualunque mezzo di trasporto di cui si fosse servito in qualunque parte del mondo conservandoli nelle scatole di cartone delle camicie che stava bene attento a conservare dopo averle tolte, le camicie dal cellofan e aver tolto tutti quelli spilli e graffette di plastica. Per un certo periodo collezionó anche gli spilli delle camicie in una scatola di latta delle pastiglie Leone. Per un certo tempo, infatti, collezionó anche scatole di latte di pastiglie Valda, Leone, Re Sole e di svariati tipi di te cinesi. Poi usó le scatole come contenitori di altre collezioni minori. Le collezioni avevano per lui soprattuto un significato di amuleto. Agalma. Ritorniamo alla collezione di biglietti. Questa prosperó, impazzita dilagando dalle scatole delle camicie ai vasetti di yogurt da mezzo chilo fino a quando Dreiser Cazzaniga pensó che una cosa cosí la poteva fare solo qualcuni al bordo della follia e in poche decine di minuti se en disfó.
In diversi occasioni si disfó di materiale raccolto per le Memorie e di altre collezioni saltuarie come quella tanto amata di fumetti pornografici.
Poi si dimenticó di essersene disfatto e la cercó con sempre crescente frustrazione in tutti gli anfratti del suo grande solaio dove prima di regalarla all'Apache la aveva coscienziosamente custodita.
Una delle ipotesi piú interessanti è che Dreiser Cazzaniga volesse scrivere le sue memorie al futuro. Non ci è dato sapere se con un tono oracolare o narrativo. Peró al futuro. Qualche cosa del tipo: “il giovane Dreiser Cazzaniga con il maglioncino giallo fosforescente che la mamma avrá comprato nel mercatino del barrio di Briggio il decimo uscirá dalla classe nell'intervallo per recarsi ai bagni dove i saranno soliti riuniri i fumatori e tutti gli altri duri. Nel corridoio, anzi a un aangolo del corridoio quasi si scontrerá con la compagna di scuola Lagrassa-Cavani, dallo sguardo irrimediabilmente porcino che gli getterá su maglioncino un sostanza bluissima, azzurrosa e viscida scoppiando poi a ridere insieme a la di lei inseparabile amica...etc”
Piú sicura, quasi certa è, invece, l'ipotesi che Dreiser Cazzaniga volesse scrivere le sue memorie dal punto di vista della morte. Dovevano apparire come le memorie di quelcuno che era giá morto, compilate e interpolate da un fedele curatore quando ancora Dreiser Cazzaniga era in vita. Pienamene in vita, direi. Il fatto è che Dreiser Cazzaniga non sapeva come procurarsi un curatore. Nessuno lo conosceva e non aveva mai combinato niente per tutta la vita.
Dreiser Cazzaniga era proprio quel tipo cui durante una festa o un ricevimento nessuno rivolge mai la parole e che se inizia a parlare lui, tutti gli altri con la scusa di andare a cercare un'altra coppa di champagne o con la scusa del canapé scivolano inmediatamente a formare altri capannelli.
Come trovare qualcuno che si interessasse alle sue memorie? Si giunse a formulare l'ipotesi che l'intenzione di Dreiser Cazzaniga fosse quella di crearlo, il curatore, O persino che egli intendesse adotarre come curatore qualcuno che fosse già morto e dare alla luce le sue memorie usando il nome di costui come schermo narrativo, naturalmente con il consenso degli eredi. Avrebbe cosí conepito le memorie di un vivo curate da un morto chele narra al futuro.

a cura di genseki