mercoledì, novembre 05, 2008

Perché Rimbaud?


Rimbaud

Il Lupo gridava

Gridava il lupo tra il fogliame
Sputando le belle piume
Del banchetto di pollame:
Come lui mi consumo

La frutta, l'insalata
Son per il raccolto perfette
Ma il ragno della siepe
Mangia solo violette

Ah dormire! Bollire
Sull'ara di Salomone
Scorre il brodo sulla salsa
Si confonde col Cedrone.

trad genseki

martedì, novembre 04, 2008

Gaspard de la nuit



Louis Bertrand


Il Muratore


Guardate questi bastioni, questi contrafforti: si direbbero costruiti per l'eternitá
Schiller
Guglielmo Tell


Il muratore Abraham Knupfer canta, la cazzuola in mano, tra le impalcature aeree, cosí in alto che leggendo i versi gotici del bordone egli ha sotto i piedi la chiesa dalle trenta arcate a sesto acuto e la cittá dalle trenta chiese.


Vede la tarasche di pietra vomitare l'acqua delle ardesie nell'abisso confuso delle gallerie, delle finestre, dei pinnacoli, dei pennacchi, delle torrette, dei tetti, delle torrette, dei muri che macchia d'un punto grigio l'ala distesa e immobile del falchetto.


Vede le fortificazioni intagliate come stelle, la cittadella che si abbuffa come una gallina in un mastello, i cortili dei palazzi ove il sole prosciuga le fontane e i chiostri dei monasteri ove l'ombra ruota attorno ai pilastri.


Le truppe imperiali sono alloggiate nei sobborghi. Laggiú un cavalleggero batte il tamburo. Abraham Knupfer distingue il suo tricorno con le cordelline di lana rossa, la coccarda attraversata da una spighetta e il codino trattenuto da un nastro.


E vede anche, la soldataglia che nel parco imbandierato con frasche enormi, su ampli prati smeraldini crivella a pallettoni d'archibugio un uccello di legno fissato alla punta
d'un albero di calendimaggio.


E la sera, quando la navata armoniosa della cattedrale dorme con le braccia crocifisse, dall'alto della scala vide un villaggio bruciato da uomini d'arme ardere come una cometa nel firmamento.


Trad. genseki

Natura morta con rose rosmarino e limoni

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Chaumont

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lunedì, novembre 03, 2008

La comandante


Racconto di Stephan Hermlin


Il 17 giugno del 1953, subito dopo mezzogiorno due uomini entrarono nella cella di una certa Hedwig Weber, nella prigione di stato di Saalstedt. E, dopo che ella ebbe chiarito che scontava una pena di 15 anni per crimini contro l'umanità, le comunicarono con queste parole: "E' di gente come lei che abbiamo bisogno", che era di nuovo libera.
La sera precedente, la prostituta e infanticida Rallmann, che occupava la cella di sopra, la chiamò alla finestra con il segnale concordato. La Weber si era arrampicata fino alla finestra e aveva udito sussurrare che in città si scioperava. Volle domandare maggiori informazioni ma la Rallmann era già saltata via. La mattina, durante l'ora d'aria, le erano giunti per la prima volta echi di canti e di grida. Pigramente, controvoglia, aveva cercato di ricordare di che ricorrenza si potesse trattare, ma non le venne in mente nulla, e per forza! Quelli non facevano che inventare nuove feste. Mentre stava in piedi davanti ai due uomini le sembrò che l'ora d'aria, quel giorno, fosse stata più breve del solito. Un paio di ore dopo aveva di nuovo udito il suono di molte voci, molto più vicine del solito, più penetranti, determinate, senza tuttavia che le parole fossero chiare. La Weber aveva già scontato, un paio di anni prima quattro mesi di prigione per furto. Ora, secondo il calendario che stava sulla parete era cominciata la sua ventottesima settimana. Abbastanza per essere abituata ai rumori del carcere.
L'ala dell'istitituto di pena riservata alle donne si trovava abbastanza lontana dalla strada. Ciò che occasionalmente vi penetrava dall'esterno, non poteva riconoscerlo con chiarezza, in sé la cosa non aveva importanza, era solo la causa che faceva saltare, nel suo pensiero qualche immagine, così come si salta su di un treno in corsa: non c'era ragione di muoversi, quando si era dentro, erano le cose a saltarti addosso. Poi sognava, sogni selvaggi pieni di desideri, ma senza scopo, senza fede. Anche quella mattina non era cambiato niente, finché la Rallmann non l'aveva di nuovo chiamata alla finestra: vedeva del fumo. La Weber non poteva vedere quel fumo. Tirava un caldo e leggero vento da sud, il sole ricacciava indietro il fumo dalla fabbrica di pompe. Il fumo era in lei, era una nebbia che si espandeva, si espandeva in lei, udiva passi affrettati nei corridoi e colpi soffocati da sotto, tra il rumore della folla. Poi da lontano giunse un grido, che la Weber registrò freddamente, un grido inumano, quale solo un uomo può lanciare.
Fino a quel momento le celle erano rimaste in silenzio. Poi cominciò un vocìo, forte, affrettato, con risa squillanti; si faceva più vicino con i passi e l'aprirsi delle porte. Poi fu lo stridore dei catenacci, la Weber vide quei due uomini. Quello che si era informato dei motivi della sua pena era giovane, carino, robusto. Dell'altro, che era appena un po' più vecchio, notò appena lo sguardo che aveva incrociato il suo, fuggevolmente, mentre rispondeva. Di solito, lo sguardo vagava sempre intorno al taglio dei capelli, ma con gente con quello sguardo lì c'era poco da fidarsi.
I due stavano sulla soglia; portavano berretti baschi e occhiali da sole, dietro di loro si vedevano alcune prigioniere allontanarsi di corsa scendendo per il corridoio. Riconobbe la Inge Gruetzner del piano di sopra, che le strizzò allegramente l'occhio sopra le spalle dei due uomini per poi scomparire. Nella Weber iniziò la corsa folle dei vorrei crederci ma non posso.. La nebbia che in lei si espandeva e si gonfiava era una selvaggia, disordinata voglia di urlare, di impazzare, di rompere qualche cosa. Quegli uomini dicevano che a Berlino e dappertutto stavano succedendo cose grosse, il governo era rovesciato, si andava creando una amministrazione insurrezionale, gli amici erano già in movimento.
E i russi? -
I russi non vogliono fare la guerra per Ulbricht -, disse quello carino e osservava, fischiettando la parete, come se ci fosse uin essa qualche cosa da scoprire.
Se ne ritornano indietro, alla Vistola.
Potremo aver bisogno di gente come lei -, disse quello più anziano.
Lei deve entrare nella squadra di comando di Saalstedt, mi par già di vedere che cercheranno di strozzarci. Abbiamo bisogno di gente con esperienza e con convinzione -.
La Weber disse attraverso la sua nebbia: - Dite la verità, davvero sono libera? - I due scoppiarono a ridere.
La Weber udiva il rumore nei corridoi e sulla strada, ed era come se di colpo udisse una musica quasi dimenticata, richiami di fischi sul crepitio dei tamburi che dirigevano la marcia successiva, e questa musica era sommersa nel tonante Heil che rimbalzava di strada in strada e che la traeva in quel momento fuori dalla sua nebbia. Rivedeva chiaramente e con indifferenza i sette mesi in quella cella in cui avrebbe dovuto trascorrere quindici anni e i sette anni prima di quei sette mesi, gonfi di paura, di dissimulazioni, di disperazione, di inesprimibile odio verso tutti quelli che aveva ritenuto inferiori e che ora vedeva sopra di sé, per tutta quella gente nuova nell'amministrazione e nei giornali, per le loro bandiere, manifestazioni e striscioni. Tutto quel tempo era stato un incubo con minacce sconfinate, non delimitabili, dalle quali non si poteva fuggire perché qualche cosa nel profondo non credeva alla possibilità di una fuga, di un mutamento. Non aveva più frequentato le vecchie conoscenze. Udiva soltanto, presso un conoscente, i bollettini di ricerca del gruppo di lotta. Aveva udito uno o due nomi che conosceva da prima. Un giorno aveva udito il proprio: - Ricercata la funzionaria Hedwig Weber, vista per l'ultima volta nel marzo 1945 a Fuerstemberg - . Si era quasi tradita. Erano anche astuti, dicevano infatti Fuerstenberg che è vicino a Ravensbrueck.
Un paio di volte aveva anche cercato di lavorare in fabbrica, ne aveva subito avuto abbastanza, però, della gente e anche del lavoro. I documenti falsi, che portatvano il nome di Helga Shmidt, la legavano a un passato fatto di migliaia di piccole cose che ignorava del tutto. Aveva avuto storie con uomini, per passare il tempo. A Magdeburgo aveva conosciuto uno che le ricordava l'Obersharfuhrer Worringer, con cui aveva avuto una relazione a Ravensbrueck.
Quando, dopo il furto di un rotolo di filo di rame fu condannata a quattro mesi, fu tranquilla per la prima volta, nessuno poteva più farle domande, non doveva più temere di essere riconosciuta da qualcuno per strada. Dopo questo suo padre le aveva scritto una lettera da Hannover - là nessuno si preoccupava del passato di uno, al contrario, l'aver lavorato nell'apparato di sicurezza del Reich, era per la giustizia adirittura una referenza, lui non poteva lamentarsi, ma lei non doveva ancora raggiungerlo, aveva ancora difficoltà con una casa di nuova costruzione.
Ne aveva abbastanza di questa vita, con le camicie azzurre e tutto il meccanismo delle liste di sottoscrizione e la cultura e le facoltà e le case per le ferie e la polizia popolare sui suoi camion e tutto il traffico per uno straccio di biancheria che risultava proprio introvabile, e soprattutto non ne poteva più di andare per la strada e sedere nei caffè dove doveva stare sempre attenta a non dare nell'occhio, a motrarsi soprattutto di profilo, ne era così esacerbata che pensò seriamente, di partire, semplicemente, per Hannover, se non avesse temuto di essere cercata là ancor prima che qua dove nessuno più sospettava che si trovasse. Poi era accaduto quello che lei avave mille volte visto scorrere davanti agli occhi e che proprio per questo aveva finito per ritenere impossibile: un ex-prigioniero l'aveva riconosciuta a Saalstedt, per la strada, mentre usciva da un negozio, era stata arrestata e condannata a 15 anni di prigione.
In quel momento la Weber comprese che l'incubo non sarebbe durato eternamente e che quelli che stavano in alto sarebbero ritornati in alto. Era così che doveva andare a finire. Dovette sorridere quando si accorse che, involontariamente, la sua mano, forse da un po' di tempo, compiva un gesto abituale, che le dava fiducia: sferzava con un frustino invisibile il gambale di un invisibile stivale.
Può fare pieno affidamento su Fiorellino. Lui sa che cosa ci giochiamo -, disse quello carino, - era ieri a Zehlendorf. E' in grado di sentir crescere l'erba, per questo lo chiamiamo Fiorellino -. Sorrise lievemente.
Mi sembra che ognuno di noi possa fidarsi di tutti gli altri -, disse l'uomo chiamato Fiorellino con modestia.
Soprattutto deve mettersi addosso qualcosa d'altro, così da troppo nell'occhio. Possiamo cercarle qualche cosa in una boutique. Oggi è gratis -. Si scostò dalla porta per lasciare passare la Weber.
Sulla prima rampa di scale giaceva la sorvegliante Helmke con il volto massacrato. Respirava ancora.
Doveva essere una delle peggiori torturatrici -, disse quello carino passandole davanti.
La Weber non era mai stata torturata, nessuno lo era mai stato a Saalstedt. Questo la Weber non era mai riuscito a capirlo e proprio per questo disse: - Boh, e se… - ma subito notó che Fiorellino le aveva lanciato uno sguardo obliquo. Quel uomo poteva ridere senza contrare il volto. Lo sguardo diceva: noi due ci capiamo già… La Weber sentì come un senso di protezione. Il carcere era quasi vuoto, ora. Da qualche parte qualcuno aveva alzato al massimo una radio.
Verrebbe voglia di stare tutto il giorno accanto alla radio -, disse Fiorellino, - c'è un'edizione speciale dopo l'altra -.
La Weber si ricordava di come avevano festeggiatola presa di Parigi e poi quella di Smolensk e di Simferopol e di come tutti la chiamassero Nester… Non devo pensare a queste cose, pensò.
Sentiva l'urgenza di dire a qualcuno che cosa le era capitato. Non le venne in mente nessuno. Forse Worringer, ma era scomparso come un miraggio; qualcuno le aveva detto che si trovava in Argentina. Pensò a suo padre ad Hannover.
- Aspettate un attimo, devo scrivere una lettera -. Entrarono in un'osteria che aveva la porta aperta. C'era una macchina da scrivare accanto a una sedia rovesciata, senza spalliera.


trad genseki

Eminescu

Il lago

Il Lago celeste tra i boschi
Ricoprono gialle ninfee
S’increspa in anelli d’argento
E culla una piccola barca

Ne vo’ percorrendo le sponde
Con passi impazienti in attesa
Ch'ella apparsa dal canneto
Mi si getti tra le braccia

Poi montiamo sulla barca
E ci inebria il suon dell’acqua
Il timone lascio andare
E mi sfuggono via i remi

Nell’incanto navighiamo
Alla luce della luna
Il canneto trema al vento
Ondeggiando canta l’acqua

Ma non giunge, solitario
Io sospiro, soffro invano
Lungo il bel lago celeste
Ricoperto di ninfee.

Trad. genseki

Botanica

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Botanica

Orobanche carbone
Mozzicone di primavera
perfora la terra rossa
il tuo stelo bruciato
fossile di altre rugiade
di una carezza
delle dita di ragno della pioggia.

*

Artritici steli del cappero
graffiano la sabbia
Un fiore su un una pianta-scorpione
Come un diadema indecifrabile
sigilla la sete.

giovedì, ottobre 30, 2008

Al di lá della vita e della morte


Le righe che seguono sono la prima parte della sola traduzione italiana, credo, di Al di là della vita e della morte di César Vallejo.

ganseki
Brughiere di jara immobili, vento legato a ogni picciolo amputato della bacca pulita che in lui gravita. Lussuria morta sulle colline onfaloidi del monte d'estate. Aspetta. No, non deve essere cosí. Cantiamo un'altra volta.

Il mio cavallo avanzava proprio da quelle parti. Dopo undici anni di assenza mi avvicinavo finalmente a Santiago, il mio paese natale. Il povero irrazionale avanzava, e, io, dal piú profondo del mio essere fino alle mie dita esauste, passando forse per quelle stesse redini ben strette, per le orecchie da quadrupede attente, e ritornando indietro attraverso l'acciottolio degli zoccoli che sembravano danzare sul posto, in misteriose evoluzioni como misurando a tentoni la strada e l'incognito, piangevo mia madre morta due anni prima che non avrebbe dovuto attendere ora il ritorno del figliolo traviato e vagabondo. Tutta la regione, il bel tempo, il color di mietura della sera di limone, e anche qualche casa colonica che la mia anima cominciava a riconoscere, tutto contribuiva ad un'incipiente estasi filiale, e quasi potevano corrugarmisi le labbra per urgare il capezzolo eternamente sempre latteo di mia madre, si sempre latteo, anche oltre la morte.
Con lei, di certo, erao passato di li da bambino. Si, certo. Ma no. Non fu con me ch'ella viaggió per queste lande. Ero troppo piccolo allora. Fu con mio padre e quanti anni fa! Ufff... Era luglio anche allora, intorno alla festa di Santiago, papá e mamma andavano sulle loro cavalcature, lui stava davanti. Il sentiero reale. Poi di colpo mio padre che aveva appena evitato un urto contro un agave inopinato da una curva:

- Attenzione! ... Signora.

Ma la mamma non ebbe tempo e fu disarcionata e cadde sulle pietre del sentiero. La riportarono in paese in barella. Io piangevo molto per mia madre e non mi dicevano che cosa le era successo. Guarí. La veglia della festa era allegra e rideva. Aveva lasciato il letto e tutto era cosí bello. E io non piangevo piú per mia madre.
Ma adesso si, adesso piangevo anche di piú ricordandola cosí, malata, prostrata, che mi voleva ancora piú bene e mi coccolava di piú e mi dava biscotti tirandoli fuori da sotto il cuscino o dal comó. Si, piangevo ancora di piú, ora, avvicinandomi a Santiago, dove solo la avrei trovata morta, seppelita sotto le brassicacee mature e rumorose di un povero cimitero.
Mia madre era morta due anni fa. La prima notizia della sua morte la ricevetti a Lima, dove seppi anche che mio padre e i miei fratelli si erano messi in viaggio verso la fattoria lontana di proprietá di uno zio, per cercare di mitigare il loro dolore per una perdita cosí orribile. Il fondo si trovava in una remotissima regione montana all'altro lato del Fiume Marañon. Da Santiago mi sarei poi recato anch'io fin lassú divorando infiniti sentieri per elevati altopiani e selve ardenti e sconosciute.
Di colpó il mio animale soffió. Un brezza leggera portava la polvere della trebbiatura di una piantagione di orzo. Poi, in prospettiva, ecco Santiago, sulla sua ripida meseta con i suoi tetti ridipinti e il sole giá orizzontale. Si vedeva ancora, verso oriente, al limite di un promontorio giallo brasile il panteon intagliato a quell'ora dalla sesta tintura pomeridiana; ma io, ormai non ce la facevo piú soffocato da atroce inconsolabile angoscia.
Giunsi al paese di notte. Svoltai l'angolo, e, entrando nella strada in cui stava casa mia, mi imbattei in una persona seduta su un banco di pietra davanti alla porta. Sola. Molto sola, tanto sola che soffocando il mistico lutto della mia anima, mi fece paura. Forse anche per la pace quasi inerte con la quale, ingommata dalla mezza forza della penombra il suo profilo si appoggiava al paramento imbiancato del muro. Una scossa perticolare dei nervi mi asciugó le lacrime. Mi feci avanti e mio fratello maggiore saltó giú dal banco, Angelo, mi accolse tra le braccia. Era tornato da pochi giorni dalla fattoria per alcuni suoi affari.
Quella notte. Dopo una cena frugale facemmo veglia fino all'alba. Visitai le stanze, i corridoi e le stalle della casa; e Angelo, anche quando faceva forzi evidenti per controllare questo mio affanno di percorrere la vecchia casona, sembrava anche godere di un tale supplizio, proprio di chi vaga per gli allucinanti domini del piú puro passato della vita.
Durante i pochi giorni del suo passaggio per Santiago, Angelo abitava da solo in casa, dove, secondo lui, tutto era restato tal quale nel momento della morte della mamma. Mi riferí anche come furono i giorni di salute che precedettero la malattia mortale e come fu la sua agonia. Quante volte un abbraccio fraterno ci fece fremere le viscere e mosse nuove gocce di tenerezza congelata e di pianto.

Ah, la dispensa dove chiedevano il pane alla mamma piangendo ipocritamente -

e aprii una porticina di semplici pannelli sconquassati.

Come in tutte le costruzioni rustiche delle montagne peruviane in cui a ogni porta corrisponde un banco di pietra, sulla soglia di quella che avevo appena varcato ve ne era uno, lo stesso della mia infanzia immemoriale, certo riparato e imbiancato molte volte da allora. Aprimmo l'umile porticina e ci sedenmmo portando con noi la lanterna occhitriste. La sua luce diede in pieno sul volto di Angelo, che si estenuava di momento in momento, col trascorrere della notte, mentre andavamo riaprendo la ferita, fino a sembrarmi quasi trasparente. Quando me en resi conto, lo accarezzai e mi misi a coprire di baci le sua guance barbute e severe che di nuovo si bagnarono di lacrime.
Un lampo di quelli che vengono da lontano, in estate , sui monti vuotó le viscere della notte. Tornai a massaggiarmi alle palpebre su Angelo. Né lui, né la lanterna, né il banco di pietra, nulla c'era piú. Nulla potevo udire. Ero come rinchiuso in una tomba...
Poi tornai a vedere mio fratello, la lanterna, il banco. Ma mi sembró di notare che l'aspetto di Angelo era come rinfrancato, rappacificato e, forse mi sbagliavo, si sarebbe detto ristabilito dal suo dolore e debolezza anteriori. Ma forse si tratta di un'illusione del mio sguardo poiché un tale cambiamento sarebbe inconcepibile.
trad genseki

martedì, ottobre 28, 2008

Rimbaud




Canzone della Torre piú alta




Giovinezza oziosa
A tutto asservita,
Per delicatezza
Perdetti la mia vita.
Ben venga l'ora
Che il cuor s'innamora.
Lascia mi sono detto
Che nessuno ti veda:
E senza la promessa
D'una gioia piú eletta
Che nulla ti fletta,
Augusto disdegno.
Tanta fu la pazienza
Che piú non v'è oblio
paure e sofferenza
al cielo son volate
Mille seti oscene
oscurano le vene
Così la prateria
Arresa all'oblio
piú ampia e fiorita
Di incenso e di loglio
Nel ronzio accanito
di cento mosche luride.
Ah quante vedovanze
Per l'anima cattiva
Cui sol giova l'icona
Della Nostra Signora
Si può forse pregare

La Vergine Maria?
O giovinezza oziosa
A tutto asservita,
Per delicatezza
Perdetti la mia vita
Ben venga l'ora
Che il cuor s'innamora!
*


trad. genseki

Gaspard de la nuit




Louis Bertrand
Gasparo della notte



Fantasie notturne alla maniera d Rembrandt e di Caillot
Scuola Fiamminga





Quando di Amsterdam il gallo d'oro canterá
La chioccia d'oro di Harlem fará l'uovo.
Nostradamus




***




Haarlem questa ammirevole “bambochade” che riassume la scuola fiamminga, Harlem dipinta da Jean Breughel, Peeter Neef, David Téniers e Paul Rembrandt,




E il canale ove tremola l'acqua azzurra, e la chiesa la cui vetrata arde e la lobbia ove si asciuga al sole il bucato e i tetti verdi di luppolo;




E le cicogne che battono le ali attorni all'orologio della cittá, allungano il collo nell'aria e raccolgono nel becco le gocce di pioggia;




Il borgomastro tranquillo che si accarezza il doppio mento, e il fiorista innamorato che dimagrisce senza poter distogliere l'occhio da un tulipano;




E la zingara che si sfinisce al mandolino e il vecchio che suona la caccavella, il bambino che gonfia una vescica;




I bevitori che fumano nelle taverne losche, e la sguattera della locanda che appende alla finestra un fagiano morto.




trad. genseki

lunedì, ottobre 27, 2008

Giustificazione

Raissa Maritain

Da i grandi amici

Quand’anche non ci fosse che un solo cuore al mondo a soffrire certe sofferenze, un solo corpo a conoscere l’agonia della morte, tutto ciò esigerebbe una giustificazione. E quand’anche non vi fosse che la sofferenza di un solo bambino, se anche soltanto gli animali soffrissero sulla terra, questo, tutto questo, esigerebbe una soddisfazione.

a cura di genseki

Germain Nouveau (1851-1920)

Le Musulmane

Nascondete i capelli come un vello impudico,
Le vostre sopracciglia, questi baffi degli occhi;
Celate i vostri occhi, quei globi preoccupati
Specchi d'ombra ove resta un sadico riflesso.
E l'orlo dell'orecchio: un abisso, la smorfia
Delle labbra, la ferita scarlatta, l'incavo
Della guancia, la rosa della lingua gioiosa
Insieme le celate al naso senza eguali.
Vi custodisce il velo custode della casa
La casa vi rinserra: è la vostra prigione;
Vi comprendo: l'amore vuole un'immensa scena.
Fratello non è questa la donna che tu brami?
Avvolta nel pudore, completamente oscena
Dalle piante dei piedi, su, su fino ai capelli.

*

Il Bacio

"Tutto quanto fa l'amore" -
Tu mi dici. Ed io commento
Anche i passi con la strada
Col tamburo la bacchetta.
Lo fa il dito con l'anello
E la rima con il senso
Anche l'onda con il vento
Con lo sguardo l'orizzonte.
Lo fa il riso con la bocca
Con il vimine il coltello
Lo fa il corpo con il letto
Con l'incudine il martello.
Ogni filo con la tela
E la terra con il verme
Il battello con la stella
Con il sole lo fa il mare.
Come l'albero ed il fiore
Con la E lo fa l'accento
Con il marmo l'epitaffio
Col passato la memoria.

Gabriel de Tarde


Frammenti di storia futura II - La catastrofe -


Non erano piu’ milioni, erano miliardi quelli che guadagnava l’invetore dell’ultima innovazione industriale, perche’ nulla poteva piu’ arrestare, nella sua irradiante espansione la voga di un’idea qualunque nata in qualsiasi posto. Non a centinaia, ma a migliaia si contavano le edizioni di un libro che fosse piaciuto un poco al pubblico e le rappresentazioni di una piece moderadamente di successo. La rivalità degli autori era quindo salita a un diapason acutissimo. La loro verve, inoltre, aveva un ampio spazio di manovra, giacche’ tra i primi effeti del neo-ellenismo dilagante ci fu quello di sommergere tutte le pretese letterature deli avi, divenute inintellegibili, e di cancellare persino i titoli di quelli che erano chiamati capolavori classici, persino i nomi barbari di Shakespeare, di Goethe, di Hugo, di cui solo gli eruditi decifravano con grande fatica i versi pietrosi. Saccheggiare quella gente che quasi nessuno poteva piu’ leggere era far loro un piacere e un onore persino esagerato. Non si manco’di cogliere l’occasione; e fu prodigioso il successo di queste ardite compilazioni vendute come creazioni. La materia da sfruttare in quel modo era quasi inesauribile.
Per disgrazia dei giovanni autori, gli antichi poeti morti da secoli erano tornati alla luce, Omero, Sofocle, Euripide, erano risuscitati, cento volte piu’ fiorenti di salute che ai tempi di Pericle; e questa concorrenza inaspettata disturbava seriamente i nuovi arrivati. I geni originali avevano un bel rappresentare novita’ sensazionali come Athalias, Hemanias, Macbethes, il pubblico spesso le trascurava per correre alle rappresentazioni di Edipo Re o degli Uccelli. Nanais, affresco vigoroso di un romanziere innovatore falli’ míseramente di fronte al suceso frenetico di un’edizine popolare dell’Odissea. Alle orecchie sature di alessandrini classici, romantici o altro, nauseate dai giochi infantili della cesura e della rima, a volte giocando all’altalena aricchendosi e impoverendosi a vicenda, a volte a nascondino scomparendo per farsi ritrovare, il bel esametro libero e abbondante di Omero, la strofa di Saffo, il giambo di Sofocle, vennero a procurare delizie ineffabili che fecero il maggior torto alla musica di un certo Wagner. La musica in generale ricadde in un posto secundario nella gerarchia delle belle arti e ci fu, invece, in questo rinascimento filologico dello spirito umano, l’occasione di una fioritura letteraria insperata che permise alla poesia di riprendere il suo posto legittimo, cioe’ il primo. Essa non manca mai di rifoirire, quando la lingua cambia completamente si prova piacere a esprimere di nuovo le eterne banalita’.
Non era un semplice passatempo di persone delicate. Il popolo vi prendeva parte con passione. Certo, allora, aveva l’agio di leggere e gustare le opere d’arte. La trasmissione della forza a distanza per mezzo dell’elettricita’ e la sua mobilita’ sotto mille forme, per esempio in bombote d’aria compressa fácilmente trsportabili, aveva ridotto a nulla la mano d’opera. Le cascate, i venti, le maree erano diventati i servitori dell’uomo, come nelle epoche antiche, e in proporzioni infinitamente minori, lo era stato il vapore. Distribuita e utilizzata intelligentemente da macchine perfezionate semplici e ingeniose, questa inmensa energia gratuita della natura aveva reso da tempo superflui tutti i domestici e la maggior parte degli operai. I lavoratori volontari che ancora esistevano passavano tre ore scarse nelle fabbriche nazionali, grandiosi falansteri dove la potenza della produzione del lavoro umano, decuplicta, centuplicata, oltrepassava tutte le speranze dei loro fondatori.
Oviamente la questione sociale fu risolta; in mancanza di miseria, e’ vero, non ci si disputava piu’ la ricchezza o il benessere, di cui tutti godevano, e che quasi nessuno ormai apprezzava piu’, per la mancanza della bruttezza anche l’amore non era piu’ desiderato, visto che l’abbondanza di belle donne e begli uomini lo rendeva cosi agevole e comune, almeno in apparenza. Cacciato cosi’ dai suoi grande percorsi precedenti, il desiderio umano si precipito’ tutto intero verso il solo campo che gli restasse e che si ampiava ogni giorno in virtù della centralizzazione socialista, il potere politico da conquistare e, l’ambizione debordante, crebbe di colpo con tutte le brame confluenti in essa soltanto, con tutte le cupidigie e le invidie dell'età precedente, e si elevó, infine, ad altezze spaventose. Era una gara a chi si impadroniva di questo bene supremo, lo Stato; si trattava di porre l’onnipotenza e l’onniscienza dello Stato universale al servizio del proprio programma personale o del prorio sogno umanitario. Non fu, come era stato tanto previsto, una vasta repubblica democratica quella che sorse da questa situazione. Tanto orgoglio in ebollizione non poteva non sollevare un nuovo trono, il piu’ alto, il piu’ forte, il piu’ radioso che mai fosse stato. D’altra parte da quando la popolazione dello Stato unico si contava a miliardi il suffragio universale era diventato illusorio e impraticabile, per ovviare all’inconveniente molto grave di assemblee deliberanti si erano dovuti ampliare a tal punto i collegi elettorali che ogni deputato rapresentava almeno dieci milioni di elettori. Questo non e’ affatto sorprendente se si pensa che allora si ebbe l’idea semplicissima di estendere il diritto di voto alle donne e ai bambini, esercitato a nome loro, ovviamente, dal padre o dal marito legittimo o naturale. Tra parentesi questa riforma necessaria e salutare, conforme al buon senso e alla logica, reclamata contemporaneamente dal principio della sovranità nazionale e dal bisogno di stabilità sociale, quasi fallì, cosa che ha dell’incredibile, a causa della coalizioane degli scapoli.
La tradizione racconta che la proposta di legge relativa a questa estensione indispensabile del suffragio sarebbe stata sicuramente respinta se, per fortuna, l’elezione recente di un miliardario sospettato di cesarismo non avesse spaventato l’assemblea. Essa credette di nuocere alla popolarita’ di questo ambizioso affrettandosi ad accogliere questo progetto in cui non vide che una cosa e cioe’ che i padri e i mariti, allarmati dalle galanterie del nuovo Cesare, sarebbero stati piu’ forti per ostacolare la sua marcia trionfale. Ma questa attesa fu a quanto pare delusa. Qualunque sia il greado di veritá di questa leggenda, è certo che a causa dell’allargamento delle circoscrizioni elettorali, combinato con la soppressione del privilegio elettorale, l’elezione di un deputato era una vera e propria incoronazione e dava di solito all’eletto la vertigine della grandezza. Questa feudalita’ ricostituita doveva fatalmente condurre alla ricostruzione della Monarchia. Alcuni scienziati, cinsero per un istante questa corona universale, secondo la profezia di un antico filosofo ma non la conservarono. La scienza volgarizzata da scuole innumerevoli, era diventata un patrimonio tanto comune come una bella donna o un arredamento elegante; e, estremamente semplificata dalla sua stessa perfezioe, compiuta in grandi linee immutabili, in cornici rigide, ormai, e piene di fatti, progredendo solo impercettibilmente, occupava un piccolo posto soltanto, in fondo ai cervelli dove sostituiva il catechismo di una volta. La maggior parte della forza intellettuale andava quindi in tutt’altra direzione, cosi’ come la gloria e il prestigio. Già i corpi scientifici, resi venerabili dall’antichità loro, cominciavano, ahimè a tingersi di una leggera patina di ridicolo, che faceva sorridere e pensare ai sinodi dei bonzi o alle conferenze ecclesiastiche come erano rappresentate in vecchi disegni.
Non è dunque in nessun modo sorpendente che a questa prima dinastia di imperatori fisici e geometri, miscuglio bonario di Antonini, sia rapidamente succeduta una dinastia di artisti evasi dall’arte che maneggiavano lo scettro come un tempo l’archetto, lo scalpello o il pennello. Il piu’ glorioso di costoro, uomo dallimmaginazione esuberante dominata e servita da un’energia ineguagliabile, fu un architetto che, oltre altri progetti giganteschi, immagino’ di radere al suolo la sua capitale, Costantinopoli, per ricostruirla altrove, sul sito, deserto da piu’ di tremila anni, dell’antica Babilonia. Idea davvero luminosa. In questa pianura incomparabile della Caldea, bagnata da un altro Nilo, c’era un altro Egitto, ancora piu’ fertile e piu’ bello da resuscitare, da transfigurare, una distesa orizzontale infinita da coprire di arditi monumentisi, di popolazioni dense e febbrili, di messi dorate sotto un cielo sempre azzurro, di ferrovie irradianti dalla citta’ di Nabucodonosor alle estremità dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia, attraverso l’Himalaya, il Caucaso e il Sahara. Tutto questo fu fatto in qualche anno. La forza immagazzinata e trasmessa elettricamente di cento cascate abissine e di non so quanti cicloni bastò senza sforzo a trasportare dai monti d’Armenia la pietra, il legno e il ferro necessari a tante costruzioni. Un giorno, un treno di piacere composto da mille e un vagoni, essendo passato troppo vicino a un cavo trasmettitore nel momento della sua maggior carica, fu folgorato e polverizzato in un batter d’occhio. Ma anche Babilonia la fastosa citta’ di fango, dallo splendore miserabile di mattoni crudi e dipinti, si trovo’ ricostruita in marmo e granito, per la maggior umiliazione dei Nabopolassar e dei Baldassarre, dei Ciro e degli Alessandri. Inutile aggiungere che gli archeologi fecero, in questa occasione, scoperte inestimabili, in molti strati sovrapposti di antichità babilonesi e assire. La mania assiriologica andò tanto in là che tutti gli ateliers di scultura, i palazzi e persino gli armadi dei sovrani si riempirono di tori alati dalla testa umana, come un tempo i musei erano pieni di cherubini avvolti nelle proprie ali, e si giunse a far stampare alcuni manuali della scuola elementare in cueniforme per dare autorità a questi testi sulle giovani immaginazioni.
Questa orgia imperiale di edilizia avendo causato disgraziatamente la settima, ottava e nona bancarotta dello Stato, e innumerevoli inondazioni consecutive di carta moneta, ci si rallegrò, in generale, di vedere, dopo questo regno brillante, la corona portata da un finanziere filosofo. Una volta ristabilito l’ordine nelle finanze egli si impegno’ ad applicare su vasta scala il suo ideale di governo che era di una natura molto singolare. Non si tardò a notare, in effetti, dopo la sua entrata in carica, che tutte le dame d’onore appena scelte, intelligentissime ma prive di spirito, brillavano per la loro evidente bruttezza; che le livree di corte erano di un colore grigio e opaco; che i balli di corte, riprodotti dalla cinematografia istantanea in milioni di esemplari, fornivano la collezione dei volti più onesti e più insipidi e delle forme meno attraenti che si potessero vedere; che i candidati appena nominati, dopo invio di ritratti, alle piu’ alte cariche dell’Impero, si distinguevano essenzialmente per la volgarità dei loro tratti; infine che le corse e le feste publiche (il cui giorno era stato stabilto in anticipo sulla base dei dispacci segreti segnalanti l’arrivo di un ciclone americano) si svolgevano nove volte su dieci sotto una pioggia battente o in una nebbia spessissima che le trasormava in un’immensa esposizione di ombrelli e impermeabili. Nel caso dei progetti, come in quello delle persone, la scelta del principe era sempre la stessa, il piu’ utile o il migliore tra i più brutti. Una monocromia insopportabile, una soffocante monotonia, una insipidita’ nauseabonda, era il tratto distintivo di tutte le opere del governo. Se ne rideva, ci si ribellava, ci si indignava, ci si abituava. Il risultato fu che dopo un certo tempo, non si poteva più trovare un artista o un letterato declassato che non abbandonasse la ricerca delle cariche per rimettersi a rimare, scolpire e dipingere ; e in seguito si diffuse e consolidò questo aforisma, che la superiorità degli uomini di Stato non è che la mediocrità elevata alla massima potenza.
Grande vantaggi si dovettero a questa mente eminente. L’alto pensiero del suo regno ci è stato rivelato dalla pubblicazione postuma delle sue memorie. Di questo scritto che tanto ci manca, non ci resta che qualche frammento che basta a farsi rimpiangere tutto il resto:
“Chi è il ver fondatore della sociología? Auguste Comte? No, Menenio Agrippa. Questo grand’uomo ha compreso che il governo era lo stomaco, non la testa del corpo sociale. Ora, il merito di uno stomaco, è di essere buono e brutto, utile e repugnante da vedere, perchè se questo organo indispensabile fosse piacevole da vedersi, ci sarebbe da temere che si finisse per porvi mano e la natura ha preso tutte le sue precauzioni per nasconderlo e per defenderlo. Quale uomo sensato si picca di avere un bel apparato digestivo, un fegato grazioso, dei polmoni eleganti? Questa pretesa non sarebbe, tuttavia, più ridicola della mania della grandezza e della beltà in politica. Bisogna che la politica sia solida e piatta. I miei poveri predecessori...”, una lacuna. Un po’ piu’ avanti, si legge: “Il miglior governo e’ quello che si dedica a essere cosi’ perfettamente borghese, corretto, neutro e castrato, che nessuno si potrebbe più appassionare pro o contro”. Tale era quest’ultimo successore di Semiramide. Sul sito ritrovato dei giardini pensili, aveva fatto erigere a spese dello stato, una statua di Ligi-Flippo in alluminio battuto, nel mezzo di un giardino pubblico di alloro e cavolfiore.
L’universo respirava, sbadigliava un po’, forse, ma si apriva per la prima volta alla pienezza della pace, all’abbondanza quasi gratuita di tutti i beni, e e questo nella piu’ abbondante fioritura o piuttosto esposizione di poesia e di arte, ma soprattutto di lusso che si fosse mai vista sulla terra. Fu allora che un allarme straordinario e di nuovo genere, provvocato a giusto titolo da osservazioni astronomiche fatte sulla torre di Babele, ricostruita come Torre Eiffel, molto piu’ grande, comincio’ a difforndersi tra le popolazioni spaventate.

II La catastrofe

A più riprese gia’ il sole aveva dato segni manifesti di indebolimento. Di anno in anno, le sue macchie moltiplicate si ingrandivano, il suo calore diminuiva sensibilmente. Ci si perdeva in congetture: mancava il combustibile?. Stava attraversando, nel suo esodo attraverso lo spazio, una regione estremamente fredda ? Chissà. Comunque l’opinione pubblica non si preocupava molto della cosa come di tutto quello che è graduale e non imprevisto. L’anemia solare, che ridava qualche interesse all’astronomia trascurata, era diventata solo il tema di articlo piccanti nelle riviste. In generale, gli scienziati, nei loro laboratori ben scaldati, mostravano di non credere all’abbassamento della temperatura, e, malgrado le indicazioni formali dei termometri, ripetevano senza sosta che il dogma dell’evoluzione lenta e della conservazione dell’energia, combinati con l’ipotesi classica della nebulosa, impediva di ammettere un raffreddamento della massa del sole, abbastanza rapido da farsi sentire nel corso di appena un secolo, e quinde a maggior ragione di un lustro o di un anno. Alcuni dissidenti di temperamento eretico e pesimista facevano notare, e’ vero, che in diverse epoche, a credere agli astronomi del passato, certe stelle si erano gradualmente spente nel cielo, o erano passate dal più intenso splendore all’oscurità quasi assoluta, nel corso di un anno scarso. Concludevano che il caso del sole non aveva nulla di eccezionale, che la teoria dell’evoluzione tardigrada non era, forse, universalmente applicabile, e che, come lo aveva profetizzato, in tempi favolosi, un antico visionario mistico chiamato Cuvier, accadevano vere rivoluzioni nel cielo come sulla terra. Ma la scienza ortodossa lottava indignata contro simili arditezze.
Tuttavia l’inverno del 2489 fu cosi’ disastroso che si dovettero ben prendere sul serio le minacce degli allarmisti. Si giunse a temere ad ogni istante “l’apoplessia solare”. Era il titolo di una brochure sensazionalista che ebbe ventimila edizioni. Si aspettavaa ansiosamente il ritorno della primavera.
Tornò, infine la primavera e il re degli astri riapparve, ma quanto degradato e irriconoscibile! Era rosso. I prati non erano piu’ verdi, il cielo non era piu’ azzurro, i cinesi non erano piu’ gialli, tutto aveva cambiato colore di colpo come in un incantesimo. Poi, poco a poco, da rosso che era si fece arancio, sembrava, allora, una mela d’oro nel cielo, e, per qualche anno lo si vide passare con tutta la natura attraverso mille sfumature magnifiche oppure terribili, da arancione a giallo, da giallo a verde e, infine, dal verde all’indaco chiaro e all’azzurro pallidi. I metereologi si ricordarono, allora che, nel 1883, il 2 settembre, il sole era apparso un giorno intero, azzurro come la luna. Tanti colori, altrettanti paesaggi nuovi dell’universo proteiforme, che meravigliavano lo sguardo spaventato, che ravvivavano, riconducevano alla sua acutezza primitiva l’impressione rinnovata delle bellezze naturali e commuovevano in modo strano il profundo dell’anima rinnovando il volto delle cose.
trad genseki

giovedì, ottobre 23, 2008

Malvina

Malvina aveva occhi cattivi
Quando passeggiava nel viale dei gelsi
Quando sedeva su sedie di raffia
Quando provava i suoi vestiti di fustagno
Malvina aveva occhi cattivi
Quando fregava i piedi sui mattoni del suolo
Facendo convergere gli alluci
Mentre i talloni facevano da perno
Le mani si scaldavano nel suo grembo nero
Malvina apparteneva a Jacob
Io potevo vederla di rado
Attraverso le grate della finestra
O del cancello
Passeggiare tra le foglie morte
O indossare i suoi mantelli neri
Jacob possedeva il suo corpo bianco
Goffo come la carena di un relitto
Come il fossile di un gigantesco airone del giurassico
Così gettata bianca sulla schiena le braccia
ad abbracciare la luna
Come un gabbiano morto
Malvina non mi apparteneva
Non era mio il suo odore di muffa
Le sue parole stantie
Non corrispondevano alle mie esclamazioni
Jacob possedeva Malvina
Con i suoi occhi cattivi
Jacob la possedeva con avarizia meschina
Come si possiede una pelliccia di topi albini
E io li guardavo giocare
Il loro gioco cattivo
Dal fondo del parco reale
Dietro le grate del cancello
O dalla finestra della cucina
Scaricando la farina di castagne
O quanto avrei voluto sgranare
Il mio povero rosario
Sulle pupille dei suoi occhi crudeli!

genseki

Georgette de Vallejo



Settanta anni fa il 15 di aprile 1938 a Parigi moriva César Vallejo, sulla sua tomba nel cimitero di Montparnasse Georgette sua moglie fece incidere questi versi:

Mia vita
Mia disgrazia

Culla ogni donna
Eternamente un bimbo

Ho tanto nevicato
Perché ti addormentassi

Ho pianto tante lacrime
Per scioglierti la bara.

*
trad. genseki

Huerta

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