venerdì, aprile 11, 2008

Orazione metasemantica



Ah prato-Dio guàzzero d'azzigli

Accoglici nei lénuli ripagni

Fufurra in eucaristici bisbigli

I fògani, gl'idraschi, i lupidagni.



F. Maraini

Prato

da: "La gnosi delle Fanfole"

giovedì, aprile 10, 2008


La danza di Siva

Dio, diventato materia, si è dilatato nella magnificenza e nella mutua circolazione delle formazioni, diviene consapevole dell'espansione, della perduta puntualitá, si adira per questo. Egli trova il suo essere riversato nella totalitá senza pace nè riposo, dove non c'è nessun presente, ma uno sconfinare desolato oltre i limiti che si vanno riformando ogni volta che sono stati superati.

Questa ira ... è la distruzione della natura ..., è uguamente un andare assoluto dentro se stesso, un divenire verso il centro. In questo centro l'ira divora le sue forme dentrodi sè, ... le loro ossa vengono allora triturate e la loro carne macerata nel flusso che ne consegue.
Hegel

a cura di genseki

sabato, aprile 05, 2008

Il grido di Ivan Ilich


Che cos'è la parola assoluta? Che cosa ne è del discorso completamente terminato? Il discorso che ha esaurito in sé tutte le proprie figure storiche ed è ritornato su di sé non puó essere definitivamente considerato che come una lingua morta?
Queste sono le domande che si pone Agamben nel saggio “Sé. Assoluto, Ereignis” analizzando questi concetti nella prospettiva della Fenomenologia hegeliana e della lettura che di essa da Heidegger.
Prosegue con una citazione dalla Scienza della Logica:

“La logica esprime l'automovimento dell'idea assoluta come la parola originaria che è un profferire, ma che appena profferita svanisce inmediatamente, mentre ancora è. La idea resta, pertanto, solamente in questa autodeterminazione di percepirsi, resta nel puro pensiero, dove la differenza non consiste ancora nell'essere altro, ma che invece è e resta perfettamente trasparente a se stessa”.

Come è possibile concepire una parola originaria che una volta pronunciata, inmediatamente si dissolve? Si domanda Agamben. E continua domandandosi ancora se si puó trattare di una parola che si fa voce puramente animale, che l'uomo emette emette senza mediazione così come gli uccelli il loro canto o l'asino il suo raglio.
Egli avanza anche l'ipotesi di considerare questa parola finale come una glossolalia nel senso paolino, una parola antichissima che ha esaurito qualunque capacitá di significazione ulteriore fino a implodere, a farsi interna a se stessa, a diventare inconcepible.
Tale parola non è quella cui si riferisce Lacan quando ci domanda che cosa resta del significante che ha perduto qualsiasi significato?
C`è un testo, credo, in cui questa parola, la parola Assoluta, la parola Originaria è vissuta.
Si, è vissuta come un avvenimento, nella sfera dell'esistenza come l'esperienza cosciente della propria morte:

“A a partire da quel momento cominció un ululato che duró tre giorni, un ululato tanto atroce che non era possibile udirlo senza spaventarsi attraverso due porte. Nello stesso momento in cui aveva risposto di si a sua moglie, Ivan Ilich aveva compreso che era perduto. Che non v'era ritorno possibile che era giunta la fine, la fine di tutto e che tutto i suoi dubbi restavano irrisolti, continuavano ad essere dubbi.
“Oh, oh, oh”, gridava in varie tonalitá. Aveva cominciato gridando non voglio e aveva continuato gridando con la sola lettera O.
Questi tre giorni durante i quali il tempo non aveva significato per lui stette resistendo in quel sacco nero verso il quale lo spingeva una forza invisibile e irresistibile. Resisteva come resiste un condannato a morte nelle mani del boia, sapendo che non puó salvarsi; e ad ogni minuto che passava sentiva che nonostante tutti
i suoi sforzi si avvicinava sempre di pi´´u a ció che tanto lo spaventava. Aveva la sensazione che il suo tormento derivasse dal fatto di venire spinto verso quel buco nero e ancor di più dal fatto che non poteva entrarvi senza sforzo. La causa che gli impediva di entrarvi era la convinzione che la sua vita era stata buona, questa convinzione lo tratteneva, non lo lasciava avanzare, era il peggior tormento...”

Il grido di Ivan Ilich è la sua parola Assoluta, la sua parola originaria, la parola che ha esaurito tutti i significati possibili dell'esperienza. E`il significante nel momento dell'abbandono di ogni ulteriore possibilitá di significazione. Il grido di Ivan Ilich è la vita che si fa trasparente a se stessa proprio nel momento, qui si tratta di due ore prima, della propria morte. La vita di Ivan Ilich è la parola pronunciata che svanisce non appena è pronunciata, mentre ancora è. La luce che Ivan Ilich scorge è la pura trasparenza della vita come idea.
genseki

sabato, marzo 22, 2008


Carilda Oliver Labra

Ti dico adddio, follia dei miei trent'anni
Baciato in luglio con la luna piena
Nella stagione dei gigli e della pena
Addio, mia benda per curare i danni.
Addio, mia scusa, mio disordine bello,
Tenero allarme, mio sconoscente frutto:
Tu astro passeggero del mio lutto,
Tu speranza di tutto pel mio collo.
Addio ragazzo dalla presenza corta;
Addio garzone adetto alla mia aorta
Tristissimo giocattolo violato
Addio verde piacer, falso delitto;
senza grido ne gemito relitto.
Addio mio sogno giammai abbandonato.

Trad. genseki
*

mercoledì, marzo 19, 2008

Eriugena

Sicuramente è un esercizio inutile dal punto di vista della veritá e del concetto ritrarre un Filosofo sullo sfondo del pasaggio, del suo paesaggio. La nottola del concetto e quella della veritá si levano al calar del sole quando il paesaggio sfuma nell'indistinto dei grigi, nell'informe del nero.
Dove è luce anche è vita e molteplicitá di forme che si contraddicono e si sovrappongono, si alimentano e si sviluppano, colore,densitá, crescita, calore.
Johannes Scotus ci appare sullo sfondo di una natura salina, piovosa, ombreggiata di latifoglie dal verde notturno. Il vento spettina praterie antiche ove le fruttificazioni delle graminacee si vincolano immediatamente al sole.
Ci sono grandi rapaci le cui rotazioni venatorie simulano quelle delle sfere celesti.
I muschi formano cortine e veli che moltiplicano la prospettiva lineare dei tronchi dei faggi che con i loro grandi occhi grigi, tra la pelle dei tronchi d'argento osservano la danza delle gocce da foglia a foglia. Anche le gocce sono frammenti di luce.
Così piace immaginare il saggio dagli occhi acquosi, dai capelli di un rosso anacquato come un vino male imbottigliato, vestito di lane clericali dal panneggio ieratico e pastorale ad un tempo.


*

Nostrum orbem terreum differentiam in paradiso iuxta rationem naturae non habere; non enim natura separantur sed qualitatibus et quantitatibus coeterisque varietatibus, quae propter peccatu generale generalis humanae naturae ad poenam eius, imo etiam ad correctionem et exercitationem, huic terrae habitabili superaddita sunt. Non enim mole vel spatiis discernitur paradysus ab isto habitabili orbe terrarum sed diversitate conversationis differentoaque beatitudinis.

*

Non enim potuit ascendere in Deum, nisi prius foret Deus.

*

Radius oculorum nostrorum species rerum sensibilium coloresque non prius potest sentire quam se solaribus radiis inmiscent, namque in ipsis et cum ispsis fiat.

Che ci porta a Goethe: "Wär nicht das Auge sonnenhaft könnte es die Sonne nicht erblicken.

*

Non enim possibile est locum subtracto tempore intellegi, sicut neque tempus sine loci cointelligentia diffiniri potest. Haec, enim, inter ea quae simul et semper sunt inseparabiliter ponantur.

*

Essentia itaque animae nostrae est intellectus qui universitati humanae naturae praesidet.

*

Omnia itaque quae per verbum facta sunt in ipsis vivunt incommutabiliter et vita sunt, in quo neque fuerunt omnia temporalibus intervallis seu localibus nec futura sunt, sed solummodo super omnia tempora et loca in ipso unum sunt et universaliter subsistunt visibilia, invisibilia, corporalia, incorporalia, rationalia, irrationalia et, simpliciter caelum et terra, abyssus et quaecumque in eis sunt, in ipso vivunt et vita sunt et aeternaliter subsistunt.

*

Cuius lux per excellentiam tenebrae nominatur, quoniam a nulla creatura quid vel qualis sit comrehenditur.

*

Nulla seu rationalis seu intellectualis creatura per se ipsam substantialiter lux est, sed participatione unius ac veri luminis substantialis quod ubiquein omnibusque inelligibiliter lucet.

*

Si Pater luminum per seipsum lux est, neque enim Pater luminum esset si in seipso lux non subsisteret omnia quae fecit in sapientia sua, quae et ipsa lux est, quoniam coessentialis Pater luminum est numquid aliter existimandum nisi ut omnia, quae Pater lux in sapientia coessentiali sibi luce condidit, lumina condita credantur et intelligantur.


Con questa vibrante sequenza di luci intrecciate e riflesse che si ritroverá mezzo millennio piú tardi nell'altra grande cattedrale del pensiero medioevale: La Comedia di Dante, lascio il saggio celtico che dominava il greco e spiegava la natura di tutte le cose come un oceano di luce.

genseki

domenica, marzo 09, 2008

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PACO YUNQUE

Quella che segue è la prima parte del racconto di Vallejo: Paco Yunque che credo non sia stato tradotto in italiano. Fu scritto da Vallejo nel 1931 e gli editori a cui si rivolse per la pubblicazione pare che lo rifiutarono perché troppo triste per i bambini. Certamente questo racconto è nutrito dell'esperienza come maestro che Vallejo fece per un anno in Trujillo, mi pare nel 1911. Scrivendo queste poche righe un'immagine mi si è formata nella mente quella di Vallejo con Antonio Gramsci, fratelli d'estrema tristezza d'invincibile dignitá.
Quando Paco Yunque e sua madre giunsero alla porta dellla scuola, i bambini stavano giocando nel cortile. Paco, passo dopo passo, si diresse verso il centro, con il suo primo libro, il suo quaderno e il suo lapis. Paco aveva paura, perché era la prima volta che vedeva una scuola; non aveva mai visto così tanti bambini tutti insieme.
Diversi alunni , piccoli come lui, si avvicinarono e Paco, sempre piú timido si incollò al muro e si fece tutto rosso. Che ragazzi svegli erano quelli! Così disinvolti! Come se fossero a casa loro. Gridavano. Correvano. Ridevano a crepapelle. Saltavano. Si prendevano a pugni. Era un caos.
Paco era anche un po' rintontito, perché in campagna non aveva mai ascoltato le voci di tante persone tutte insieme. In campagna prima parlava uno, poi un altro e dopo un altro ancora. A volte gli capitó di udire anche quattro o cinque persone che parlavano tutte insieme. Suo padre, sua madre, don José, Anselmo lo Zoppo e la Tomasa. Ma queste non erano piú voci di persone, erano un'altra cosa. Molto differente. E adesso, questo si, questo del collegio si che era un gran casino, messo su da un mucchio di gente. Paco era assordato.
Un bambino biondo e grasso, vestito di bianco gli stava parlando. Un altro piú piccino, con la voce un po' roca, gli stava parlando anche lui. Gli alunni si staccavano dai gruppetti di cui faceevano parte e si avvicinavano per venire a vedere Paco, e gli facevano molte domande. Paco, però non poteva sentire niente per le strida degli altri.
Un bambino biondastro, con una giacchetta verde ben stretta in vita afferró Paco per un braccio e lo volle trascinare con sè. Paco non si lasció fare. Il biondo lo afferró di nuovo e lo scosse violentemente. Paco si schiacció ancor piú contro la parete e si fece tutto rosso. Proprio in quel momento suonó la campana e tutti entrarono in classe.
Due bambini – i fratelli Zumiga – presero Paco per mano e lo condussero nella classe di prima. Paco, subito, non volle seguirli, dopo, peró, obbedí, quando si accorse che tutti quanti facevano lo stesso. Quando entró in classe impallidí. Di colpo tutto tacque e questo fece paura a Paco. Gli Zumiga lo stavano trascinando uno da un lato e l'altro da l'altro quando di colpo lo lasciarono solo.
Entró il maestro. Tutti i bambini stavano in piedi, con la mano destra alzata all'altezza delle tempie, salutando in silenzio, ben dritti.
Paco senza mollare il libro, il quaderno e il lapis era rimasto fermo nel bel mezzo della classe, tra i primi banchi degli alunni e la cattedra del maestro. Aveva le vertigini. Bambini, pareti gialle. Gruppi di bambini. Vociare. Silenzio. Sbattere di sedie. Il maestro. Solo, immobile, nella scuola. Voleva piangere. Il maestro lo prese per mano e lo portó a uno dei banchi delle prime file accanto a un bambino grande come lui. Il maestro gli domandó:
Come si chiama lei?
Con voce tremante Paco rispose flebilmente:
- Paco
E il suo cognome? Dica per favore come si chiama per intero.
- Paco Yunque
- Molto bene
Il professore ritornó alla sua cattedra e dopo aver gettto un'occhiataccia su tutti gli alunni, disse con voce militare:
- Sedetevi!
Un rumore di banchi mossi e tutti gli alunni stavano giá seduti.
Anche il maestro si sedette e per qualche momento scrisse nei suoi registri. Paco Yunque continuava a tenere in mano il suo libro, il suo quaderno e il suo lapis. Il suo compagno di banco gli disse:
- Posa tutto sul banco come faccio io.
PacoYunque era sempre molto stordito e non gli fece caso. Il suo compagno, allora prese anche i libri e li mise sul banco. Poi gli disse allegramente:
- Anche io mi chiamo Paco, Paco Farina. Non startene triste, giochiamo con la mia scacchiera. C'ha le torri nere. Me l'ha comprata la zia Susanna. Dove vive la tua famiglia, la tua?
Paco Yunque non rispondeva niente. Quest'altro Paco gli dava fastidio. Era sicuramente come tutti gli altri bambini: chiacchieroni e contenti che non avevano più paura della scuola. Perché erano cosí e perché, lui, Paco Yunque ci aveva tanta paura, invece? Guardava furtivamente il maestro, la cattedra, il muro dietro il maestro, il soffitto. Guardava anche di straforo, attraverso la finestra, il cortile che ora era abbandonato e in silenzio. Fuori splendeva io sole. Di quando in quando giugevano voci dalle altre classi e rumori di carri che passavano per le strade.
Che strano stare a scuola! Paco Yunque comincia a ritornare un po` in sé. Pensó a casa sua e alla mamma. E chiese a Paco Farina:
- A che ora si va a casa?
- Alle undici. Dove abiti?
- Da quella parte.
- Ê lontano?
Paco Yunque non sapeva in che strada si trovava la sua casa perché era da poco che lo avevano portato dalla campagna e non conosceva la cittá.
Risuonarono alcuni passi di corsa nel cortile e sulla porta dell'aula apparve Humberto, il figlio del signor Dorian Grieve, un inglese, il padrone della famiglia Yunque, direttore delle ferrovie della “Peruvian Corporation” e sindaco del villaggio.
Paco era dovuto venire dalla campagna proprio per accompagnare a scuola Humberto. Solo che Humberto aveva l'abitudine di arrivare tardi a scuola e questa volta, la signora Grieve aveva detto alla mamma di Paco:
- Porti suo figlio a scuola adesso: Non sta bene che arrivi in ritardo il primo giorno. A partire da domani aspetterá che si alzi Humberto e gli porterá a scuola insieme.
Il maestro, quando vide Humberto Grieve, gli disse:
- Ancora in ritardo?
Humberto con indifferenza rispose:
- È che non mi sono svegliato in tempo.
Va bene – disse il maestro – Ma che non succeda piú. Si sieda.
Humberto Grieve cercó con lo sguardo dove si trovava Paco Yunque. Quando lo scorse, si avvicinó a lui e gli disse imperiosamente.
- Vieni al mio banco con me.
Paco Farina gli disse:
- No, il maestro lo ha messo qui.
- Che cosa te ne frega? Rispose Grieve con violenza, trascinando Yunque per un braccio al suo banco.
- Signore! Gridó allora Farina -, Grieve si sta portando Paco Yunque al suo banco.
Il Maestro smise di scrivere e chiese con voce energica:
- Vediamo un po'! Silenzio! Che cosa succede li?
Farina tornó a ripetere:
- Grieve si è portato Paco Yunque nel suo banco.
Humberto Grieve, sistemato nel suo banco con Paco Yunque disse al maestro:
- Si, signore, Paco Yunque è il mio domestico. Per questo
Il maestro lo sapeva perfettamente e disse a Humberto Grieve:
- Molto bene. Ma io lo ho messo accanto a Paco Farina perché segua meglio le spiegazioni. Lo lasci ritornare al suo posto.
Tutti gli alunni guardavano in silenzio il professore, Humberto Grieve e Paco Yunque.
Farina si alzó e prese per mano Paco Yunque per portarlo di nuovo al suo posto, peró Grieve prese Paco Yunque per l'altro braccio e non lo lasció muoversi.
Il maestro disse ancora una volta a Grieve:
- Grieve! Ma che cosa sta facendo?
- Humberto Grieve, rosso di collera, disse:
- No, signore, voglio che Paco Yunque stia con me.
- Lo lasci stare, le ho detto!
- Nossignore!
- Come?
- No.
Il maestro era indignato e ripeteva minaccoiso:
- Grieve! Grieve!
Humberto Grieve teneva gli occhi bassi e stringeva forte per il braccio Paco Yunque che se en stava li mezzo stordito e si lasciava stirare come uno straccio da Farina e da Grieve. Paco, adesso, aveva più paura di Humberto Grieve che del maestro e di tutti gli altri alunni messi insieme. Perché Paco Yunqe aveva paura di Humberto Grieve? Humberto Grieve era abituato a picchiare Paco Yunque.
Il maestro si avvicinó a Paco Yunque lo prese per un braccio e lo condusse al banco di Farina. Grieve si mise a piangere picchiando furiosammente i pugni sul banco.
Si udirono altri passi nel cortile e un altro alunno, Antonio Gesdres, - figlio di muratore – apparve sulla porta dell'aula. Il maestro gli disse:
- Perché arriva cosí tardi?
- Perché sono andato a comprare il pane per la colazione.
- Perché non c'è andato prima?
- Perché ho dovuto svegliare il mio fratellino e mamma e malata e papá è andato a lavorare.
- Bene – disse il maestro molto serio - , resti li e in piú avrá un'ora di castigo.
Paco Farina si alzó e disse:
- Anche Grieve è arrivato tardi, signore.
- Mente, signore – rispose rapidamente Humberto Grieve. - Non sono arrivato tardi.
Tutti gli alunni dissero in coro:
- Si signore! Grieve è arrivato tardi!
- Sssht! Silenzio! - disse il maestro di cattivo umore e tutti i bambini tacquero.
Il maestro paseggiava pensieroso.
Farina diceva a Yunque in segreto:
- Grieve è arrivato tradi e non lo castigano perché suo padre ha il grano. Arriva tardi tutti i giorni. Tu vivi a casa sua? Eri il suo domestico?
Yunque rispose:
- Io vivo con la mia mamma.
In casa di Humerto Grieve?
- È una casa molto bella. Ci stanno la padrona e il padrone. Ci sta anche la mamma. Io ci sto con la mamma.
Humberto Grieve, dal suo banco dell'altro lato, guardava con rabbia Paco Yunque e gli mostrava i pugni, perché si era lasciato portare al banco di Paco Farina.
Paco Yunque non sapeva che fare. Lo avrebbe picchiato ancora una volta, l'Humberto, per non essere restato con lui. Fuori gli avrebbe dato un colpo nel petto e un calcio in una gamba. L'Humberto era cattivo e picchiava sempre. Per strada. Anche in corridoio. Sulle scale, E anche in cucina, davanti a sua mamma e davanti alla padrona. Adesso lo picchierá, perché gli sta mostrando i pugni e l guarda con occhi feroci. Yunque disse a Farina:
Me ne vado con l'Humberto.
Farina gli diceva:
- Non fare lo scemo, Il maestro ti castigherá.
Parte I
Trad. genseki

giovedì, marzo 06, 2008

Rotterdam

Ne restava uno solo
Ed era proprio quello
Un porto del nord piace
specie quando è lontano
Ci piacerebbe andarci
E poi non si decide
Se fottere il poeta
Oppure la puttana di ...

Rotterdam
Non ci son solo troie
O solo marinai
Ci son cani perduti
E bambini di strada
Non ci son solo chiatte
né soltanto botteghe
Ci son vecchi cavalli
Che sfidano la morte
Poliziotti cinesi
Che sembrano regine
E ragazze di seta
A sfilarsi la gonna
Sul bordo della strada
Come un dolore ancora
Come un dolore nuovo
Da portare stasera
Lungo tutta la strada
Che neppure assomiglia
Un poco a Rotterdam

Ci son ratti scoppiati
Come anche a Parigi
Ed incroci di gatti
Con sudici topastri
Dove solo si importa
Dove lungi dal porto
Le coppie degli amanti
Si formano e si disfano
Dove le banconote
Stanno all'orlo dei tanga
Ci sono raggazzacci
Che vendon cianfrusaglie
E qualche disgraziato
Che venderebbe il culo
Se vendendosi il culo
Fosse poi fortunato
O se potesse, almeno,
Trovarsi a Rotterdam

Poi ci son gli assassini
Annegati nel Whisky
Ed i poveri folli
Che non vedranno l'alba
Dove le sigarette
Sanno di caramello
Dove qualche soldato
scoperebbe un cammello
Dove un Povero Cristo
Dietro un caffé di notte
Discute con la fine
La fine della notte
Qui incontri gli esiliati
Che estraggono l'esilio
Nel cielo recintato
Da manifesti stupidi
Che nemmeno somigliano
Un poco a Rotterdam

Dove io non andró
Perche io cerco il sole
Dove tu non andrai
Perché sarebbe uguale
Prendo il treno del sud
Prendi il treno del sud
Fino n fondo alla notte
Che potrebbe sembrare
l'Italia.

Léo Ferré
Trad genseki

martedì, febbraio 26, 2008

martedì, febbraio 19, 2008

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Hajj Imad Mugniyeh

Un libro restò all'orlo della tua vita spenta
Un corpo germinava dalla tua morta salma
Portaron via l'eroe
Corporea, ferale la sua bocca entró nel nostro fiato
Tutti sudammo con l'ombelico in spalla;
Ci seguivano lune pellegrine
Ed anche il morto sudava la tristezza.

Un libro alla battaglia di Toledo
Un libro dietro un libro, sopra un libro, germogliava dal cadavere
Di poesia dalla zigom violetto, tra il dire
E il tacere
Poesia nel testamento che sigilla
Il suo cuore
Solo il libro restó,
non ci sono insetti nellla tomba,
All'orlo della sua manica si inumidiva l'aria
Fino a farsi gassosa, infinita.

Tutti sudammo con l'ombelico in spalla,
Ed il morto sudava di tristezza
Ed un libro, lo vidi. con passione
Un libro, dietro un libro, sopra un libro
Un libro germogliava dal cadavere.

Vallejo
trad. genseki
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Tawhid

L'Islam non è per Allah, ma per te. Il tuo corpo non ha necessitá del tawhid; di partecipare al tawhid; di realizzare la Unicitá di Allah. Il corpo cerca il tawhid senza discriminare che tipo di immersione nel Tutto gli garantirá la distruzione e quale sarà il cemento dell'esistenza, perché discriminare non è la sua missione, bensì tendere al Tutto, così come la nafs tende all'isolamento dentro al Tutto. Il corpo cerca l'orgasmo, la hadra dei sufi, l'alcol, le droghe, il dikr, il riposo... senza discriminare, perché una qualunque di queste esperienze lo fanno riposarsi da se stesso nel Tutto. Mettono il contatore mentale a zero, per cominciare di nuovo una volta recuperata la coscienza. Nell'Islam è ben chiaro che non si puó comprendere il tawhid per via intellettuale. La piú alta conoscenza dell'Islam (la ma'arifa) deve essere un lasciarci battere al ritmo del nostro proprio cuore e un abbandono all'essere delle cose che ci circondano...

Abdelmunim Aya
Opúsculo contra el alma
trad. genseki

venerdì, febbraio 08, 2008

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Occhio pidocchio

La mamma è quasi cieca.
Vede solo forme sfuocate.
Vive con la nonna:
Madre e figlia
Nello stesso condominio
Stesso pianerottolo
In due appartamenti diversi
La mamma dice che è per colpa della nonna
Che lei è cieca.
Per colpa sua
Per questo la odia
Da anni si odiano
E convivono
Fu quando la nonna le versò sulla testa
Il veleno per i pidocchi
Alle elementari
Che aveva un odore terribile
E appiccicoso
Quell'odore
E scendendo per la testa
Le ha ammazzato gli occhi
Il veleno per i pidocchi
Che nessuno poi ce li aveva i pidocchi
Ma tutti avevano fame, invece,
E lei non lo voleva
Non lo voleva proprio
Per davvero
Il veleno per i pidocchi
Che così adesso è quasi cieca
Per colpa di sua madre
Di tua nonna.

Genseki
23:00:58
07/02/08