Quando delle cose diciamo che son finite, con ciò si intende che non solo hanno una determinatezza, che non solo hanno la qualità come realtà e determinazione, che è in sé, non solo son limitate, così da aver poi un esserci fuor del loro limite, ma che anzi la lor natura, il loro essere, è costituito dal non essere. Le cose finite sono, ma la loro relazione a se stesse e che si riferiscono a se stesse come negative, che appunto in questa relazione a sé si mandano al di là di se stesse, al di là del loro essere. Esse sono, ma la verità di questo essere è la loro fine. Il finito non solo si muta, come il qualcosa in generale, ma perisce; e non è già soltanto possibile che perisca, quasi che potesse essere senza perire, ma l’essere delle cose finite, come tale, sta nell’avere per loro essere dentro di sé il germe del perire: l’ora della nascita è l’ora della lor morte.
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Il pensiero della finità delle cose porta con sé questa mestizia, perché una tale finità è la negazione qualitativa spinta al suo estremo, perché alle cose, nella semplicità di codesta determinazione, non è più lasciato un essere affermativo distinto dalla loro destinazione a perire.
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La finità è la negazione come fissata in sé, epperò si erge rigida di contro al suo affermativo. Quindi è che il finito si lascia bensì portar nella corrente; esso consiste appunto in questo, nell’esser destinato alla sua fine, ma soltanto alla sua fine; - anzi è il rifiuto di lascairsi affermativamente portare al suo affermativo, all’infinito, di lasciarsi unire con quello. Il finito è dunque posto inseparabilmente dal suo nulla, ed ogni conciliazione col suo altro, coll’affermativo, è così impedita.
La destinazione delle cose finite non è nulla più che la lor fine.
La finità è la negazione come fissata in sé, epperò si erge rigida di contro al suo affermativo. Quindi è che il finito si lascia bensì portar nella corrente; esso consiste appunto in questo, nell’esser destinato alla sua fine, ma soltanto alla sua fine; - anzi è il rifiuto di lascairsi affermativamente portare al suo affermativo, all’infinito, di lasciarsi unire con quello. Il finito è dunque posto inseparabilmente dal suo nulla, ed ogni conciliazione col suo altro, coll’affermativo, è così impedita.
La destinazione delle cose finite non è nulla più che la lor fine.
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Il finito si distrugge in sé ma risolve effettivamente la contraddizione, non già ch’esso sia soltanto caduco e che perisca, ma che il perire, il nulla, non è l’ultimo, ossia il definitivo, ma perisce.
Hegel
Da: La scienza della Logica