domenica, luglio 22, 2007

VIVIT

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VIVIT

Sopra ognuna delle figure in bassorilievo
È incisa la parola VIVIT
La si legge per tre volte
VIVIT VIVIT VIVIT
Come uno scongiuro
Eppure le forme limate dei volti
Nella pietra non sono nemmeno più umane
Non ci parlano piú di affetto o di attitudini
Ma di erosione, di disgregazione
del succedersi di temperatura e di umiditá,
Forse anche di reazioni chimiche e di batteri.
Quello che ci racconta la pietra
È un racconto appunto minerale,
Un racconto che non coincide
Con la dimensione dell'umano,
E quello che resta di volto, nelle pietre
È, proprio per questo, ancora piú morto.
La pretesa che la parola VIVIT
Grida ai nostri occhi
Rende la morte ancora piú ignobile
Anzi, è questa pretesa che la rende ignobile
Là dove quelli che furono volti
Si rivelano parti della storia minerale
Il loro essere scolpiti vicenda meccanica
Della materia
Il loro essere ricordo
Sfigurato dalla volontá di persistenza
Di separatezza dalla forza vitale
Delle pietre del vento, dell'acqua e dei batteri
Delle molecole e delle stelle
Delle crepe e degli insetti
Un dolore acuto ci rende liberi dalla paura
Dalla paura della vita giocosa delle pietre
Delle loro lente metamorfosi che piegano il tempo
Fino a farne la culla della vita.

venerdì, luglio 20, 2007

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Il Canto dell'Autunno

Il canto del nostro autunno
Era un canto terso d’attesa
Un canto di cristallo di speranza
Fresco come l’aria del mattino
Era un vetro venato di voli
Nel cielo di nuvole accartocciate
Dall’estinguersi ocraceo della luce
Un canto senza tamburi
Ma con vuoti di basso profondo
Come gesto d’intelletti senza forma
Intenti a rispecchiarsi negli stagni
Oh era un canto di spine
Un canto di rose di carta velina
Di corteccia svilita dalla pioggia
Perché noi sapevano cos’era il fango
Allora sapevamo che era reale
Che nel fango marciscono i frutti
E le piume dei voli defunti
Ed anche per questo cantavamo
Cantavamo un canto d’autunno
Un canto che abbiamo dimenticato
Latrando catarrosi dietro ai claxon
Delle vecchie berline giapponesi.

genseki
10/10/00 21.35

giovedì, luglio 19, 2007




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La Cattedrale II


Nel terzo capitolo la comparazione tra lo spazio naturale della foresta e lo spazio sacro della chiesa diventa sempre piú chiara, l'intuizione di Chateabriand sull'origine del gotico, è sviluppata in modo analitico e estetico minuzioso:

"Senza sminuire la teoria che consiste nel vedere in questo problema soltanto una questione materiale, tecnica, di stabilitá e di resistenza, una invenzione dei monaci che avevano scoperto un bel giorno che la soliditá delle loro volte sarebbe stata meglio assicurata dalla forma a mitra dell'ogiva che da quella mezza luna dell'arco pieno, non sembra che la dottrina romantica, la dottrina di Chateaubriand di cui ci si è fatto beffe sia la meno complicata di tutte, la piú naturale, insomma la piú evidente e la piú giusta?
Per me è quasi certo, proseguí Durtal, che l'uomo ha trovato nei boschi la forma tanto discussa della navata e dell'ogiva. La piú stupefacente cattedrale che la natura ha costruito, da se stessa, prodigandovi l'arco spezzato dei suoi rami, si trova a Jumièges. Là, accanto alle magnifiche rovine dell'abazzia che ha conservato intatte le sue due torri e la cui navata scoperchiata e ricoperta di fiori si collega ad un coro di fronde circondato da un'abside di alberi, tre immensi viali, bordati di tronchi secolari, si estendono in linea retta; uno, quello del mezzo, molto largo, gli altri due, che lo affiancano, piú stretti; essi disegnanono l'immagine astratta di una nave e delle sue fiancate, sostenute da pilastri neri e avvolte da fasci di foglie. L'ogiva vi è chiaramente riprodotta dai rami che si toccano, così come le colonne che la sostengono sono imitate dai grandi tronchi. Bisogna vederla d'inverno, con la volta ad arco spolverata di neve, i pilastri bianchi come tronchi di betulla, per comprendere l'dea originaria, il seme dell'arte che ha potuto far sorgere lo spettacolo di simili viali, nell'animo degli architetti che sgrossarono, poco a poco, il romanico e finirono per sostituire completamente l'arco acuto all'arco pieno.
E non vi sono parchi, piú o meno antichi dei boschi di Jumièges, che non riproducano con altrettanto esattezza gli stessi contorni; ma quello che la natura non poteva dare, era l'arte prodigioso, la scienza simbolica profonda, la mistica appassionata e placida dei credenti che edificaron le cattedrali. Senza di loro, la chiesa restata allo stato bruto, così come la natura l'aveva concepita, sarebbe rimasta un abbozzo senz'anima, un rudimento; essa era l'embrione di una basilica, cangiante secondo le stagioni e i giorni, inerte e viva al tempo stesso, animandosi al suono dell'organo del vento, che deformava il tetto mobile dei suoi rami, al suo solo spirare, era inconsistente e spesso taciturna, assolutamente sottomessa alle brezze, serva rassegnata dell piogge; non era stata illuminata, insomma, che da un sole che setacciavatra le losanghe e i cuori delle foglie, così come tra le maglie delle piastrelle verdi. L'uomo, con il suo genio, raccolse questi sparsi bagliori, li condensò in rosoni e in lame, li riversó nei viali di bianchi fusti; e persino con il tempo peggiore, le vetrate risplendettero, imprigionarono fino alla piú piccola luce del tramonto, rivestirono il Cristo e la Vergine degli splendori piú favolosi, quasi giunsero a realizzare su questa terra il solo abbigliamento che potesse convenire ai corpi gloriosi, vestiti diversi di fiamme!"

In questo testo non è solo la cattedrale che riproduce la foresta aggiungendo la profonditá simbolica e mistica che manca alla natura, ma è la natura stessa che cerca di riprodurre la Cattedrale. Si genera u movimento circolare che va dalla foresta alla cattedrale e dalla cattedrale alla foresta il cui asse mediano è costutuito dal simbolo.

martedì, luglio 17, 2007

Añoranzas

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Prossimitá

Ogni lacrima è un grappolo d’occhi.

*

Com’è lontano il ramo
Del melo spezzato
Il suono liquido dell’organo
L’alito acre della marmitta
Il tavolo di legno della trattoria!
Con un dito cancello
Il semicerchio rosa
Tracciato dal bicchiere di vino
Come siamo lontani
Seduti faccia a faccia
Come siamo vicini
In distinto tramonto!

*

Essere il bastone spezzato
Nel riflesso dell’acqua
Immerso in questo tempo
D’implacabile verde
Eppure dritto nell’attimo -
Emerso.

*

Mi parli della tua gatta
Ma a quale distanza
Sono le tue parole dalla gatta?
Più morte delle tegole rosse
Su cui danza con passo straniero
Le nostre parole
Più prossimo al suo riflesso
Sui vetri dell’abbaino
Il suo essere viva
Di morto istante a istante morto.

*

Le nostre parole
Son cerchi concentrici
Sul lago dell’essere prossime
Ogni cerchio si allontana
Nell’onda del successivo.

*

Da silenzio a silenzio
Gocciola la musica
Quasi immobile
Nel tempo dell’udito.

*

E le lacrime?
Riflettono gli occhi
In schegge ricurve
Di tempo.

genseki
12/07/04 23.50

mercoledì, luglio 11, 2007

Historia y naturaleza

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La fine della Storia


Schiller
Sul gioco
Dalle “Lettere sull'Educazione estetica dell'uomo”
Lettera 27



L'animale lavora quando la molla che produce la sua attività è una privazione, e gioca quando questa molla é l'abondanza di forze, quando la sovrabbondanza della vita lo sprona all'attivitá. E persino nella natura inanimata si manifestano il lusso della forza e la vaghezza della determinazione che si potrebbero chiamare gioco.
*
L'uomo dovrebbe giocare soltanto
con la bellezza.
*
L'uomo gioca soltanto quando è umano nel senso pieno della parola, e è completamente umano solo quando gioca.
*

Questi testi di Schiller sono, presumibilmente, il punto di origine della tesi, oggi tanto discussa della fine della storia.
Il lavoro dell'uomo, spinto dalla privazione: privazione dei mezzi di sussistenza e di riproduzione, privazione della serenitá, privazione del senso della vita, privazione della libertá è il fattore che genera la storia. In questo senso Schiller è stato letto e approfondito da Hegel e da Hegel trasmesso al XX secolo e a Kojève che lo ha divulgato.
La storia è il prodotto dell'attività umana e come tale assolutamente perspicua per la conoscenza umana. Non v'è nessuna difficoltá per l'uomo a conoscere quello che ha prodotto egli stesso, o almeno non dovrebbe esservene alcuna, in linea di principio.co
Tuttavia il processo storico non è infinito, dipende dalla privazione e trova il suo limite nell'abbondanza.
Quando la privazione dei mezzi di sussistenza, quella della libertá e con esse tutte le altre privazioni si sono trasformate nelle rispettive abbondanze e quindi il lavoro non é piú necessario, necessariamente viene a cessare anche la storia.
Secondo Hegel, poi, l'uomo producendo la storia come prodotto della propria attivitá produce anche se stesso in quanto uomo.
Allora, se la storia cessa, in qualche modo cessa anche l'uomo.
Tuttavia, che cosa sotituisce l'attivitá è il lavoro quando l'abbondanza sostituisce la privazione.
Secondo Schiller è il gioco.
E qui incontriamo una contraddizione: Schiller dice, infatti, che l'uomo gioca solo quando è umano, ma se il gioco corrisponde all'abbondanza e se l'abbondanza corrisponde alla fine della storia e quindi alla fine dell'uomo come è possibile che il gioco sia così profondamente umano come Schiller lo pretende?
La contraddizione è già in Schiller, palese, quando egli afferma che l'animale gioca per l'abbondanza di forze e persino la natura inanimata pare giocare nel lusso delle forze che la innervano.
No il gioco non è umano.
In questo senso Kojève intendeva l'animalizzazione americana della fine della storia.
L'idea di animalitá di Kojève non risale a Hegel ma a Schiller. E da Schiller è giunta fino a Fukuyama.
Vi è, però, una dimensione del gioco che pare situarsi oltre l'animalitá: la bellezza.
Schiller dice che l'uomo dovrebbe giocare soltanto con la bellezza e dicendo questo delimita due campi: l'animalitá e la postumanitá.
Kojève chiamava la postumanità snobismo e la considerava realizzata nel Giappone dei Tokugawa.
Marx chiamava la postumanitá comunismo.
Snobismo è una sprezzatura tipica dell'acida arroganza di Kojève: nel gioco, infatti l'animale, l'uomo e la natura inanimata si collocano in una relazione differente da quella storica, ridefiniscono, nella bellezza i reciproci rapporti. Il terrore dello tsunami è cieco come quello delle guere neoimperialiste. È il terrore del gioco. È il volto spietato della bellezza che resta una possibilitá.
Un altro gioco è il sesso che si relaziona con le forme animali, liberate dalla necessitá.
In esso, forse, l'animalitá realizza la sua perfezione dialettica, il suo fine.
Ma le nostre menti si muovono come le onde che giocano con la schiuma il gioco della dinamica di forza e di luce.

lunedì, luglio 09, 2007

Dialettiche

Omne enim quod intelligitur et sentitur
Nihil aliud est nisi non apparentis apparitio,
Occulti manifestatio,
Negati affirmatio,
Incomprehensibili comprehensio,
Inefabilis fatus,
Inacessibilis acessus,
Inintelligibilis intellectus,
Incorporalis corpus,
Superessentialis essentia,
Informis forma,
Incommensurabilis mensura,
Innumerabilis numerus,
Carentis pondere pondus,
Spiritualis incrassatio,
Invisibilis visibilitas,
Illocalis localitas,
Carentia temporis temporalitas,
Infiniti diffinitio,
Incircumscripti circumscriptio.

Eriugena
Periphyseon III, 4, p2 CXII

***

Ogni cosa che si può comprendere o percepire con i sensi
Altro non è che apparizione di ciò che non appare,
Manifestazione dell'occulto,
Affermazione di ció che è negato,
Comprensione dell'incomprensibile,
Voce dell'ineffabile,
Porta del'inaccesibile,
Intellezione dell'inintellegibile,
Corpo dell'incorporeo,
Essenza del superessenziale,
Forma dell'informe,
Misura dell'incommensurabile,
Numero dell'nnumerabile,
Peso di ciò che non ha peso,
Corporalitá dello Spirito,
Visibilitá dell'invisibile,
Sito del non localizzabile,
Temporalitá dell'intemporale,
Definizione dell'infinito,
Circonferenza di ció che non si puó circoscrivere.

*

Ecco un inno apofatico, in cui ogni termine di una coppia pare annullare l'altra, pare negarla, togliendo così alla definizione ogni senso possibile.

Questo è quello che si coglie ad una prima lettura e il testo assume le caratteristiche di un ieratico sacrificio del linguaggio nel suo approssimarsi all'assoluto. Il linguaggio al cospetto di Dio brucia come la farfalla del racconto sufico. Le ceneri dell'insignificanza restano le sole tracce dell'unione, appunto, ineffabile.
Un'altra lettura, però, è possibile perché se i termini di ogni coppia si annullano reciprocamente la loro contiguitá, invece, afferma.

Un termine afferma un altro nega quello che è affermato dal primo, il risultato non é nulla ma l'unione di affermazione e negazione rappresentata dal verbo est in un'unitá superiore.
I due termini, infatti si negano, o, almeno uno nega l'altro, ma il verbo est la copula che li unisce, non è negata.
L'essere (est) è il nesso tra affermazione e negazione e non si identifica nè con una nè con l'altra, è superiore ad entrambe.

Essere è passaggio dall'affermazione alla negazione e dalla negazione all'affermazione. Ecco che la teologia apofatica si rivela una teologia dialettica.
Una dialettica luminosa nata tra le favole e i boschi dell'Irlanda nella pioggia e nella nebbia ad opera di un monaco che sará ucciso dai suoi stessi studenti e le cui opere saranno maledette dalla Chiesa per lunghi secoli. Oggi non so.
È una dialettica romanica coincisa e squadrata che profuma della libertá della foresta che si divincola appena dallo scongiuro e dell'incantesimo come una lorica di luce e clorofilla.

domenica, luglio 08, 2007

Ventanas

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Poesie

Ora che il marmo
Si frammenta e scheggia
Chi contempla i talloni
Delicati
Quando si solidificano barbe
In bianchi biscotti
In chiocciole gelate?
Eppure è carne
Che diede la forma
È fiato che spirava
Da altre bocche
Lassú presso le nuvole
Dove si intrecciano
Le volte delle scale con le ogive
È clorofilla piú antica del ritmo
Della misura astratta
Del marmo, dei basalti
Del granito
Di porfido o argilla:
Colonne
Allineate come svelti pioppi
Ad affermare la concretezza
Dello spirito
La dimensione collettiva del ricordo.

*

È un tessuto rosso
Di sabbia fredda
Depositata sulle sponde del fiume
A ondate successive
Ondate che durano
Ciascuna almeno un secolo
Cela nicchie dorate
Icone di vetro
Fiammelle d'olio
Limpide nell'umiditá verde
Di grotta
Dove l'alito si fa ragnatela
E l'udito si disfa
In lontani, possenti
Possibili tuoni
Di bronzi o rame.
Le trombe scalano le nuvole lassú
Dove le ali di marmo
Sono piú agili
Dei patetici frulli dei colombi;
Qua sotto, nel cuore dell'argilla
Su sfondi dorati
I santi barbuti invocano
Leoni copti
Con voci che sono ghirigori di sillabe
Smunte, confuse coi licheni
Con le rughe dell'erosione
E le gocce si fanno piú pesanti
Più verdi
Più dense
Finché en tremano le terse fiammelle
Come a un richiamo
Di notte irredimibile.

*

Vanno sulle chiome dei pini
Come su una distesa di dune verdi
Vanno verso l'orizzonte dei rintocchi
Là dove i voli diventano spirali
E il cuore dei colombi
Una noce di carbone.

*

Vuelos

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mercoledì, maggio 30, 2007

Pico della Mirandola


La vita
Da Walter Pater

***


Quando un giovane non dissimile dall’arcangelo Raffaele, quale i fiorentini lo dipinsero nella sua meravigliosa passeggiata con Tobia o Mercurio, come può essere apparso in un dipinto del Botticelli, o di Pietro di Cosimo, entrò nella sua stanza, forse Ficino pensò che si trattava di una forma non del tutto terrena e che non era senza il volere degli astri che lo straniero fosse giunto proprio quel giorno. Per questo la loro conversazione fu di gran lunga più intima e più profonda di quanto sia abituale per un primo incontro. Nel corso di questa conversazione Ficino concepì il progetto di dedicare gli ultimi anni della sua vita alla traduzione di Plotino, questo nuovo Platone, nel quale gli elementi mistici della filosofia platonica sono stati elaborati fino al limite ultimo della visione e dell’estasi.

Fu dopo molti vagabondaggi, intellettuali e concreti, che Pico giunse a Firenze. Nato nel 1463, egli aveva allora vent’anni. Si chiamava Giovanni e Pico come i suoi antenati, da Picus, nipote dell’Imperatore Costantino dal quale essi affermavano di discendere, e Mirandola dal nome della sua città natale, una piccola città che in seguito venne inglobata nel ducato di Modena, di cui la sua famiglia tenne a lungo la signoria feudale. Pico era il più giovane della famiglia, e la madre affascinata dalla sua memoria, lo inviò, all’età di quattordici anni alla famosa scuola di legge di Bologna. Fin dall’inizio ella sembrò avere presentimento della sua futura fama, credeva che una strana circostanza fosse accaduta al momento della nascita di Pico – l’apparizione di una fiamma circolare che era svanita improvvisamente, su muro della camera ove ella giaceva. Egli rimase tre anni a Bologna, e poi con una sete inesauribile e inarrivabile di sapere passò per le principali scuole d’Italia e di Francia, penetrando, come pensava, nei segreti di tutte le filososfie antiche e di molte lingue orientali. E con questo flusso di erudizione venne la speranza generosa, così spesso delusa, di riconciliare i filosofi tra di loro e con la Chiesa. Giunse infine a Roma e colà, come un cavaliere errante della filosofia si offrì di difendere 900 audaci paradossi, tratti dalle fonti più disparate, contro chiunque lo volesse. La corte pontificia, tuttavia, sospettava dell’ortodossia di alcune di queste proposizioni e il libro che le conteneva fu proibito dal Papa. Solo nel 1493 Pico fu assolto con un breve di papa Alessandro VI. Dieci anni prima egli era giunto a Firenze.

A noi resta l’orazione composta da Pico per inaugurare il suo torneo filosofico; il suo soggetto è la dignità della natura umana, la grandezza dell’uomo. Questo tema è comune alla speculazione del Medioevo e anche la teoria di Pico si fonda su una falsa concezione del posto nella natura della terra e dell’uomo. Per Pico la terra è il centro dell’universo: attorno ad essa, come punto fisso e immoto ruotanoola luna, il sole e le stelle, come servitori e ministri diligenti: E nel centro di tutto ciò si trova l’uomo, “nodus et vinculum mundi” e “l’interprete della natura”: questa famosa espressione di bacone appartiene davvero a Pico. “Tritum est in scholis, esse hominem minorem mundum, in quo mixtum ex elementis corpus et spiritus coelestis et plantarum anima vegetalis et brutorum sensus et ratio et angelica mens et Dei similitudo conspicitur”. Un luogo comune delle scuole! Ma certo esso acquisisce nuova forza e autorità, se lo si ode come Pico lo ripete, e per quanto falsa ne sia la base, la teoria ha la sua utilità. Quindi questa sublime dignità dell’uomo, eleva la polvere da lui calpestata fino a una comunione sensibile con gli angeli, con i loro pensieri e con i loro sentimenti e si lega ad essi non perché resa nuova dall’adesione ad un sistema religioso, ma per suo proprio diritto naturale. Questo proclama contraddice la tendenza cospicua della religione medioevale a disprezzare l’uomo, a sacrififcare in lui questo o quell’elemento, a farlo vergognare di se stesso, a mettere in rilievo la sua degradazione o gli accidenti dolorosi. Esso aiutò l’uomo a riaffermare se stesso, a riabilitare l’umana natura, il corpo, i sensi, il cuore, l’intelligenza, che fecondarono il Rinascimento. Leggere una pagina di uno dei dimenticati libri di Pico è come dare uno sguardo in uno di quegli antichi sepolcri in cui di frequente si imbatte chi viaggia nelle terre classiche con gli antichi oramenti e arredi disusati, propri di un mondo completamente diverso dal nostro ma in quel momento ancora nuovi.. L’intera concezione della natura è completamente diversa dalla nostra. Per Pico il mondo è uno spazio limitato, circondato da muri di cristallo, da un firmamento materiale; una sorta di giocattolo dipinto, questa mappa o sistema del mondo come un grande bersaglio o uno scudo nelle mani del Logos creatore, attraverso il quale il Padre crea tutte le cose quale lo vediamo in uno degli antichi affreschi del Campo Santo di Pisa. Com’è differente questa concezione infantile dalla nostra visione della natura, spazio illimitato di innumerevoli soli e la terra come un granello in un raggio; com’è differente questo strano timore, questa superstizione del quale essa riempie le nostre menti. “Le silence éternel des espaces infinis m’effraie” disse Pascal contemplando una notte stellata. Doveva essere piuttosto stanco, quando giunse a Firenze: Aveva molto amato e molto era stato amato, “vagabondo sulle colline illusorie del delizioso piacere”, ma il regno delle donne su di lui era giunto al termine, e molto prima del famoso rogo delle vanità di Savonarola egli aveva distrutto le proprie poesie d’amore in lingua volgare, che avranno un così garnde rilievo presso di noi, dopo la prolissità scolastica dei suoi scritti latini. Era con un altro spirito che egli compose un commentario platonico, la sola sua opera in italiano giunta fino a noi, sul “canto del Divino Amore” secondo la mente e l’opinione dei platonici cari al suo amico Geronimo Beniveni, nel quale presentando un’ ambiziosa serie di insegnamenti di ogni sorta e con una profusione di immagini tratte indifferentemente dagli astrologi, dalla Cabala, da Omero, dalla Scrittura, da Dionigi l’Areopagita, egli cercò di definire gli stadi attraverso i quali l’anima passa dalla bellezza terrena a quella invisibile. Un cambiamento era avvenuto in lui, come se il tocco della bellezza astratta e disincarnata venerata dai platonici fosse sceso su di lui.. Qualche barlume di ciò, giunto alla luminosità che nell’immaginazione popolare sempre risplende sulla morte precoce, fece dichiarare a Camilla Rucellai, una di quelle donne profetiche che la predicazione di Savonarola aveva infiammato in Firenze, quando lo vide per la prima volta, che egli sarebbe partito al tempo dei gigli, prematuramente, cioè, come i fiori di campo che appassiconoo per l’ardore del sole non appena sbocciati. Egli scrisse allora quei pensieri sulla vita religiosa che Thomas More tradusse in inglese, e che un altro traduttore inglse pensò di aggiungere al libro “dell’Imitazione di Cristo”. “Non è difficile conoscere Dio a condizione di non volerlo definire”: è un grande detto di Joubert. Scrive Pico ad Angelo Poliziano: “Noi possiamo amare Dio più di quanto possiamo conoscerlo o parlare di Lui. E finché si cerca con la conoscenza, non si trova mai quello che si cerca, mentre si possiede con l’amore ciò che senza amore si cercò in vano”. Nonostante questa fine sensibilità spirituale egli non potè mai – e in questo è il persistente interesse della sua storia – anche dopo la conversione, dimenticare gli antichi dei. Egli è uno degli ultimi che cercò seriamente e sinceramente di rivendicare la fede delle religioni pagane, ansioso di accertare il vero significato delle più oscure leggende, la più luminosa tradizione riguardo ad esse. Con molte idee e molta energia perseverò in questa direzione. Non divenne monaco, conservò “qualche cosa dell’antico fasto, le delicate vivande in piatti d’argento”, ma diede la maggior parte delle proprie ricchezze all’amico, il poeta mistico Beniveni, per utilizzarle in opere di carità, soprattutto la dolce carità di provvedere al matrimonio delle contadinelle di Firenze. La fine giunse nel 1494, quando, nel mezzo delle prediche e dei sacramenti di Savonarola, morì di febbre, il giorno stesso in cui Carlo VIII entrava a Firenze, il 17 di Novembre, nel tempo dei gigli – i gigli dello stemma di Francia, come disse il popolo, ricordando la profezia di Camilla. Fu seppelito nella chiesa conventuale di San Marco con il cappuccio e il bianco saio dei domenicani.

lunedì, maggio 28, 2007

Mantello verde che di varchi azzurri

Mantello verde che di varchi azzurri
Disseminato copri questo mondo
Come dell’orso fulvo la pelliccia
Copre la calda densità del corpo

Copri la mente mia che verticale
Scorrere lascia tutti i sentimenti
Coprila col tuo freddo senza verbo
Estraneo nel tuo morbido lamento

Che si disgreghi infine in ogni foglia
Esperimenti in ogni cellula il morire
Del carbonio partecipi alle doglie
Che ricombinano alte leggi feconde

Gocciolo come pioggia dalla gronda
Sui sassi esplodo in mille gocce grigie
Che riflettono ognuna interamente
Le nervature che tessono il mondo

*

Si sbriciola la sfoglia della vista
Al vento verticale che la investe
E vede da ogni scheggia che si stacca
Tutta la verde vita che rinnova

*

È morbida la vita senza verbo
Zattera sono nella sua corrente
I secoli attraverso dolcemente
Tra i dorsi di testuggini e caimani

E guardo le mie mani che si formano
Mutando squame e piume in dita in unghie
I miei occhi che creano quella sfera
Che si screpola in rami di molecole

È una spugna pulsante non un frutto
Gonfio di sangue e di brividi elettrici
Il mio cervello che lento si aggomitola
In grotte di granito in cavi ceppi

È il grido di un varano che mi sveglia
All’umida coscienza del fluire
Madido d’ogni liquido del mondo
Che utero mi fu di muschio e stelle

*

Con luce in scoppi mi scorgo avvistato
Da un volto in cui mi accorgo del mio volto
Apre la bocca ed io odo il mio grido
Nel fiato suo m’accoccolo in me stesso

L’odio e mi creo in crepe di volere
Come distante dal viscoso abbraccio
Dell’indistinta unità di fame e caccia
Mi raddrizzo mi accorgo dei miei piedi

Eretto infine brandisco lampo e rabbia
Mi afferro a un ramo ed una lancia scaglio
Sento la pietra tra le dita il bronzo
Uccidendo mi intaglio sullo sfondo

Dell’essere screziato che trascorre

*

Se c’era Dio è piovuto questa notte
Se disfatto in rovesci e cataratte
Poi l’alba è giunta in un velo di gocce
A dissetare il mondo appena nato

La pozzanghera riflette le galassie
Tutte le cime son gonfie di latte
S’apre l’umida valle al caldo soffio
Del vento fresco carico di semi.

23/05/2006 22.26
genseki