giovedì, febbraio 16, 2012

Coplas que hizo don Jorge Manrique a la muerte del maestre de Santiago su padre

Jorge Manrique


Questi versi non si possono tradurre, non si devono tradurre, si possono respirare come luce.
Dreiser Cazzaniga 

Y consiento en mi morir,
Con voluntad placentera ,
Clara y pura;
Que querer hombre vivir,
Cuand Dios quiere que muera,
Es locura.

J. Manrique
Coplas por la muerte de su padre

Per la mamma


Che cos'è l'essenziale di una persona quando il corpo cessa di esistere nell'atto di morire? (…) Rispondo: all'essenza della persona appartiene esattamente quello che le apparteneva mentre era in vita – quindi, niente di nuovo – ovvero; così come in vita trascendeva gli atti del suo stato corporeo, così anche ora trascende la distruzione del corpo (…) questo non vuol dire che abbia intenzione o speranza di sopravvivere (…) vuol dire che la persona si vive come qualcuno che sopravvive (…) Chi dicesse: si, ma solamente si ratta di “intenzione, dimenticherebbe che l'intenzione e l'atto costituiscono, in concreto, l'essenza della persona, che non è una cosa, una sostanza che “abbia o che realizzi un'intenzione.

Max Scheler
Trad genseki

Cancellara


La nonna racconta


 Questo breve teso, è di ma madre e raconta la vita della nonna. È il solo scrtto che ha lasciato e che compose direttamente con il suo computer dal quale ora lo invio,


Cancellara è un minuscolo paese della Basilicata, situato su una altura posta nel fondo di una vasta valle chiusa tra monti e colline e arroccato intorno ad un antico castello. D'inverno vi fa molto freddo, nevica e il paese resta isolato dal resto del mondo. D'estate fa molto caldo e l'acqua scarseggia. Non ha vicino fiumi. Ci sono le fiumare; bisogna camminare parecchio per raggiungerle. Durante la stagione calda sono asciutte, in primavera, l'acqua del disgelo le rende impetuose.
In località "Santa Croce", nella parte più alta del paese, sorge un edificio di tre piani: la stalla, la cucina enorme, le camere da letto.
Vicino alla casa, campi, orti,la via asfaltata che porta al Capoluogo, la strada per la masserie e più in là il piccolo cimitero.
Per entrare in casa bisogna salire una scalinata che ti porta sull'aia dove trovi
la porta di casa e a fianco la "cappella", un ampio locale che forse una volta era una chiesetta, ma noi l'adoperavamo come legnaia da quando il governo fascista aveva proibito le cataste di legna vicino alle case. Infatti al mio paese c'era l'abitudine di accatastare la legna per l'inverno davanti alle case, vicino alla porta.Era anche una dimostrazione di ricchezza. Quando Mussolini, il capo del Governo Fascista, venne a visitare Cancellara rimase stupito e ritenne pericolose le grandi cataste di legna, di qui il decreto che proibiva di ammucchiare i ceppi davanti alle case.
Ritornando ai miei ricordi , in quella casa sopra descritta, il sei gennaio del 1914, in una notte fredda, in un mondo coperto di neve nacqui io.

Quella notte mio papà, era a Brindisi. Ritornò il mattino dopo con un regalo per la sposa, due finocchi, i regali di quei tempi.
Io ero la settima figlia. C'erano già: Angela, Maria, Michele, Raffaele, Carmela, Rosina. La mia nascita fu accolta con moderata gioia, avrebbero preferito un altro figlio maschio.
I maschi , da grandi, avrebbero aiutato nel lavoro dei campi. Le femmine davano solo preoccupazioni: bisognava trovare loro un buon marito, dare una dote in biancheria e soldi, controllare che non disonorassero in qualche modo il buon nome della famiglia.
Dopo di me nacquero Carolina, Pietro, Biagio e una sorella che morì all'età di diciassette anni. Si era fatta suora con il nome di Rosina. A quei tempi le ragazze che non desideravano il matrimonio, la vita delle donne era molto faticosa: partorire e crescere numerosi figli, aiutare il marito nei lavori dei campi, occuparsi della casa, andavano in convento anche perchè avevano una fede profonda.
Mio papà, Domenico Basile, proveniva da una famiglia povera. Aveva
come soprannome "Saccone" perchè suo nonno era stato in America (allora molti emigravano in cerca di fortuna) ed era tornato, dicevano i paesani, con un grosso sacco pieno di soldi che nessuno vide mai.
Mia madre, Caterini Maria Carmela, apparteneva a una famiglia benestante che abitava nel centro del paese. Anche questa era una famiglia numerosa. Tra i miei zii c'era anche un ex prete: il prete "sfatto" , come dicevano i paesani in segno di disapprovazione.
Mio padre e mia madre si amavano molto come dimostra anche la numerosa prole: "Hanno tanti figli perchè sono assai affiatati" dicevano i loro parenti.
I genitori di mia mamma desideravano per la figlia un marito più ricco e per parecchio tempo si opposero al matrimonio. Quando finalmente ottennero il permesso di sposarsi, mio padre promise in cuor suo che avrebbe fatto vedere a tutti - cosa valeva Minco Saccone -.
Mia madre era una brava donna di casa. Non andò mai a lavorare nei campi, come le altre donne. Mio padre voleva che fosse una signora.
In campagna andava qualche volta a portare il mangiare ai mietitori.
Veniva accolta con segni di gioia anche perchè, in quelle occasioni, portava cibi un po' diversi, le seppioline ripiene, per esempio.
-Allora in campagna si mangiava posando , un grosso piatto, con il pranzo, per terra, si sedevano tutti intorno e
pescavano a turno forchettate di cibo che poi era accompagnate dal buon vino fatto da noi.
Mio padre era un uomo di azione, sempre in movimento, sempre con qualche nuova idea. In paese era molto stimato: lo volevano eleggere Podestà nonostante fosse analfabeta. (l'analfabetismo era molto diffuso allora in Italia e soprattutto nelle regioni più povere come la Basilicata).
Non era mai volgare nel parlare, soprattutto quando eravamo presenti noi ragazze ( a quei tempi i linguaggi volgari era riservati agli uomini quando si trovavano soli). Qualche volta, se era proprio fuori di sè, diceva:”Cazz cazz, come diceva la buonanima di Caio Cazzi”.
Se in paese si celebrava un matrimonio tra persone molto povere o poco intelligenti usadi dire con rammarico:” Si sposa mara a is, sposa mara ad essa, mara a loro i figli che avranno “( si sposa povero lui, sposa povera lei ancora più poveri i figli che nasceranno).
Spesso pensava al futuro ed ere solito dire: “Poveri noi, poveri i figli miei, ma più poveri ancora i figli dei figli miei”, intendendo che il futuro non sarebbe stato roseo per nessuno.
Era aperto alle novità. Fu tra i primi in paese a comprare la trebbiatrice, il biroccio e a comprare i concimi chimici (il nitrato) facendoli venire da San Giuseppe di Cairo (Sv)
Io crebbi in questa famiglia come tutti i bambini del tempo, senza tanti vizi o giocattoli. Ancora molto piccola mio padre mi metteva in una cesta che legava alla sua cavalcatura (lui cavalcava una cavalla che bisognava curare con attenzione, un compito dei figli) e mi portava alla masseria, potevo essere utile. Ricordo , quando più grandina, a cavallo dell'asino , tornavo a casa piangendo, avevo i piedi gelati, coi geloni. Arrivata a casa la mamma me li avvolgeva in una calda coperta per riscaldarli lentamente. La nostra era una famiglia numerosa. con noi vivevano anche una vecchia nonna e una sorella di mio papà cieca e sorda che riempiva la casa di urla, ma aiutava a sbucciare i legumi.
Trai miei fratelli Michele, il più grande, era un uomo tranquillo, un grande lavoratore. Raffaele era un buontempone, a tavola spesso raccontava storie disgustose e si divertiva a vedere le nostre smorfie. Quando sulla nostra aia arrivò la mietitrice, fu l‘unico che imparò velocemente a usarla. I due più piccoli Pietro e Biagio erano i più difficili da gestire. Biagio era nervoso e prepotente. Da ragazzo fu molto malato e fu in pericolo di vita. Anche mia sorella Rosina ebbe per lungo tempo una malattia di stomaco e, fino a quando rimase con noi, ogni tanto si lamentava:” Ahime in pitti” e perciò non andò mai a lavorare in campagna come tutte noi.
La nostra vita scorreva tranquilla. Mia padre, inizialmente era fattore di una contessa che possedeva un vasto latifondo, era riuscito, facendo molti debiti, ad acquistare gran parte della proprietà. I paesani pensavano che si sarebbe rovinato del tutto. Lui riuscì con tenacia a superare tutte le difficoltà e a dimostrare, soprattutto ai parenti di sua moglie, di essere capace di migliorare le condizioni di vita della sua famiglia. I figli crescevano e, i maschi aiutavano nei lavori dei campi.
Fare il contadino, come si sa, non è facile: si zappa, si semina, ma il raccolto dipende dall'andamento delle stagioni. Una nevicata, una gelata fuori tempo. una grandinata e tutto è compromesso. Molto spesso eventi inattesi distruggono il raccolto curato con tanto amore. Mio padre produceva un buon vino,ma ecco che tutte le piante di vite si ammalano, la famosa filossera, e muoiono, una vera disgrazia. Fu necessario comprare le barbatelle di vite americana, già resistente alla malattia, e innestare su di loro , una volta attecchite, la vite italiana e attendere che crescessero e diventassero produttive. Occorreva avere soldi e non tutti potevano risolvere così il problema, dovettero rinunciare ai loro poveri vigneti.
All' età di nove anni cominciai a frequentare la scuola elementare.
Ero una buona scolara attenta e volenterosa. I maestri di allora picchiavano e castigavano con severità. Io una volta ricevetti dalla maestra parecchie bacchettate sul palmo della mano, invece di seguire la lezione giocavo con una bambola di pezza che avevo portata da casa. Molti insegnanti usavano metodi correttivi corporali.C'era chi portava a scuola una lunga bacchetta, arrivava fino all'ultimo banco, con colpi in testa gli alunni venivano richiamati all'attenzione. Un maestro prendeva a calci gli alunni e, perchè la cosa fosse più dolorosa, portava scarpe molto appuntite.
Mia sorella Maria rifiutò di andare a scuola dopo che la maestra le ebbe strappato un bel ciuffo di capelli. Preferì andare per dieci anni a lavorare in campagna.
Nella classe di mia sorella Carmela ci una fu vera rivolta verso il maestro.
Egli aveva l'abititudine di verificare ogni mattina la pulizia delle sue scolare. Tra le altre parti del corpo: viso, orecchie, unghie, ecc. , guardava anche le ginocchia. Alle alunne la cosa non piaceva, dovevano sollevare la gonna. Una mattina, quando il maestro si chinò a controllare la prima scolara, si alzarono tutte e con un bastone che avevano nascosto sotta le lunghe e ampie gonne, cominciarano a bastonare il loro insegnante il quale, intuito il motivo della rivolta, non guardò più le ginocchia delle sue scolare.
Avevo circa dodici anni quando mia mamma morì. Non ho mai saputo il nome della malattia che ne provocò la morte. Forse non lo conobbe nemmeno mio padre, il medico del paese non era in grado di capire tutti i problemi dei suoi pazienti. La mamma, al momento del trapasso, aveva quarantasette anni.
Io soffrii molto per il distacco, andavo in campagna, mi nascondevo tra le erbe alte e piangevo, chiamavo la mamma che non sarebbe più ritornata tra noi.
Come tutti i familiari, presi il lutto che significò sette anni di vestito nero.
Tutto il paese partecipò al nostro dolore, alcuni con affetto e simpatia. "Come faranno tutti questi ragazzi a crescere senza una mamma?" si chiedevano le donne; altri con indifferenza mista alla voglia di giudicare e condannare:
"Gli sta bene a Minco Saccone si è messo la camicia nera prima del tempo". La camicia nera era la divisa fascista e mio padre, simpatizzante di Mussolini, aveva partecipato ad alcuni cortei indossando tale indumento.
Con la morte della mamma molte cose cambiarono in famiglia.
Mio padre decise che noi ragazze dovevamo occuparci della casa e perciò ci disse che non saremmo andate più a scuola.
La cosa mi rattristò moltissimo, piansi , spiegai che desideravo andare a scuola, promisi che mi sarei impegnata al massimo. Mio padre fu irremovibile: " Non c'è più la mamma, il vostro compito è stare a casa e lavorare.
Allora feci un atto di forza, andai dai carabinieri a denunciare la cosa. Vennero a parlare con papà che riuscì a convincerli delle sue buone ragioni. "Addio scuola per sempre" .
Una sola di noi avrebbe potuto continuare a studiare, Carmela. Era zoppa e quindi sicuramente avrebbe avuto difficoltà a lavorare nei campi.
Papà voleva studiasse da maestra. Lei rifiutò e da quel momento cominciò a occupparsi della casa. Fu una solerte ed attenta madre per tutti noi e un grande aiuto per papà. Si sposò tardissimo, a quarant' an
ni, quando tutti noi eravamo sistemati e papà era morto da tempo.
Non potendo andare a scuola, io cominciai ad imparare il lavoro nei campi. infine trovai un lavoro adatta a me. Mio padre aveva affittato un piccolo terreno vicino alla nostra casa. ne facemmo un meraviglioso orto di cui io mi occupai con amore e passione. La mattina all'alba ero in piedi per lavorare : toglievo le erbacce, zappettavo, curavo le numerose piante. Soprattutto raccoglievo le fresche verdure , ne facevo graziosi mazzetti e le andavo a vendere casa per casa alle signore-bene che attendevano il mio arrivo per acquistare verdure freschissime. Guadagnavo qualche soldo che consegnavo diligentemente a mio padre che era molto soddisfatto vendendomi lavorare con impegno.
Mi ricompensò per la mia diligenza. Al momento del mio matrimonio mi fece un corredo più ricco di quello che aveva dato alle due sorelle maggiori già sposate. Una mattina mentre ero nell'orto a lavorare una mia sorella chiese a mio padre il perchè di questa sua preferenza ed egli indicandomi rispose: "Guarda dov'è tua sorella tutte le mattine all'alba".
La mia condizione di orfana di madre era molto triste, non avevo una persona a cui chiedere spiegazioni per i vari problemi di ogni giorno. Crescevo, avevo quindici anni e non era ancora mestruata. Le mie amiche dicevano che non era una buona cosa. A chi chiedere aiuto. Andai in farmacia , esposi il mio problema. La farmacista si interessò e mi prescrisse una cura ricostituente e il problema fu risolto. Se ci fosse stata la mamma avrebbe sicuramente pensato lei ad aiutarmi.
In quel tempo frequentavo molto anche la chiesa, Ero "figlia di Maria" un' associazione religiosa del tempo. Mi occupavo delle più giovani, andava casa per casa a chiedere loro di venire in chiesa o di partecipare alla processione della festa patronale: la Madonna del Carmine. Ero molto soddisfatta quando in molte accoglievano il mio invito.
La festa patronale era l'avvenimento dell'anno. I più ricchi del paese partecipavano alla gara per l'acquisto della statua.Chi vinceva doveva organizzare la festa, pagare i trasportatori e soprattutto pagare da bere a tutti. Bere che cosa? Ma un buon vino naturalmente! Una volta mio padre riuscì a vincere la gara e organizzò tutto in grande, anche le bevute a cui prese parte . Si ubriacò e dormì per tre giorni facendoci preoccupare molto.
Nei nostri paese la vita era un po' monotona. La maggior parte delle persone si recavano la mattina presto al lavoro nei campi e la sera al tramonto ritornavano stanchi a casa. Si andava a dormire presto.
I campi erano lontani dalle abitazioni. Per raggiungere le masserie bisogna fare tutti i giorni un lungo cammino a piedi, o a cavallo di un asino. Mio padre, quando le cose andarono meglio economicamente, si comprò una cavalla di cui era molto fiero. Con essa andava alla masseria e controllava il lavoro dei miei fratelli e dei dipendenti.
Alla masserie c'era chi si occupava degli animali, chi dei lavori nei campi. Nel periodo della mietitura venivano i mietitori dalla Puglia. Mio padre, come tutti coloro che possedevano vasti terreni, al mattino presto si recava nella piazza principale dele
paese e assumeva i migliori.

Nei momenti di maggior lavoro si assumevano anche alcune donne, era compito mio andare a cercarle una per una la mattina all'alba.
Alla fine della mietitura, quando erano state ammucchiate in covoni e biche tutte le spighe, quelle che rimanevano per terra venivano raccolte dalle spigolatrice. Le spigolatrice erano donne che non possedevano campi propri andavano a "giornata". Il salario era modesto ma lo aumentavano un po' con le spighe raccolte spigolando.
Mio padre, qualche volta cedeva gratuitamente, a alcune donne in difficoltà un piccolo pezzo di terreno da coltivare, naturalmente per un periodo limitato.
Alla masseria (casa di campagna) c'era anche una donna molto attenta che si occupava del pollaio, di tenere pulita e in ordine la casetta, di preparare il mangiare per i lavoratori quando non veniva mia mamma a portarlo. Questa donna viveva sempre lì, notte e giorno, era una brava massaia. Secondo alcuni tra lei e mio padre c'era qualcosa di più che un semplice rapporto
tra padrone e "serva" come si diceva allora. Comunque quando noi bambini eravamo lì era una seconda mamma.

A Cancellara la maggior parte della popolazione era costituita da poveri contadini che passavano la giornata in campagna e la sera tornavano a casa stanchi, mangiavano una frugale cena e andavano a dormire molto presto in letti con i materassi imbottiti di foglie di granone e quindi scomodi e scricchiolanti.
Nelle case spesso dormivano anche gli animali e naturalmente l’igiene era una cosa quasi sconosciuta anche se si cercava di pulire e tenere un minimo d’ordine.
Ho già detto che la maggior parte delle persone viveva poveramente. Le calzature più comuni, per le donne, erano gli zoccoli di legno. Le scarpe, e non per tutte, erano un lusso della Domenica. Camminando facevano un forte rumore . In tutta la Basilicata ci deridevano per questo: eravamo quelle che camminando sul selciato facevamo:”CIC CIAC”, ci si sentiva da lontano.
Vivere al mio paese non era divertente specialmente d’inverno. Qualcuno cercava di uscire dalla monotonia frequentando il “caffè” fino a tarda ora. Anche i miei fratelli, diventati giovanotti, uscivano di casa la sera. Mio padre non voleva che si facesse tardi. Per questo noi ragazze aspettavamo sveglie e, appena li sentivamo arrivare, aprivamo la porta cercando di fare meno rumore possibile.
Qualcuno cercava di animare il paese percorrendone le vie suonando empirici strumenti musicali e cantando canzoni in cui venivano raccontati episodi di vita realmente accaduti. Come quei tre che si erano costruiti una “caccavella” (?u cubba cub) e si annunciavano cantando:”Ruggero, Ruggero e Ginnarino e Eugenio Cacafava”.
Cosa raccontavano questi improvvisati cantastorie? Per lo più avvenimenti che colpivano la fantasia popolare: la fanciulla sedotta ed abbandonata che “disonorava la famiglia”; i delitti d’onore o per vendicare soprusi vari.
Un fatto che fece molto scalpore, al mio paese, fu quello di “Maria Patrafesa” : Era rimasta vedova con due figlie piccole, aveva un campo ben coltivato. Un uomo del paese, al momento del raccolto, andò a raccogliere ciò che il campo offriva sicuro di uscirne impunito. La donna attese che ritonasse a ripetere l’ impresa, senza esitazione, gli sparò e l’uccise. Molti la considerarono una persona coraggiosa e la guardavano con un misto di approvazione e timore.
Noi ragazze potevamo occuparci della casa, andare a lavorare in campagna e frequentare la chiesa.
Per andare a ballare durante le feste più importanti del paese dovevamo farci accompagnare da un fratello maggiore. I miei fratelli ci accompagnavano volentieri . A me piaceva molto ballare, ero brava nella polca, il valzer, il tango, la tarantella.Una volta sposata dovetti rinunciare a questo divertimento, mio marito non ballava.
L’ argomento sesso era per noi un tabù. Nessuno ci spiegava le cose perciò spesso arrivavamo al matrimonio con un misto di curiosità, ma anche timore.
La prima notte di matrimonio io costrinsi mio marito ad attendere di aver riordinato la biancheria portata in dote (secondo la consuetudine era stata esposta perchè i paesani potessero ammirarne il tessuto e i ricami da me eseguiti),perchè temevo di affrontare la nuova esperienza.
Quando mi sposai io non conoscevo la parola prostituta. Sapevo sì che alcune ragazze frequentavano uomini , ma non pensavo che si potessero avere rapporti sessuali per guadagnarsi la vita. Avevo sentito qualche volta parlare di ragazze perdute che non bisognava frequentare, ma non capivo con chiarezza di che cosa si parlasse , era quasi un mistero. Fu mio marito che mi informò di queste cose ridendo della mia ignoranza.


Anche se non eravamo poveri, la campagna rendeva bene e le dispense erano sempre fornite di ogni ben di Dio, i nostri pasti erano frugali. La carne si mangiava raramente, nelle feste. Quotidianamente si mangiava la pasta con le verdure, patate, fagioli, ceci. La cicoria bollita e messa a insaporire in un brodo preparato con l’osso di prosciutto e gusti vari, era una leccornia.
Si impastava il pane una volta alla settimana. si facevano dei pezzi (panelle)da circa un chilo l’una, chi aveva il forno le cuoceva in casa. Altrimenti si portavano al forno pubblico. Non si usava lievito di birra, ma la pasta fermentata che si conservava di settimana in settimana. Quando si impastava si preparavano le focacce e sulla brace
si faceva cuocere il “cunculicchio” piccola focaccia con il sale.
Tra i cibi più appetitosi ricordo: le patate sane bollite e condite con olio e polvere di peperoncino. Erano piccole patate che si facevano bollire con la buccia. Buona era anche la”laina chiapputa”, larghe tagliatelle fatte in casa e condite con pan grattato, uva passa,ecc. buono era il calzone ripieno con pomodoro e mozzarella, fette di salame. Per il giorno dei morti si faceva bollire il grano e si offriva ai ragazzi che venivano a chiedere per l’anima dei morti. In altre occasioni si preparavano le bugie, le zeppole, i mastacciuoli, e i taralli , duri e salati che invitavano a bere il vino. Un piatto molto appetitoso erano le patate cotte al forno con la carne d’agnello , spesso la testina, e l’origano.
Molti cibi erano ottimi per stimolare il desiderio di bere un buon bicchiere di vino: i finocchi , si diceva:” Finocchi bevo due volta a cchiucco”, i sedani ( in dialetto accio):Accio ,accio, che buon vino ca saccio”.
Con il vino cotto si faceva il pan dei morti (pan minisc) La vigilia di Natale, giorno di astinenza, si cuocevano gli spaghetti e si condivano con aglio, olio. acciughe salate e peperoncino.
Una festa era l’uccisione del maiale. Veniva allevato con cura per tutto l’anno e vicino a Natale si uccideva. Tutti eravamo chiamati a collaborare: si preparavano le salsicce ( le famose salsicce lucane ) da conservare sott’olio, sotto sugna o appese alle travi. Con il sangue di maiale si faceva il sanguinaccio, dolce e salato. A proposito del maiale una cosa che ricordo con chiarezza è quando veniva il sana porcelle per rendere improlifiche le maialine.



Pensando alle feste mi viene in mente la Pasqua. Durante la Settimana Santa, quando le campane non suonavano, per le strade si udiva il gracidare delle “raganelle” che i ragazzi faceva suonare correndo per le strade.

Ai miei tempi il Gloria della Resurrezione suonava il sabato a mezzogiorno: ai rintocchi delle campane finalmente sciolte, uscivamo tutti e andavamo a lavarci il viso alla fontana in segno di purifcazione. Non sapevamo cos’erano le uova di cioccolata. L’unico dolce erano i canestrini di pasta dolce con dentro l’uovo. Eravamo contenti lo stesso. Con la Pasqua arrivava la primavera e la rinascita della natura ci riempiva di gioia.
Uscivamo per lavarci il viso” perchè non c’erano ancora gli acquedotti che portavano l’acqua nelle case. Per avere l’acqua in casa si andava più volte al giorno a prenderla alla fontana nela piazza del paese. A volte molte si racco-
glievano lì e, in attesa, del proprio turno si raccontavano petegolezzi sulle persone del paese. L’acqua si metteva nei secchi o in barili di legno che si portavano sulla testa. frapponendo tra il recipiente e il capo la “sarcina” di stoffa. Per lavarsi il viso appena alzati si usava la brocca e il catino. Il bagno era una cosa da signori; il corpo si lavava a pezzi . Per lavare la biancheria si andava al fiume, dove era bello, anche se faticoso, lavare e stendere il bucato sull’erba profumata. Anch’io sono andata spesso a lavare al fiume. Il ricordo più bello è quando andai a lavare il corredo da sposa ricamato nelle lunghe sere invernali. Questo si poteva fare in primavera e in estate.
D’inverno si lavava in casa, come si poteva. Si candeggiava il bucato con la cenere. Si poneva la biancheria lavata in un largo recipiente di metallo, si copriva con uno straccio pulito e si versava sopra l’acqua in cui si era fatta bollire la cenere la quale era trattenuta dallo straccio. L’acqua così preparata conteneva sostanze sbiancanti che rendevano le lenzuola più bianche dei detersivi odierni . Per accentuare il candore dei tessuti spesso si risciacquavano con l’acqua in cui si era disciolta una polvere azzurra.
Poichè allora procurasi vestiti nuovi non era facile, costavano molto, spesso si rifrescavano i tessuti tingendoli con polverine colorate.
Non esistevano abiti confezionati perciò molto importante era il lavoro delle sarte e dei sarti. In tutte le famiglie c’era una donna che sapevga cucire e rammendare.
A casa mia una o due volte all’anno veniva la sarta, si fermava alcuni giorni e cuciva, riparava e rivoltata vestiti per tutti. Sì gli abiti, ma soprattutto le giacche e capotti si rivoltavano: si scucivano, si ridava il taglio mettendo all’esterno la facciata dell’interno che si era conservata perchè protetta dalla fodera. Di qui forse è nata la produzione dei tessuti double face. Noi però non portavamo quasi mai il cappotto. D’ inverni ci avvolgevamo in pesanti ed enormi scialli di lana. Gli uomini portavano il mantello a ruota o a mezza ruota. Il costume tradizionale prevedeva lunghe ed amplissime gonne pieghettate di tessuto molto pesante. Mia suocera con una sua gonna riuscì a fare per il figlio, già adulto, un bellissimo mantello.
Le donne anziane, non più in grado di lavorare in campagna, trascorrevano la giornata rammendando o filando la lana delle pecore e delle capre con fusi e rocche.

Venne molto presto ,per me, il momento di pensare al matrimonio. Avevo diciotto anni quando mia sorella Maria, già sposata con figli, mi fece conoscere colui che sarebbe diventato mio marito e quindi vostro padre.
Nicola era un giovane di Acerenza , aveva conosciuto sotto le armi il marito di mia sorella ed erano diventati amici. Un giorno, passado con il suo gregge (era pastore) per Cancellara, incontrò mio cognato si misero a parlare e venne fuori che uno era già sposato e l’altro in cerca dell’anima gemella . Mio cognato disse :” Se vuoi conoscere delle ragazze , io ho un sacco di cognate. Te ne presenterò una. Detto fatto fissarono un appuntmento: Antonio, tornato a casa, raccontò la cosa alla moglie e propose di presentare a me il suo amico . Maria disse; “E’ una buona idea”. Quando il giorno dell’appuntamento si presentò a casa loro Nicola mi mandò a chiamare e me lo presentò. A me piacque, ma avevo delle riserve sul lavoro che svolgeva.
Ci incontrammo altre volte, sempre in casa di mia sorella , ci parlammo e capimmo che saremmo stati bene insieme.
Nicola aveva molta fretta di sposarsi. Io un po’ meno , pensavo di essere ancora molto giovane; tuttavia accettai che parlasse a mio papà. Anche lui desiderava che io mi sposassi, le femmine a casa erano per lui fonte di preoccupazione. Mio padre parlò con lui e lo trovò un bravo giovane. Prese le dovute informazioni e gli fu detto:” Lui e il padre sono due brave persone.La mamma invece è una vipera”. Comunque Nicola fu accettato anche da mio padre e cominciò il periodo di fidanzamento.
Ai miei tempi durante il periodo del fidanzamento i due promessi potevano incontrarsi e parlare sempre in presenza di qualche parente: non si potevano così manifestare i propri sentimenti o scambiarsi affettuosità. Mio padre era molto attento a che tra me e Nicola non ci fosse nessuna possibilità di toccarsi. E’ rimasta nella memoria di tutti i presenti quella volta che eravamo tutti seduti intorno al caminetto (l’unica fonte di calore anche nei giorni più freddi) io ero vicina al mio futuro sposo e mio padre allora disse:”Nicola vieni qui al mio posto, più vicino al fuoco, io mi brucio” e così lo fece cambiare posto.
Il nostro fidsnzamento durò circa un anno. Io volevo far passare ancora un po’ di tempo, mi sentivo molto giovane e impreparata ad abbondonare la famiglia e prendermi nuove responsabilità. Nicola fu irremovibile voleva arrivare velocemente al matrimonio. Anche mio padre era d’accordo con lui: Sposati,io divento vecchio e non posso reggere la responsabilità di figlie femmine da sposare”.
In quel tempo anche mio fratello Michele, il primo figlio maschio, aveva una fidanzata, Carmnella e volevano sposarsi : Michele diceva:”Tocca a me, sono più vecchio”. Mio padre pose fine alle discussioni affermando che le figlie femmine, non sposate sono fonte di preoccupazione e perciò:- Si sposerà prima tua sorella. Michele si offese e per molti anni fu arrabbiato con me.
Io accettai la situazione e incominciai a preparmi al matrimonio. Doveva cucire il corredo e tutte le sere passavo lunghe ore a ricamare e cucire. Quando Nicola veniva a trovarmi io ero lì china sulle le lenzuola e le tovaglie per la nostra casa futura. Mio padre mi tolse anche alcuni impegni di lavoro in campagna perchè potessi dedicarmi al mia biancheria. Dovevo essere molto precisa nell’ eseguire ricami e trine perchè, come ho già detto , il giorno delle nozze il corredo veniva esposto alla curiosità della gente. Sicuramente quasi tutti gli abitanti di Acerenza sarebbero andati a vederlo per capire cosa valeva questa giovane venuta da fuori paese e, si diceva, proveniente da una famiglia benestante. Quando il corredo fu pronto furono momenti felici quelli trascorsi in riva al fiume a lavare e stendere sull’erba profumata lenzuola, tovaglie, asciugamani, ecc..
Mio marito aveva fretta di sposarsi e così a dicembre , nel periodo dell’Avvento, quando la chiesa proibiva cerimonie solenni in preparazione al S. Natale, ottenuto le dovute dispense ci sposammo, era l’ 11 dicembre del 1933., faceva freddo, il paese era bianco di neve.
La settimana prima ci eravamo recati in Municipio per le “richieste”, il matrimonio civile.
Se la cerimonia in chiesa non fu molto solenne, solenne fu l’accoglienza riservatami dagli amici e parenti di Acerenza con un ricco pranzo nuziale, regali e, alla sera , il ballo. Io aprii le danze con mio suocero perchè Nicola non sapeva ballare, un piccolo neo nella mia felicità, a me piaceva ballare, ma da allora ci rinunciai.
Venne notte e noi sposi ci ritirammo nella nostra casa per riposarci e,per la prima volta mi trovai sola con il mio uomo. Ne avevo quasi paura, ma nutrivo verso di lui stima e fiducia e riuscii così a superare ogni pudore. Mentre noi dormivamo, mio suocero vegliava davanti la porta di casa. Ad Acerenza usava, la prima notte di nozze, fare scherzi agli sposi. Poichè , in altre simili occasioni , gli scherzi erano stati pesanti,( pare che una giovane sposa fosse morta spaventata dalla carcassa di un animale morto appoggiato alla porta e cadutogli addosso), mio suocero voleva evitarci qualche brutta esperienza. Un’altra tradizione da rispettare era mostrare alla suocera le lenzuola fra le quali si era trascorsa la prima notte di matrimonio: le macchie di sangue su di esse erano la dimostrazione della consumazione del matrimonio e della verginità della sposa. E poi c’era la settimana della “vergognanza”;, durante la settimana che seguiva il giorno delle nozze la sposa non usciva di casa.
Mio padre mi diede come dote tutta la biancheria della casa e tremila lire depositate alla Posta con i vincoli dotali allo scopo di darmi un minimo di sicurezza economica, non fidandosi molto di mia suocera. (tremila lire oggi sono meno di niente, allora erano una discreta somma. Quando decisi di ritirarle, negli anni sessanta, non modificarono per niente le mie condizioni economiche. Cominciò così la mia nuova vita tra gioie e dolori. A nove mesi dalle nozze ero già mamma di una bellissima bambina. Il parto non fu semplice, la bambina si presentava con i piedi in avanti. L’ostetrica non era presente perchè impegnata presso un’altra partoriente. Chiamammo la “donna pratica” che abilmente riuscì a risolvere la difficile situazione. C’ era anche il medico condotto, ma mio marito non permise che mi toccasse.
Nata Lucia ( il nome della bisnonna) comiciarono le difficoltà: non avevo latte, ai tempi non c’era la Carlo Erba con il latte in scatola, dovetti nutrire la neonata con latte di asina (il più simile a quello umano) e rossi d’uova sbattuti. Fui aiutata molto da mio suocero. Mia suocera non era contenta, desiderava un nipote maschio, odiava le femmine. Ed ecco, dopo meno di due, un’altra creatura sta per nascere, speriamo sia un maschio, ma nonstante voti e preghiere, nacque un’altra bimba. Questa volta senza difficoltà. Mia suocera, come commento, disse:” Questa farà come sua madre , mi riempirà la casa di piscia a terra”. Cominciarono i primi contrasti.
Si viveva insieme ai genitori di mio marito e si lavorava per loro. io non ero contenta, volevo una vita più indipendente , più nostra. Sognavo di abbandonare il paese e di poter far studiare le figlie. Ne parlavo continuamente con Nicola, che già per amore mio aveva abbandonato il mestiere di pastore per quello di contadino. Fare il pastore voleva dire stare lontano da casa nei pascoli con il gregge per lunghi giorni e solitarie notti. Mio marito decise di tentare la fortuna , si arruolò come volontario per andare a conquistare le terre d’Africa, come voleva Mussolini, l’allora capo del governo in Italia. Partì , io rimasi sola con le due bambine in casa dei suoi genitori che non approvarono la scelta e pensavano fossi stata io ad averlo spinto alla difficile decisione. Rimase in Etiopia circa tre anni. Mi mandava tutto ciò che riusciva a risparmiare sul salario che riceveva come soldato. Io risparmiavo tutto per quando sarebbe tornato. Mi scriveva spesso narrandomi dell’Africa e delle sue difficoltà. Io rispondevo e scrivevo lettere anche per le altre mogli che avevano il marito volontario.
Quella d’Africa fu un’avventura senza risultati utili, lui sognava di sistemarsi lì e di far emigrare anche noi. Come tutti sanno, gli Inglesi posero fine ai sogni coloniali italiani e Nicola ritornò a casa, ricco per l’esperienza fatta, ma dovette riprendere a lavorare i campi. Quando arrivò, la figlia più piccola non lo voleva in casa nonostante lui fosse arrivato con dei giocattoli tra cui una bambola subito distrutto per vedere come era fatta dentro.
Mi sono accorta che non vi ho presentato i familiari di Nicola: il padre si chiamava Cancellara Donato, era un uomo saggio e buono. Amava la famiglia ed era un gran lavoratore. Sapeva essere anche affettuoso ed era attento alle piccole cose. Quante volte alla fine dell’estate tornava dal lavoro dei campi con un piccolo fagottino in cui aveva raccolto acini d’uva maturi e li dava alle bambine felice di vederle mangiare con gusto.
Aveva fatto il militare durante la Prima Guerra Mondiale e ,nella sua assenza, Nicola si era occupato come pastore alle dipendenze di un latifondista e tutto ciò che guadagnava lo consegnava alla madre che deponeva i soldi alla Posta e in seguito servirono per l’acquisto di alcuni terreni.
La madre Montanaro Donata, era una donna severa, chiusa in se stessa , precisa nei lavori di casa e dei campi. Sapeva fare un sfoglia sottile e rotonda che sembrava l’o di Giotto. Il suo letto matrimoniale era rifatto alla perfezione, liscio e spianato come se nessuno vi dormisse mai. Era tradizione del paese, le donne dei contadini dovevano avere una casa ordinatissima e un letto rifatto perfettamente.Io, che volevo guadagnarmi la sua stima e il suo affetto, imparai a fare la sfoglia e i mestieri di casa in modo da garreggiare con lei. Non amava le bambine, forse perchè la sua infanzia e adolescenza non furono certamente felici. Da bambina dovette soffrire la mancanza del padre che come vi ho già raccontato era emigrato in America e non era mai più tornato. Anche la mamma non dovette esserle molto vicina perchè andava a lavorare nei campi a “giornata” per poter mantenere se stessa e le due figlie. In queste condizioni la vita non era fatta di gioie ma di preoccupazioni e sacrifici: “ Quale sarebbe stata la sorte delle due ragazze?”Per questo quando mio suocero chiese in moglie Donata, la madre accettò la richiesta anche se era ancora una bambina. Cancellara Donato era conosciuto come uomo rispettabile e promise che avrebbe avuto cura ed affetto per la moglie bambina e attese, per avere rapporti matrimoniali il momento in cui la ragazza divenne fisicamente matura per affrontarli. Tenendo conto di tutto ciò Donata doveva pensare che era meglio nascere maschio.
Dal loro matrimonio nacquero quattro figli: Canio, Nicola, Antonio e una bambina che morì neonata.
Mia suocera era di principi molto rigidi tanto da quasi impazzire quando il figlio Canio fuggì con la fidanzata Filomena che non era gradita ai genitori dell’uomo che amava. Mia suocera non volle mai ricevere in casa la nuora e i due figli nati dalla loro unione. Mia suocero ,di nascosto, cercava di aiutarli.
. Povera Filomena quanta sofferenza dovette patire! Il marito morì giovane, una mattina fu trovato morto nella masseria, forse per un problema di cuore, lasciandola con Giuseppe e Donata. Da sola e senza mezzi dovette affrontare una vita di sacrifici ed umiliazioni. La suocere non si commosse, “Aveva voluto a tutti i costi Canio , bene non l’aveva goduto per molto tempo”. Mio suocero cercava di fare come poteva il dovere di suocero e nonno.
Nicola, mio marito, era un giovane lavoratore rispettoso della volontà della mamma e del padre. Da bambino era caduto nel fuoco riportando una bruciatura ad una guancia e la cicatrice lo accompagnò per tutta la vita. Era andato a scuola fino alla terza elementare. Non amava la scuola, i maestri erano severi e maneschi. Invece di andare a scuola andava a passeggio nei campi. Gli piaceva leggere ed era curioso e desiderava conscere le cose e soprattutto la storia romana che conosceva attraverso gli episodi di Camillo, Orazio Coclite,Muzio Scevola,ecc.. Da grande capì che la scuola era importante e frequentò un corso serale dove imparò nozioni importanti sull’agricoltura. Sapeva eseguire innesti perfetti , raccontava aneddoti e conosceva molti proverbi. Antonio,il terzo figlio era molto giovane quando io entrai a far parte della famiglia. Aveva un brutto carattere, era prepotente e viziato anche perchè leggermente menomato ad un occhio. Voleva sposare una delle mie sorelle più giovani che non l’accettò e questo creò dei malumori tra me e lui.
Con loro viveva anche la mamma di mia suocera, Agatiello Lucia, una donna devota, andava a messa tutte le mattine anche d’inverno; trascorreva la giornata filando, la sua rocca e il suo fuso erano sempre pronti. Non parlava molto con la figlia di cui non condivideva molti atteggiamenti. Al contrario della figlia amava molto le mie bambine e andava molto d’accordo con il genero. Quando andavo in campagna ad aiutare Nicola spesso lasciavo le bambine in custodia a nonna Lucia. Lei preferiva occupparsi della minore, diceva: “Lasciami solo Melina, è più tranquilla”. Lucia era molto vivace e le faceva anche dei piccoli scherzi come quello di metterle in grembo un topolino. La nonna ne aveva paura e urlava, la bimba rideva felice. Una volta si nascosa dietro una porta. La nonna la cercò dappertutto chiamandola ad alta voce, Lucia non c’era. Ad un certo punto, disperata, si mise le mani tra capelli ed esclamò: “ Ancura non è sciuta scalabbadd !” ( non sarà caduta dalle scale!) ed ecco Lucia uscire dal nascondiglio e, ridendo con le mani in testa, rifarle il verso.
Mia suocera aveva una sorella che aveva sposato un uomo ricco e, a quei tempi viveva a Potenza dove gestiva un’osteria vicino la chiesa di San Michele.
C’era poi zia Anna una donna molto saggia ed ascoltata in famiglia. Infatti fu lei che convinse i genitori a far sposare Canio con la donna da lui scelta e dar loro la possibilità di mettere su famiglia.
Tornato Nicola dall’Africa si riprese la vita di prima. Mio marito lavorava nei campi e riceveva dai genitori il necessario per vivere. Noi giovani non eravamo contenti, ma accettavamo la situazione con la speranza di un avvenire migliore.
Fino a quando restammo ad Acerenza io e Nicola avevamo le due bambine , il maschio nacque nel 1942 quando già ci eravamo allontanati dalla famiglia e vivevamo a Potenza. Lo chiamammo Donato, il nome dei due genitori di mio marito.
Fino a quando visse mio suocero le cose andarono avanti in armonia. Lui con la sua bontà e il suo carisma di capofamiglia riusciva a mantenere i rapporti su un piano di amore e rispetto reciproco. Quando lui morì, non ho mai capito perchè data la sua lealtà, si scoprì che aveva dettato le sue volontà ad un notaio e aveva quasi completamente diseredato il fi glio Nicola a cui toccava la leggittima e tutto il resto rimaneva al fratello con usufruttuaria la madre. Naturalmente a noi questa cosa dispiacque molto. Nicola ne fu offeso e mortificato. Non riusciva a spiegarsi il perchè delle scelte di suo padre .Era stato un figlio obbediente e rispettoso, aveva aiutato la famiglia quando era stato necessario e, col suo lavoro aveva collaborato ad aumentare le proprietà . Pensammo che forse la moglie e il figlio minore lo avevano convinto, quando era molto ammalto, a sottoscrivere un testamento che lui, a mente lucida, non avrebbe mai sottoscritto.
Impugnammo il suddetto testamento che risultò viziato a causa di una frase che stabiliva delle cose non coerenti con la legge. il testamento decadde e perciò la proprietà doveva essere divisa in parti uguali tra gli eredi. Antonio naturalmente non era d’accordo e perciò
pose tutti gli ostacoli possibili ad una divisione, non andava bene nessuna soluzione.
I due fratelli cominciarono a bisticciare e arrivarono a picchiarsi. A questo punto decidemmo di vendere le terre e di andare a cercare un lavoro a Potenza. Non potevamo andare all’avventura perchè avevamo due bambine a cui dovevamo assicurare una crescita serena. Acquistammo, da un paesano Vincenzo Boccia, una locanda, si trovava a Porta Salsa e aveva il pretenzioso nome di Regina d’Italia. Nel 1941 ci trasferimmo quindi a Potenza e cominciammo a gestire questa locanda. I clienti non mancavano, ma il lavoro era pesante, soprattutto per me, bisognava badare a che tutto fosse sempre pulito e in ordine. Spesso mi faceva aiutare da qualche donna di servizio.
Soli, giovani, con due bambine piccole dovemmo affrontare tutte le difficoltà che un lavoro così a contatto con tante persone ci presentava quotidianamente. C’era il governo fascita e molti erano coloro che, poichè iscritti al Partito, venivano a fare i prepotenti miciando rappresaglie. C’era la prostituzione, nonostante tutti i divieti, continuamente si veniva a contatto con donne ed uomini che facevano parte di quell’ambiente corrotto e avanzavano pretese. C’erano i controlli quotidiani della Polizia di Stato: a volte i poliziotti erano persone per bene che si proponevano solo di far rispettare la legge; a volte erano prepotenti che cercavano di ricavare vantaggi dalle situazioni scabrose. C’erano le continue richieste di aumento dell’affitto da parte del padrone di casa. Nonostante tutto ciò la vita era abbastanza serena: si lavorava molto, si cercava di far crescere i bene i figli.
L’Italia era in guerra, come tutti sanno. Fino all’otto settembre 1943 la guerra toccò solo marginalmente la nostra città. Naturalmente spesso si doveva comprare il necessario alla “borsa nera” perchè quello che si poteva acquistare con la “tessera” non bastava a soddisfare tutti i bisogni della famiglia. A noi non mancò mai il pane perchè come proprietari di terreni in affitto avevamo diritto ad una certa quantità di grano che dovevamo far macinare al mulino e diventava farina per un buon pane bianco non nero come quello della tessera. Mancava spesso lo zucchero, l’olio, il sale e allora si doveva ricorrere al “mercato nero”.
L’otto settembre 1943 cominciarono i guai seri per noi. Già Nicola, pur non essendo di leva, era stato richiamato . Dovette andare soldato ed io rimasi sola a gestire la locanda e a curare i tre figli.
Nel pomeriggio di quel giorno il giornale radio annunziò la firma dell’arministizio e, per l’Italia , la fine della guerra. Eravamo tutti felici, ma i guai non erano finiti anzi... quella sera stessa le prime bombe caddero sulla città di Potenza ed io mi trovavo sola a dover cercare un rifugio per me e miei figli. I bombardamenti durarono parecchi giorni per cui, come altri potentini, decisi di rifugiarmi con le bambine sotto la galleria ferroviaria della Calabro-Lucana. I treni non passavano, ci accampammo lì sulle rotaie cercando di sopravvivere , i disagi erano molti. Soprattutto era difficile procurarsi da mangiare. Io quasi tutye le mattine, lasciavo i bambini, e andava a casa a prendere qualche provvista, qualche coperta e tutto ciò che poteva essere utile per diminuire i disagi. Quando uscivo dalla galleria e percorrevo le strade della città, molto spesso vedevo case distrutte, morti lungo le strade, incendi, erano spettacoli terribili anche perchè spesso riconoscevo le persone che vedevo senza vita abbondonati sulle strade.
Sotto quella galleria si erano rifugiate tantissime persone che cercavano in mille modi di sopravvivere nella terribile situazione. Molto non avevano da mangiare e tutti i mezzi erano buoni per procurarsi cibo e denaro. Alcuni uscivano subito dopo i bombardamenti e prendevano nei negozi, mezzi distrutti, tutto ciò che era ancora utilizzabile. Ne mangiavano con le loro famiglie e ne vendevano a chi aveva qualche soldo.
Nei pressi della galleria sostavano sempre militari tedeschi: , che paura quella volta che cercavano soldati italiani e per stanarli misero alle due entrate del tunnel le mine, minacciando di far saltare tutto. Per molti giorni nessuno potè uscire , nemmeno a far cuocere un po’ di pasta sui fuochi di fortuna organizzati davanti agli ingressi.
Una volta toccò proprio a me vivere una terribile avventura: ero seduta con i miei figli nel mio angolino, vidi passare due carbinieri, uno lo conoscevo ( era venuto diverse volte a controllare la locanda e si era mostrato sempre gentile e rispettoso), mi vide, si fermò e dissi:”Mi nasconda i tedeschi ci inseguono” .Io , senza pensare alle comseguenze, alzai la coperta sulla quale eravamo seduti e:”Nascondetevi qui”. Li coprii e i bambini si sedettero sopra : Passarono i tedeschi e non si accorsero di nulla anche se una signora seduta di fronte mezza pazza gridava:”Ci sono i carabineri!”. Nessuno l’ascoltò e tutti fummo salvi. Ma quanta paura!
Io trascorrevo così le miei giornate sola e con il timore che da un momento all’altro potesse accadere qualcosa di terribile.
I miei fratelli a Cancellara pensavano a me, ai bambini e un giorno Raffaele e Michele ,con un asino e qualche vivere, partirono e a piedi raggiunsero Potenza.Andarono subito alla locanda, non mi trovarono, chiesero qua e là e finalmente seppero dove mi ero rifugiata.
Vennero e con loro a cavallo dell’asinello andammo a Cancellara in campagna.Dove oltre al conforto della vicinanza dei miei cari c’era cibo e aria buona. Non sapevo niente di Nicola, ma ero protetta dai miei fratelli.
Un giorno, finiti i bombardamenti, mi fecero sapere che il prefetto aveva ordinato la riapertura di tutti i pubbblici locali. Anche la mia locanda doveva riaprire i battenti.
Presi il figlio più piccolo, lasciai le bambine in campagna, e andai ad aprire il locale.
Mi trovavo a Potenza da pochi giorni, quando una mattina, mentre scrivevo i nomi degli ospiti sull’apposito registro, con la coda dell’occhio, vidi Dino che, seduto vicino a me sul seggiolone, si agitava e rideva felice. Alzai gli occhi e davanti a me vidi una figura umana nera dai capelli ai piedi, era Nicola fuggito dall’esercito sul tetto di un carro merci a carbone. Ci abbracciammo felici e... lentamente la vita riprese. Arrivarono le truppe di occupazione. La mia locanda ospitò giovani di tutte le razze, ma soprattutto neri americani. L’arrivo delle truppe di occupazione fu accolto da tutti noi con gioia. Noi eravamo affamati, da anni non sapevamo cos’era una tavoletta di cioccolata, il pane bianco, i biscotti. Essi arrivavano con tutte queste cose e ridevano vendondo la nostra bramosia. Come tutte le cose anche questa felicità era oscurata dal sapere che la loro presnza era spesso causa di infelicità. Erano giovani che da anni non vedevano le loro famiglie, le loro donne e spesso cercavano contanti con le nostre ragazze. Alcune si vendevano per poter avere cibo, vestiti per loro e le loro famiglie ; altre si innamorarono e, ad occupazione finita, qualcuna raggiunse il giovane innamorato in America. Molte invece furono abbondonate, magari in attesa di un bambino con tutte le tristi conseguenze.
Finita la guerra, cominciò la ricostruzione, ci fu il Referendum (Monarchia o Re pubblica?), il voto alle donne, le prime elezioni.
Intanto le mie bambine crescevano : finirono le Scuole Elementari e le medie. Io avevo l’ambizione di vederle laureate Potenza non aveva una Università, bisogna andare a Napoli, Salerno, Bari ....Si poteva mandare una ragazza da sola in una grande città? E così decidemmo di spostarci tutti. Io volevo andare a Roma, ma non riuscimmo a trovare una sistemazione. A quei tempi abbondonare la propria residenza per un’altra era difficile:la città ospitante accettava, con molte difficoltà, solo persone che avessero un lavoro. Dopo molti tentatavi finimmo a Savona che potè risolvere il nostro problema perchè vicina a Genova. Anche qui dovemmo affrontare molti problemi ma raggiungemmo lo scopo di far studiare i nostri figli e dare loro una vita più comoda della nostra.

Antonietta

A cura di Dreiser Cazzaniga Jr.


sabato, febbraio 11, 2012

Savianismi

«Me ne vado – conclude Saviano - con la certezza che il racconto e la memoria possono salvare un mondo e permettere di mappare una sorta di percorso che pericolosamente ci dice: il peggio è ancora da venire e laddove si perdono le regole si perde tutto ma, come scrive Lilin, il motto degli Urka siberiani è ancora vivo: “C’è chi la vita la gode, chi la subisce, noi la combattiamo".

Frase che sarebbe stata appena accettabile se pronunciata dal rimpianto Belushi.

Odio i nazisti della Transnitria.

Dreiser Cazzaniga

Da La Reubblica del 3 Aprile 2009