giovedì, febbraio 16, 2012
Jorge Manrique
Questi versi non si possono tradurre, non si devono tradurre, si possono respirare come luce.
Dreiser Cazzaniga
Y
consiento en mi morir,
Con
voluntad placentera ,
Clara
y pura;
Que
querer hombre vivir,
Cuand
Dios quiere que muera,
Es
locura.
J. Manrique
Coplas por la muerte de su padre
Per la mamma
Che
cos'è l'essenziale di una persona quando il corpo cessa di esistere
nell'atto di morire? (…) Rispondo: all'essenza della persona
appartiene esattamente quello che le apparteneva mentre era in vita –
quindi, niente di nuovo – ovvero; così come in vita trascendeva
gli atti del suo stato corporeo, così anche ora trascende la
distruzione del corpo (…) questo non vuol dire che abbia intenzione
o speranza di sopravvivere (…) vuol dire che la persona si vive
come qualcuno che sopravvive (…) Chi dicesse: si, ma solamente si
ratta di “intenzione, dimenticherebbe che l'intenzione e l'atto
costituiscono, in concreto, l'essenza della persona, che non è una
cosa, una sostanza che “abbia o che realizzi un'intenzione.
Max Scheler
Trad genseki
La nonna racconta
Questo breve teso, è di ma madre e raconta la vita della nonna. È il solo scrtto che ha lasciato e che compose direttamente con il suo computer dal quale ora lo invio,
Cancellara è un minuscolo paese della
Basilicata, situato su una altura posta nel fondo di una vasta valle
chiusa tra monti e colline e arroccato intorno ad un antico
castello. D'inverno vi fa molto freddo, nevica e il paese resta
isolato dal resto del mondo. D'estate fa molto caldo e l'acqua
scarseggia. Non ha vicino fiumi. Ci sono le fiumare; bisogna
camminare parecchio per raggiungerle. Durante la stagione calda sono
asciutte, in primavera, l'acqua del disgelo le rende impetuose.
In località "Santa Croce", nella parte
più alta del paese, sorge un edificio di tre piani: la stalla, la
cucina enorme, le camere da letto.
Vicino
alla casa, campi, orti,la via asfaltata che porta al Capoluogo, la
strada per la masserie e più in là il piccolo cimitero.
Per
entrare in casa bisogna salire una scalinata che ti porta sull'aia
dove trovi
la porta di casa e a fianco la "cappella",
un ampio locale che forse una volta era una chiesetta, ma noi
l'adoperavamo come legnaia da quando il governo fascista aveva
proibito le cataste di legna vicino alle case. Infatti al mio paese
c'era l'abitudine di accatastare la legna per l'inverno davanti alle
case, vicino alla porta.Era anche una dimostrazione di ricchezza.
Quando Mussolini, il capo del Governo Fascista, venne a visitare
Cancellara rimase stupito e ritenne pericolose le grandi cataste di
legna, di qui il decreto che proibiva di ammucchiare i ceppi davanti
alle case.
Ritornando
ai miei ricordi , in quella casa sopra descritta, il sei gennaio del
1914, in una notte fredda, in un mondo coperto di neve nacqui io.
Quella
notte mio papà, era a Brindisi. Ritornò il mattino dopo con un
regalo per la sposa, due finocchi, i regali di quei tempi.
Io ero la settima figlia. C'erano già: Angela,
Maria, Michele, Raffaele, Carmela, Rosina. La mia nascita fu accolta
con moderata gioia, avrebbero preferito un altro figlio maschio.
I
maschi , da grandi, avrebbero aiutato nel lavoro dei campi. Le
femmine davano solo preoccupazioni: bisognava trovare loro un buon
marito, dare una dote in biancheria e soldi, controllare che non
disonorassero in qualche modo il buon nome della famiglia.
Dopo di me nacquero Carolina, Pietro, Biagio e una
sorella che morì all'età di diciassette anni. Si era fatta suora
con il nome di Rosina. A quei tempi le ragazze che non desideravano
il matrimonio, la vita delle donne era molto faticosa: partorire e
crescere numerosi figli, aiutare il marito nei lavori dei campi,
occuparsi della casa, andavano in convento anche perchè avevano una
fede profonda.
Mio papà, Domenico Basile, proveniva da una
famiglia povera. Aveva
come soprannome "Saccone" perchè suo nonno
era stato in America (allora molti emigravano in cerca di fortuna) ed
era tornato, dicevano i paesani, con un grosso sacco pieno di soldi
che nessuno vide mai.
Mia madre, Caterini Maria Carmela, apparteneva a
una famiglia benestante che abitava nel centro del paese. Anche
questa era una famiglia numerosa. Tra i miei zii c'era anche un ex
prete: il prete "sfatto" , come dicevano i paesani in
segno di disapprovazione.
Mio padre e mia madre si amavano molto come
dimostra anche la numerosa prole: "Hanno tanti figli perchè
sono assai affiatati" dicevano i loro parenti.
I genitori di mia mamma desideravano per la
figlia un marito più ricco e per parecchio tempo si opposero al
matrimonio. Quando finalmente ottennero il permesso di sposarsi, mio
padre promise in cuor suo che avrebbe fatto vedere a tutti - cosa
valeva Minco Saccone -.
Mia madre era una brava donna di casa. Non andò
mai a lavorare nei campi, come le altre donne. Mio padre voleva che
fosse una signora.
In campagna andava qualche volta a portare il
mangiare ai mietitori.
Veniva
accolta con segni di gioia anche perchè, in quelle occasioni,
portava cibi un po' diversi, le seppioline ripiene, per esempio.
-Allora
in campagna si mangiava posando , un grosso piatto, con il pranzo,
per terra, si sedevano tutti intorno e
pescavano
a turno forchettate di cibo che poi era accompagnate dal buon vino
fatto da noi.
Mio padre era un uomo di azione, sempre in
movimento, sempre con qualche nuova idea. In paese era molto stimato:
lo volevano eleggere Podestà nonostante fosse analfabeta.
(l'analfabetismo era molto diffuso allora in Italia e soprattutto
nelle regioni più povere come la Basilicata).
Non era mai volgare nel parlare, soprattutto quando
eravamo presenti noi ragazze ( a quei tempi i linguaggi volgari era
riservati agli uomini quando si trovavano soli). Qualche volta, se
era proprio fuori di sè, diceva:”Cazz cazz, come diceva la
buonanima di Caio Cazzi”.
Se
in paese si celebrava un matrimonio tra persone molto povere o poco
intelligenti usadi dire con rammarico:” Si sposa mara a is, sposa
mara ad essa, mara a loro i figli che avranno “( si sposa povero
lui, sposa povera lei ancora più poveri i figli che nasceranno).
Spesso
pensava al futuro ed ere solito dire: “Poveri noi, poveri i figli
miei, ma più poveri ancora i figli dei figli miei”, intendendo che
il futuro non sarebbe stato roseo per nessuno.
Era
aperto alle novità. Fu tra i primi in paese a comprare la
trebbiatrice, il biroccio e a comprare i concimi chimici (il nitrato)
facendoli venire da San Giuseppe di Cairo (Sv)
Io crebbi in questa famiglia come tutti i bambini
del tempo, senza tanti vizi o giocattoli. Ancora molto piccola mio
padre mi metteva in una cesta che legava alla sua cavalcatura (lui
cavalcava una cavalla che bisognava curare con attenzione, un compito
dei figli) e mi portava alla masseria, potevo essere utile. Ricordo ,
quando più grandina, a cavallo dell'asino , tornavo a casa
piangendo, avevo i piedi gelati, coi geloni. Arrivata a casa la mamma
me li avvolgeva in una calda coperta per riscaldarli lentamente. La
nostra era una famiglia numerosa. con noi vivevano anche una vecchia
nonna e una sorella di mio papà cieca e sorda che riempiva la casa
di urla, ma aiutava a sbucciare i legumi.
Trai miei fratelli Michele, il più grande, era un
uomo tranquillo, un grande lavoratore. Raffaele era un buontempone, a
tavola spesso raccontava storie disgustose e si divertiva a vedere le
nostre smorfie. Quando sulla nostra aia arrivò la mietitrice, fu
l‘unico che imparò velocemente a usarla. I due più piccoli Pietro
e Biagio erano i più difficili da gestire. Biagio era nervoso e
prepotente. Da ragazzo fu molto malato e fu in pericolo di vita.
Anche mia sorella Rosina ebbe per lungo tempo una malattia di stomaco
e, fino a quando rimase con noi, ogni tanto si lamentava:” Ahime in
pitti” e perciò non andò mai a lavorare in campagna come tutte
noi.
La nostra vita scorreva tranquilla. Mia padre,
inizialmente era fattore di una contessa che possedeva un vasto
latifondo, era riuscito, facendo molti debiti, ad acquistare gran
parte della proprietà. I paesani pensavano che si sarebbe rovinato
del tutto. Lui riuscì con tenacia a superare tutte le difficoltà e
a dimostrare, soprattutto ai parenti di sua moglie, di essere capace
di migliorare le condizioni di vita della sua famiglia.
I figli crescevano e, i maschi aiutavano nei
lavori dei campi.
Fare il contadino, come si sa, non è facile: si
zappa, si semina, ma il raccolto dipende dall'andamento delle
stagioni. Una nevicata, una gelata fuori tempo. una grandinata e
tutto è compromesso. Molto spesso eventi inattesi distruggono il
raccolto curato con tanto amore. Mio padre produceva un buon vino,ma
ecco che tutte le piante di vite si ammalano, la famosa filossera, e
muoiono, una vera disgrazia. Fu necessario comprare le barbatelle di
vite americana, già resistente alla malattia, e innestare su di
loro , una volta attecchite, la vite italiana e attendere che
crescessero e diventassero produttive. Occorreva avere soldi e non
tutti potevano risolvere così il problema, dovettero rinunciare ai
loro poveri vigneti.
All' età di nove anni cominciai a frequentare la
scuola elementare.
Ero
una buona scolara attenta e volenterosa. I maestri di allora
picchiavano e castigavano con severità. Io una volta ricevetti dalla
maestra parecchie bacchettate sul palmo della mano, invece di seguire
la lezione giocavo con una bambola di pezza che avevo portata da
casa. Molti insegnanti usavano metodi correttivi corporali.C'era chi
portava a scuola una lunga bacchetta, arrivava fino all'ultimo banco,
con colpi in testa gli alunni venivano richiamati all'attenzione. Un
maestro prendeva a calci gli alunni e, perchè la cosa fosse più
dolorosa, portava scarpe molto appuntite.
Mia sorella Maria rifiutò di andare a scuola dopo
che la maestra le ebbe strappato un bel ciuffo di capelli. Preferì
andare per dieci anni a lavorare in campagna.
Nella
classe di mia sorella Carmela ci una fu vera rivolta verso il
maestro.
Egli
aveva l'abititudine di verificare ogni mattina la pulizia delle sue
scolare. Tra le altre parti del corpo: viso, orecchie, unghie, ecc. ,
guardava anche le ginocchia. Alle alunne la cosa non piaceva,
dovevano sollevare la gonna. Una mattina, quando il maestro si chinò
a controllare la prima scolara, si alzarono tutte e con un bastone
che avevano nascosto sotta le lunghe e ampie gonne, cominciarano a
bastonare il loro insegnante il quale, intuito il motivo della
rivolta, non guardò più le ginocchia delle sue scolare.
Avevo
circa dodici anni quando mia mamma morì. Non ho mai saputo il nome
della malattia che ne provocò la morte. Forse non lo conobbe nemmeno
mio padre, il medico del paese non era in grado di capire tutti i
problemi dei suoi pazienti. La mamma, al momento del trapasso,
aveva quarantasette anni.
Io
soffrii molto per il distacco, andavo in campagna, mi nascondevo tra
le erbe alte e piangevo, chiamavo la mamma che non sarebbe più
ritornata tra noi.
Come
tutti i familiari, presi il lutto che significò sette anni di
vestito nero.
Tutto
il paese partecipò al nostro dolore, alcuni con affetto e simpatia.
"Come faranno tutti questi ragazzi a crescere senza una mamma?"
si chiedevano le donne; altri con indifferenza mista alla voglia di
giudicare e condannare:
"Gli
sta bene a Minco Saccone si è messo la camicia nera prima del
tempo". La camicia nera era la divisa fascista e mio padre,
simpatizzante di Mussolini, aveva partecipato ad alcuni cortei
indossando tale indumento.
Con la morte della mamma molte cose cambiarono in
famiglia.
Mio padre decise che noi ragazze dovevamo occuparci
della casa e perciò ci disse che non saremmo andate più a scuola.
La cosa mi rattristò moltissimo, piansi , spiegai
che desideravo andare a scuola, promisi che mi sarei impegnata al
massimo. Mio padre fu irremovibile: " Non c'è più la mamma, il
vostro compito è stare a casa e lavorare.
Allora feci un atto di forza, andai dai carabinieri a
denunciare la cosa. Vennero a parlare con papà che riuscì a
convincerli delle sue buone ragioni. "Addio scuola per sempre"
.
Una sola di noi avrebbe potuto continuare a studiare,
Carmela. Era zoppa e quindi sicuramente avrebbe avuto difficoltà a
lavorare nei campi.
Papà voleva studiasse da maestra. Lei rifiutò e da
quel momento cominciò a occupparsi della casa. Fu una solerte ed
attenta madre per tutti noi e un grande aiuto per papà. Si sposò
tardissimo, a quarant' an
ni,
quando tutti noi eravamo sistemati e papà era morto da tempo.
Non potendo andare a scuola, io cominciai ad imparare
il lavoro nei campi. infine trovai un lavoro adatta a me. Mio padre
aveva affittato un piccolo terreno vicino alla nostra casa. ne
facemmo un meraviglioso orto di cui io mi occupai con amore e
passione. La mattina all'alba ero in piedi per lavorare : toglievo le
erbacce, zappettavo, curavo le numerose piante. Soprattutto
raccoglievo le fresche verdure , ne facevo graziosi mazzetti e le
andavo a vendere casa per casa alle signore-bene che attendevano il
mio arrivo per acquistare verdure freschissime. Guadagnavo qualche
soldo che consegnavo diligentemente a mio padre che era molto
soddisfatto vendendomi lavorare con impegno.
Mi
ricompensò per la mia diligenza. Al momento del mio matrimonio mi
fece un corredo più ricco di quello che aveva dato alle due sorelle
maggiori già sposate. Una mattina mentre ero nell'orto a lavorare
una mia sorella chiese a mio padre il perchè di questa sua
preferenza ed egli indicandomi rispose: "Guarda dov'è tua
sorella tutte le mattine all'alba".
La mia condizione di orfana di madre era molto
triste, non avevo una persona a cui chiedere spiegazioni per i vari
problemi di ogni giorno. Crescevo, avevo quindici anni e non era
ancora mestruata. Le mie amiche dicevano che non era una buona cosa.
A chi chiedere aiuto. Andai in farmacia , esposi il mio problema. La
farmacista si interessò e mi prescrisse una cura ricostituente e il
problema fu risolto. Se ci fosse stata la mamma avrebbe sicuramente
pensato lei ad aiutarmi.
In
quel tempo frequentavo molto anche la chiesa, Ero "figlia di
Maria" un' associazione religiosa del tempo. Mi occupavo delle
più giovani, andava casa per casa a chiedere loro di venire in
chiesa o di partecipare alla processione della festa patronale: la
Madonna del Carmine. Ero molto soddisfatta quando in molte
accoglievano il mio invito.
La festa patronale era l'avvenimento dell'anno. I più
ricchi del paese partecipavano alla gara per l'acquisto della
statua.Chi vinceva doveva organizzare la festa, pagare i
trasportatori e soprattutto pagare da bere a tutti. Bere che cosa? Ma
un buon vino naturalmente! Una volta mio padre riuscì a vincere la
gara e organizzò tutto in grande, anche le bevute a cui prese parte
. Si ubriacò e dormì per tre giorni facendoci preoccupare molto.
Nei
nostri paese la vita era un po' monotona. La maggior parte delle
persone si recavano la mattina presto al lavoro nei campi e la sera
al tramonto ritornavano stanchi a casa. Si andava a dormire presto.
I campi erano lontani dalle abitazioni. Per
raggiungere le masserie bisogna fare tutti i giorni un lungo cammino
a piedi, o a cavallo di un asino. Mio padre, quando le cose andarono
meglio economicamente, si comprò una cavalla di cui era molto fiero.
Con essa andava alla masseria e controllava il lavoro dei miei
fratelli e dei dipendenti.
Alla masserie c'era chi si occupava degli animali,
chi dei lavori nei campi. Nel periodo della mietitura venivano i
mietitori dalla Puglia. Mio padre, come tutti coloro che possedevano
vasti terreni, al mattino presto si recava nella piazza principale
dele
paese e assumeva i migliori.
Nei momenti di maggior lavoro si assumevano anche
alcune donne, era compito mio andare a cercarle una per una la
mattina all'alba.
Alla fine della mietitura, quando erano state
ammucchiate in covoni e biche tutte le spighe, quelle che rimanevano
per terra venivano raccolte dalle spigolatrice. Le spigolatrice erano
donne che non possedevano campi propri andavano a "giornata".
Il salario era modesto ma lo aumentavano un po' con le spighe
raccolte spigolando.
Mio padre, qualche volta cedeva gratuitamente, a
alcune donne in difficoltà un piccolo pezzo di terreno da coltivare,
naturalmente per un periodo limitato.
Alla masseria (casa di campagna) c'era anche una
donna molto attenta che si occupava del pollaio, di tenere pulita e
in ordine la casetta, di preparare il mangiare per i lavoratori
quando non veniva mia mamma a portarlo. Questa donna viveva sempre
lì, notte e giorno, era una brava massaia. Secondo alcuni tra lei e
mio padre c'era qualcosa di più che un semplice rapporto
tra
padrone e "serva" come si diceva allora. Comunque quando
noi bambini eravamo lì era una seconda mamma.
A
Cancellara la maggior parte della popolazione era costituita da
poveri contadini che passavano la giornata in campagna e la sera
tornavano a casa stanchi, mangiavano una
frugale cena e andavano a dormire molto presto in letti con i
materassi imbottiti di foglie di granone e quindi scomodi e
scricchiolanti.
Nelle
case spesso dormivano anche gli animali e naturalmente l’igiene era
una cosa quasi sconosciuta anche se si cercava di pulire e tenere un
minimo d’ordine.
Ho già detto che la maggior parte delle persone
viveva poveramente. Le calzature più comuni, per le donne, erano gli
zoccoli di legno. Le scarpe, e non per tutte, erano un lusso della
Domenica. Camminando facevano un forte rumore . In tutta la
Basilicata ci deridevano per questo:
eravamo quelle che camminando sul selciato facevamo:”CIC CIAC”,
ci si sentiva da lontano.
Vivere
al mio paese non era divertente specialmente d’inverno. Qualcuno
cercava di uscire dalla monotonia frequentando il “caffè” fino
a tarda ora. Anche i miei fratelli, diventati giovanotti, uscivano
di casa la sera. Mio padre non voleva che si facesse tardi. Per
questo noi ragazze aspettavamo sveglie e, appena li sentivamo
arrivare, aprivamo la porta cercando di fare meno rumore possibile.
Qualcuno cercava di animare il paese percorrendone le
vie suonando empirici strumenti musicali e cantando canzoni in cui
venivano raccontati episodi di vita realmente accaduti. Come quei tre
che si erano costruiti una “caccavella” (?u cubba cub) e si
annunciavano cantando:”Ruggero, Ruggero e Ginnarino e Eugenio
Cacafava”.
Cosa
raccontavano questi improvvisati cantastorie? Per lo più avvenimenti
che colpivano la fantasia popolare: la fanciulla sedotta ed
abbandonata che “disonorava la famiglia”; i delitti d’onore o
per vendicare soprusi vari.
Un
fatto che fece molto scalpore, al mio paese, fu quello di “Maria
Patrafesa” : Era rimasta vedova con due figlie piccole, aveva un
campo ben coltivato. Un uomo del paese, al momento del raccolto, andò
a raccogliere ciò che il campo offriva sicuro di uscirne impunito.
La donna attese che ritonasse a ripetere l’ impresa, senza
esitazione, gli sparò e l’uccise. Molti la considerarono una
persona coraggiosa e la guardavano con un misto di approvazione e
timore.
Noi
ragazze potevamo occuparci della casa, andare a lavorare in campagna
e frequentare la chiesa.
Per
andare a ballare durante le feste più importanti del paese dovevamo
farci accompagnare da un fratello maggiore. I miei fratelli ci
accompagnavano volentieri . A me piaceva molto ballare, ero brava
nella polca, il valzer, il tango, la tarantella.Una volta sposata
dovetti rinunciare a questo divertimento, mio marito non ballava.
L’
argomento sesso era per noi un tabù. Nessuno ci spiegava le cose
perciò spesso arrivavamo al matrimonio con un misto di curiosità,
ma anche timore.
La
prima notte di matrimonio io costrinsi mio marito ad attendere di
aver riordinato la biancheria portata in dote (secondo la
consuetudine era stata esposta perchè i paesani potessero ammirarne
il tessuto e i ricami da me eseguiti),perchè temevo di affrontare la
nuova esperienza.
Quando
mi sposai io non conoscevo la parola prostituta. Sapevo sì che
alcune ragazze frequentavano uomini , ma non pensavo che si potessero
avere rapporti sessuali per guadagnarsi la vita. Avevo sentito
qualche volta parlare di ragazze perdute che non bisognava
frequentare, ma non capivo con chiarezza di che cosa si parlasse ,
era quasi un mistero. Fu mio marito che mi informò di queste cose
ridendo della mia ignoranza.
Anche
se non eravamo poveri, la campagna rendeva bene e le dispense erano
sempre fornite di ogni ben di Dio, i nostri pasti erano frugali. La
carne si mangiava raramente, nelle feste. Quotidianamente
si mangiava la pasta con le verdure, patate, fagioli, ceci. La
cicoria bollita e messa a insaporire in un brodo preparato con
l’osso di prosciutto e gusti vari, era una leccornia.
Si
impastava il pane una volta alla settimana. si facevano dei pezzi
(panelle)da circa un chilo l’una, chi aveva il forno le cuoceva in
casa. Altrimenti si portavano al forno pubblico. Non si usava lievito
di birra, ma la pasta fermentata che si conservava di settimana in
settimana. Quando si impastava si preparavano le focacce e sulla
brace
si
faceva cuocere il “cunculicchio” piccola focaccia con il sale.
Tra
i cibi più appetitosi ricordo: le patate sane bollite e condite con
olio e polvere di peperoncino. Erano piccole patate che si facevano
bollire con la buccia. Buona era anche la”laina chiapputa”,
larghe tagliatelle fatte in casa e condite con pan grattato, uva
passa,ecc. buono era il calzone ripieno con pomodoro e mozzarella,
fette di salame. Per il giorno dei morti
si faceva bollire il grano e si offriva ai ragazzi che venivano a
chiedere per l’anima dei morti. In altre occasioni si preparavano
le bugie, le zeppole, i mastacciuoli, e i taralli , duri e salati che
invitavano a bere il vino. Un piatto molto appetitoso erano le patate
cotte al forno con la carne d’agnello , spesso la testina, e
l’origano.
Molti
cibi erano ottimi per stimolare il desiderio di bere un buon
bicchiere di vino: i finocchi , si diceva:” Finocchi bevo due volta
a cchiucco”, i sedani ( in dialetto accio):Accio ,accio, che buon
vino ca saccio”.
Con
il vino cotto si faceva il pan dei morti (pan minisc) La vigilia di
Natale, giorno di astinenza, si cuocevano gli spaghetti e si
condivano con aglio, olio. acciughe salate e peperoncino.
Una
festa era l’uccisione del maiale. Veniva allevato con cura per
tutto l’anno e vicino a Natale si uccideva. Tutti eravamo chiamati
a collaborare: si preparavano le salsicce ( le famose salsicce lucane
) da conservare sott’olio, sotto sugna o appese alle travi. Con il
sangue di maiale si faceva il sanguinaccio, dolce e salato. A
proposito del maiale una cosa che ricordo con chiarezza è quando
veniva il sana porcelle per rendere improlifiche le maialine.
Pensando
alle feste mi viene in mente la Pasqua. Durante la Settimana Santa,
quando le campane non suonavano, per le strade si udiva il gracidare
delle “raganelle” che i ragazzi faceva suonare correndo per le
strade.
Ai
miei tempi il Gloria della Resurrezione suonava il sabato a
mezzogiorno: ai rintocchi delle campane finalmente sciolte, uscivamo
tutti e andavamo a lavarci il viso alla fontana in segno di
purifcazione. Non sapevamo cos’erano le uova di cioccolata. L’unico
dolce erano i canestrini di pasta dolce con dentro l’uovo. Eravamo
contenti lo stesso. Con la Pasqua arrivava la primavera e la
rinascita della natura ci riempiva di gioia.
“Uscivamo per lavarci il viso” perchè non
c’erano ancora gli acquedotti che portavano l’acqua nelle case.
Per avere l’acqua in casa si andava più volte al giorno a
prenderla alla fontana nela piazza del paese. A volte molte si racco-
glievano
lì e, in attesa, del proprio turno si raccontavano petegolezzi sulle
persone del paese. L’acqua si metteva nei secchi o in barili di
legno che si portavano sulla testa. frapponendo tra il recipiente e
il capo la “sarcina” di stoffa. Per lavarsi il viso appena alzati
si usava la brocca e il catino. Il bagno era una cosa da signori; il
corpo si lavava a pezzi . Per lavare la biancheria si andava al
fiume, dove era bello, anche se faticoso, lavare e stendere il bucato
sull’erba profumata. Anch’io sono andata spesso a lavare al
fiume. Il ricordo più bello è quando andai a lavare il corredo da
sposa ricamato nelle lunghe sere invernali. Questo si poteva fare in
primavera e in estate.
D’inverno
si lavava in casa, come si poteva. Si candeggiava il bucato con la
cenere. Si poneva la biancheria lavata in un largo recipiente di
metallo, si copriva con uno straccio pulito e si versava sopra
l’acqua in cui si era fatta bollire la cenere la quale era
trattenuta dallo straccio. L’acqua così preparata conteneva
sostanze sbiancanti che rendevano le lenzuola più bianche dei
detersivi odierni . Per accentuare il candore dei tessuti spesso si
risciacquavano con l’acqua in cui si era disciolta una polvere
azzurra.
Poichè
allora procurasi vestiti nuovi non era facile, costavano molto,
spesso si rifrescavano i tessuti tingendoli con polverine colorate.
Non
esistevano abiti confezionati perciò molto importante era il lavoro
delle sarte e dei sarti. In tutte le famiglie c’era una donna che
sapevga cucire e rammendare.
A
casa mia una o due volte all’anno veniva la sarta, si fermava
alcuni giorni e cuciva, riparava e rivoltata vestiti per tutti. Sì
gli abiti, ma soprattutto le giacche e capotti si rivoltavano: si
scucivano, si ridava il taglio mettendo all’esterno la facciata
dell’interno che si era conservata perchè protetta dalla fodera.
Di qui forse è nata la produzione dei tessuti double face. Noi però
non portavamo quasi mai il cappotto. D’ inverni ci avvolgevamo in
pesanti ed enormi scialli di lana. Gli uomini portavano il mantello a
ruota o a mezza ruota. Il costume tradizionale prevedeva lunghe ed
amplissime gonne pieghettate di tessuto molto pesante. Mia suocera
con una sua gonna riuscì a fare per il figlio, già adulto, un
bellissimo mantello.
Le
donne anziane, non più in grado di lavorare in campagna,
trascorrevano la giornata rammendando o filando la lana delle pecore
e delle capre con fusi e rocche.
Venne molto presto ,per me, il momento di pensare
al matrimonio. Avevo diciotto anni quando mia sorella Maria, già
sposata con figli, mi fece conoscere colui che sarebbe diventato mio
marito e quindi vostro padre.
Nicola era un giovane di Acerenza , aveva conosciuto
sotto le armi il marito di mia sorella ed erano diventati amici. Un
giorno, passado con il suo gregge (era pastore) per Cancellara,
incontrò mio cognato si misero a parlare e venne fuori che uno era
già sposato e l’altro in cerca dell’anima gemella . Mio cognato
disse :” Se vuoi conoscere delle ragazze , io ho un sacco di
cognate. Te ne presenterò una. Detto fatto fissarono un appuntmento:
Antonio, tornato a casa, raccontò la cosa alla moglie e propose di
presentare a me il suo amico . Maria disse; “E’ una buona idea”.
Quando il giorno dell’appuntamento si presentò a casa loro Nicola
mi mandò a chiamare e me lo presentò. A me piacque, ma avevo delle
riserve sul lavoro che svolgeva.
Ci
incontrammo altre volte, sempre in casa di mia sorella , ci parlammo
e capimmo che saremmo stati bene insieme.
Nicola
aveva molta fretta di sposarsi. Io un po’ meno , pensavo di essere
ancora molto giovane; tuttavia accettai che parlasse a mio papà.
Anche lui desiderava che io mi sposassi, le femmine a casa erano per
lui fonte di preoccupazione. Mio padre parlò con lui e lo trovò un
bravo giovane. Prese le dovute informazioni e gli fu detto:” Lui e
il padre sono due brave persone.La mamma invece è una vipera”.
Comunque Nicola fu accettato anche da mio padre e cominciò il
periodo di fidanzamento.
Ai miei tempi durante il periodo del fidanzamento
i due promessi potevano incontrarsi e parlare sempre in presenza di
qualche parente: non si potevano così manifestare i propri
sentimenti o scambiarsi affettuosità. Mio padre era molto attento a
che tra me e Nicola non ci fosse nessuna possibilità di toccarsi. E’
rimasta nella memoria di tutti i presenti quella volta che eravamo
tutti seduti intorno al caminetto (l’unica fonte di calore anche
nei giorni più freddi) io ero vicina al mio futuro sposo e mio padre
allora disse:”Nicola vieni qui al mio posto, più vicino al fuoco,
io mi brucio” e così lo fece cambiare posto.
Il nostro fidsnzamento durò circa un anno. Io volevo
far passare ancora un po’ di tempo, mi sentivo molto giovane e
impreparata ad abbondonare la famiglia e prendermi nuove
responsabilità. Nicola fu irremovibile voleva arrivare velocemente
al matrimonio. Anche mio padre era d’accordo con lui: Sposati,io
divento vecchio e non posso reggere la responsabilità di figlie
femmine da sposare”.
In
quel tempo anche mio fratello Michele, il primo figlio maschio,
aveva una fidanzata, Carmnella e volevano sposarsi : Michele
diceva:”Tocca a me, sono più vecchio”. Mio padre pose fine alle
discussioni affermando che le figlie femmine, non sposate sono fonte
di preoccupazione e perciò:- Si sposerà prima tua sorella. Michele
si offese e per molti anni fu arrabbiato con me.
Io accettai la situazione e incominciai a preparmi
al matrimonio. Doveva cucire il corredo e tutte le sere passavo
lunghe ore a ricamare e cucire. Quando Nicola veniva a trovarmi io
ero lì china sulle le lenzuola e le tovaglie per la nostra casa
futura. Mio padre mi tolse anche alcuni impegni di lavoro in campagna
perchè potessi dedicarmi al mia biancheria. Dovevo essere molto
precisa nell’ eseguire ricami e trine perchè, come ho già detto ,
il giorno delle nozze il corredo veniva esposto alla curiosità della
gente. Sicuramente quasi tutti gli abitanti di Acerenza sarebbero
andati a vederlo per capire cosa valeva questa giovane venuta da
fuori paese e, si diceva, proveniente da una famiglia benestante.
Quando il corredo fu pronto furono momenti felici quelli trascorsi in
riva al fiume a lavare e stendere sull’erba profumata lenzuola,
tovaglie, asciugamani, ecc..
Mio marito aveva fretta di sposarsi e così a
dicembre , nel periodo dell’Avvento, quando la chiesa proibiva
cerimonie solenni in preparazione al S. Natale, ottenuto le dovute
dispense ci sposammo, era l’ 11 dicembre del 1933., faceva freddo,
il paese era bianco di neve.
La settimana prima ci eravamo recati in Municipio per
le “richieste”, il matrimonio civile.
Se la cerimonia in chiesa non fu molto solenne,
solenne fu l’accoglienza riservatami dagli amici e parenti di
Acerenza con un ricco pranzo nuziale, regali e, alla sera , il ballo.
Io aprii le danze con mio suocero perchè Nicola non sapeva ballare,
un piccolo neo nella mia felicità, a me piaceva ballare, ma da
allora ci rinunciai.
Venne notte e noi sposi ci ritirammo nella nostra
casa per riposarci e,per la prima volta mi trovai sola con il mio
uomo. Ne avevo quasi paura, ma nutrivo verso di lui stima e fiducia e
riuscii così a superare ogni pudore. Mentre noi dormivamo, mio
suocero vegliava davanti la porta di casa. Ad Acerenza usava, la
prima notte di nozze, fare scherzi agli sposi. Poichè , in altre
simili occasioni , gli scherzi erano stati pesanti,( pare che una
giovane sposa fosse morta spaventata dalla carcassa di un animale
morto appoggiato alla porta e cadutogli addosso), mio suocero voleva
evitarci qualche brutta esperienza. Un’altra tradizione da
rispettare era mostrare alla suocera le lenzuola fra le quali si era
trascorsa la prima notte di matrimonio: le macchie di sangue su di
esse erano la dimostrazione della consumazione del matrimonio e
della verginità della sposa. E poi c’era la settimana della
“vergognanza”;, durante la settimana che seguiva il giorno delle
nozze la sposa non usciva di casa.
Mio
padre mi diede come dote tutta la biancheria della casa e tremila
lire depositate alla Posta con i vincoli dotali allo scopo di darmi
un minimo di sicurezza economica, non fidandosi molto di mia suocera.
(tremila lire oggi sono meno di niente, allora erano una discreta
somma. Quando decisi di ritirarle, negli anni sessanta, non
modificarono per niente le mie condizioni economiche. Cominciò
così la mia nuova vita tra gioie e dolori. A nove mesi dalle nozze
ero già mamma di una bellissima bambina. Il parto non fu semplice,
la bambina si presentava con i piedi in avanti. L’ostetrica non era
presente perchè impegnata presso un’altra partoriente. Chiamammo
la “donna pratica” che abilmente riuscì a risolvere la difficile
situazione. C’ era anche il medico condotto, ma mio marito non
permise che mi toccasse.
Nata
Lucia ( il nome della bisnonna) comiciarono le difficoltà: non avevo
latte, ai tempi non c’era la Carlo Erba con il latte in scatola,
dovetti nutrire la neonata con latte di asina (il più simile a
quello umano) e rossi d’uova sbattuti. Fui aiutata molto da mio
suocero. Mia suocera non era contenta, desiderava un nipote maschio,
odiava le femmine. Ed ecco, dopo meno di due, un’altra creatura
sta per nascere, speriamo sia un maschio, ma nonstante voti e
preghiere, nacque un’altra bimba. Questa volta senza difficoltà.
Mia suocera, come commento, disse:” Questa farà come sua madre ,
mi riempirà la casa di piscia a terra”. Cominciarono i primi
contrasti.
Si
viveva insieme ai genitori di mio marito e si lavorava per loro. io
non ero contenta, volevo una vita più indipendente , più nostra.
Sognavo di abbandonare il paese e di poter far studiare le figlie. Ne
parlavo continuamente con Nicola, che già per amore mio aveva
abbandonato il mestiere di pastore per quello di contadino. Fare il
pastore voleva dire stare lontano da casa nei pascoli con il gregge
per lunghi giorni e solitarie notti. Mio marito decise di tentare
la fortuna , si arruolò come volontario per andare a conquistare le
terre d’Africa, come voleva Mussolini, l’allora capo del governo
in Italia. Partì , io rimasi sola con le due bambine in casa dei
suoi genitori che non approvarono la scelta e pensavano fossi stata
io ad averlo spinto alla difficile decisione. Rimase in Etiopia circa
tre anni. Mi mandava tutto ciò che riusciva a risparmiare sul
salario che riceveva come soldato. Io risparmiavo tutto per quando
sarebbe tornato. Mi scriveva spesso narrandomi dell’Africa e delle
sue difficoltà. Io rispondevo e scrivevo lettere anche per le altre
mogli che avevano il marito volontario.
Quella d’Africa fu un’avventura senza risultati
utili, lui sognava di sistemarsi lì e di far emigrare anche noi.
Come tutti sanno, gli Inglesi posero fine ai sogni coloniali italiani
e Nicola ritornò a casa, ricco per l’esperienza fatta, ma dovette
riprendere a lavorare i campi. Quando arrivò, la figlia più piccola
non lo voleva in casa nonostante lui fosse arrivato con dei
giocattoli tra cui una bambola subito distrutto per vedere come era
fatta dentro.
Mi sono accorta che non vi ho presentato i
familiari di Nicola: il padre si chiamava Cancellara Donato, era un
uomo saggio e buono. Amava la famiglia ed era un gran lavoratore.
Sapeva essere anche affettuoso ed era attento alle piccole cose.
Quante volte alla fine dell’estate tornava dal lavoro dei campi
con un piccolo fagottino in cui aveva raccolto acini d’uva maturi
e li dava alle bambine felice di vederle mangiare con gusto.
Aveva
fatto il militare durante la Prima Guerra Mondiale e ,nella sua
assenza, Nicola si era occupato come pastore alle dipendenze di un
latifondista e tutto ciò che guadagnava lo consegnava alla madre che
deponeva i soldi alla Posta e in seguito servirono per l’acquisto
di alcuni terreni.
La
madre Montanaro Donata, era una donna severa, chiusa in se stessa ,
precisa nei lavori di casa e dei campi. Sapeva fare un sfoglia
sottile e rotonda che sembrava l’o di Giotto. Il suo letto
matrimoniale era rifatto alla perfezione, liscio e spianato come se
nessuno vi dormisse mai. Era tradizione del paese, le donne dei
contadini dovevano avere una casa ordinatissima e un letto rifatto
perfettamente.Io, che volevo guadagnarmi la sua stima e il suo
affetto, imparai a fare la sfoglia e i mestieri di casa in modo da
garreggiare con lei. Non amava le bambine, forse perchè la sua
infanzia e adolescenza non furono certamente felici. Da bambina
dovette soffrire la mancanza del padre che come vi ho già raccontato
era emigrato in America e non era mai più tornato. Anche la mamma
non dovette esserle molto vicina perchè andava a lavorare nei campi
a “giornata” per poter mantenere se stessa e le due figlie. In
queste condizioni la vita non era fatta di gioie ma di preoccupazioni
e sacrifici: “ Quale sarebbe stata la sorte delle due ragazze?”Per
questo quando mio suocero chiese in moglie Donata, la madre accettò
la richiesta anche se era ancora una bambina. Cancellara Donato era
conosciuto come uomo rispettabile e promise che avrebbe avuto cura ed
affetto per la moglie bambina e attese, per avere rapporti
matrimoniali il momento in cui la ragazza divenne fisicamente matura
per affrontarli. Tenendo conto di tutto ciò Donata doveva pensare
che era meglio nascere maschio.
Dal loro matrimonio nacquero quattro figli: Canio,
Nicola, Antonio e una bambina che morì neonata.
Mia
suocera era di principi molto rigidi tanto da quasi impazzire quando
il figlio Canio fuggì con la fidanzata Filomena che non era gradita
ai genitori dell’uomo che amava. Mia suocera non volle mai ricevere
in casa la nuora e i due figli nati dalla loro unione. Mia suocero
,di nascosto, cercava di aiutarli.
.
Povera Filomena quanta sofferenza dovette patire! Il marito morì
giovane, una mattina fu trovato morto nella masseria, forse per un
problema di cuore, lasciandola con Giuseppe e Donata. Da sola e senza
mezzi dovette affrontare una vita di sacrifici ed umiliazioni. La
suocere non si commosse, “Aveva voluto a tutti i costi Canio , bene
non l’aveva goduto per molto tempo”. Mio suocero cercava di fare
come poteva il dovere di suocero e nonno.
Nicola, mio marito, era un giovane lavoratore
rispettoso della volontà della mamma e del padre. Da bambino era
caduto nel fuoco riportando una bruciatura ad una guancia e la
cicatrice lo accompagnò per tutta la vita. Era andato a scuola fino
alla terza elementare. Non amava la scuola, i maestri erano severi e
maneschi. Invece di andare a scuola andava a passeggio nei campi. Gli
piaceva leggere ed era curioso e desiderava conscere le cose e
soprattutto la storia romana che conosceva attraverso gli episodi di
Camillo, Orazio Coclite,Muzio Scevola,ecc.. Da grande capì che la
scuola era importante e frequentò un corso serale dove imparò
nozioni importanti sull’agricoltura. Sapeva eseguire innesti
perfetti , raccontava aneddoti e conosceva molti proverbi. Antonio,il
terzo figlio era molto giovane quando io entrai a far parte della
famiglia. Aveva un brutto carattere, era prepotente e viziato anche
perchè leggermente menomato ad un occhio. Voleva sposare una delle
mie sorelle più giovani che non l’accettò e questo creò dei
malumori tra me e lui.
Con loro viveva anche la mamma di mia suocera,
Agatiello Lucia, una donna devota, andava a messa tutte le mattine
anche d’inverno; trascorreva la giornata filando, la sua rocca e il
suo fuso erano sempre pronti. Non parlava molto con la figlia di cui
non condivideva molti atteggiamenti. Al contrario della figlia amava
molto le mie bambine e andava molto d’accordo con il genero. Quando
andavo in campagna ad aiutare Nicola spesso lasciavo le bambine in
custodia a nonna Lucia. Lei preferiva occupparsi della minore,
diceva: “Lasciami solo Melina, è più tranquilla”. Lucia era
molto vivace e le faceva anche dei piccoli scherzi come quello di
metterle in grembo un topolino. La nonna ne aveva paura e urlava, la
bimba rideva felice. Una volta si nascosa dietro una porta. La nonna
la cercò dappertutto chiamandola ad alta voce, Lucia non c’era. Ad
un certo punto, disperata, si mise le mani tra capelli ed esclamò: “
Ancura non è sciuta scalabbadd !” ( non sarà caduta dalle scale!)
ed ecco Lucia uscire dal nascondiglio e, ridendo con le mani in
testa, rifarle il verso.
Mia
suocera aveva una sorella che aveva sposato un uomo ricco e, a quei
tempi viveva a Potenza dove gestiva un’osteria vicino la chiesa di
San Michele.
C’era
poi zia Anna una donna molto saggia ed ascoltata in famiglia. Infatti
fu lei che convinse i genitori a far sposare Canio con la donna da
lui scelta e dar loro la possibilità di mettere su famiglia.
Tornato Nicola dall’Africa si riprese la vita di
prima. Mio marito lavorava nei campi e riceveva dai genitori il
necessario per vivere. Noi giovani non eravamo contenti, ma
accettavamo la situazione con la speranza di un avvenire migliore.
Fino
a quando restammo ad Acerenza io e Nicola avevamo le due bambine , il
maschio nacque nel 1942 quando già ci eravamo allontanati dalla
famiglia e vivevamo a Potenza. Lo chiamammo Donato, il nome dei due
genitori di mio marito.
Fino a quando visse mio suocero le cose andarono
avanti in armonia. Lui con la sua bontà e il suo carisma di
capofamiglia riusciva a mantenere i rapporti su un piano di amore e
rispetto reciproco. Quando lui morì, non ho mai capito perchè data
la sua lealtà, si scoprì che aveva dettato le sue volontà ad un
notaio e aveva quasi completamente diseredato il fi glio Nicola a cui
toccava la leggittima e tutto il resto rimaneva al fratello con
usufruttuaria la madre. Naturalmente a noi questa cosa dispiacque
molto. Nicola ne fu offeso e mortificato. Non riusciva a spiegarsi il
perchè delle scelte di suo padre .Era stato un figlio obbediente e
rispettoso, aveva aiutato la famiglia quando era stato necessario e,
col suo lavoro aveva collaborato ad aumentare le proprietà .
Pensammo che forse la moglie e il figlio minore lo avevano convinto,
quando era molto ammalto, a sottoscrivere un testamento che lui, a
mente lucida, non avrebbe mai sottoscritto.
Impugnammo il suddetto testamento che risultò
viziato a causa di una frase che stabiliva delle cose non coerenti
con la legge. il testamento decadde e perciò la proprietà doveva
essere divisa in parti uguali tra gli eredi. Antonio naturalmente non
era d’accordo e perciò
pose
tutti gli ostacoli possibili ad una divisione, non andava bene
nessuna soluzione.
I due fratelli cominciarono a bisticciare e
arrivarono a picchiarsi. A questo punto decidemmo di vendere le terre
e di andare a cercare un lavoro a Potenza. Non potevamo andare
all’avventura perchè avevamo due bambine a cui dovevamo assicurare
una crescita serena. Acquistammo, da un paesano Vincenzo Boccia, una
locanda, si trovava a Porta Salsa e aveva il pretenzioso nome di
Regina d’Italia. Nel 1941 ci trasferimmo quindi a Potenza e
cominciammo a gestire questa locanda. I clienti non mancavano, ma il
lavoro era pesante, soprattutto per me, bisognava badare a che tutto
fosse sempre pulito e in ordine. Spesso mi faceva aiutare da qualche
donna di servizio.
Soli, giovani, con due bambine piccole dovemmo
affrontare tutte le difficoltà che un lavoro così a contatto con
tante persone ci presentava quotidianamente. C’era il governo
fascita e molti erano coloro che, poichè iscritti al Partito,
venivano a fare i prepotenti miciando rappresaglie. C’era la
prostituzione, nonostante tutti i divieti, continuamente si veniva a
contatto con donne ed uomini che facevano parte di quell’ambiente
corrotto e avanzavano pretese. C’erano i controlli quotidiani della
Polizia di Stato: a volte i poliziotti erano persone per bene che si
proponevano solo di far rispettare la legge; a volte erano prepotenti
che cercavano di ricavare vantaggi dalle situazioni scabrose. C’erano
le continue richieste di aumento dell’affitto da parte del padrone
di casa. Nonostante tutto ciò la vita era abbastanza serena: si
lavorava molto, si cercava di far crescere i bene i figli.
L’Italia era in guerra, come tutti sanno. Fino
all’otto settembre 1943 la guerra toccò solo marginalmente la
nostra città. Naturalmente spesso si doveva comprare il necessario
alla “borsa nera” perchè quello che si poteva acquistare con la
“tessera” non bastava a soddisfare tutti i bisogni della
famiglia. A noi non mancò mai il pane perchè come proprietari di
terreni in affitto avevamo diritto ad una certa quantità di grano
che dovevamo far macinare al mulino e diventava farina per un buon
pane bianco non nero come quello della tessera. Mancava spesso lo
zucchero, l’olio, il sale e allora si doveva ricorrere al “mercato
nero”.
L’otto settembre 1943 cominciarono i guai seri per
noi. Già Nicola, pur non essendo di leva, era stato richiamato .
Dovette andare soldato ed io rimasi sola a gestire la locanda e a
curare i tre figli.
Nel
pomeriggio di quel giorno il giornale radio annunziò la firma
dell’arministizio e, per l’Italia , la fine della guerra. Eravamo
tutti felici, ma i guai non erano finiti anzi... quella sera stessa
le prime bombe caddero sulla città di Potenza ed io mi trovavo sola
a dover cercare un rifugio per me e miei figli. I bombardamenti
durarono parecchi giorni per cui, come altri potentini, decisi di
rifugiarmi con le bambine sotto la galleria ferroviaria della
Calabro-Lucana. I treni non passavano, ci accampammo lì sulle rotaie
cercando di sopravvivere , i disagi erano molti. Soprattutto era
difficile procurarsi da mangiare. Io quasi tutye le mattine,
lasciavo i bambini, e andava a casa a prendere qualche provvista,
qualche coperta e tutto ciò che poteva essere utile per diminuire i
disagi. Quando uscivo dalla galleria e percorrevo le strade della
città, molto spesso vedevo case distrutte, morti lungo le strade,
incendi, erano spettacoli terribili anche perchè spesso riconoscevo
le persone che vedevo senza vita abbondonati sulle strade.
Sotto quella galleria si erano rifugiate tantissime
persone che cercavano in mille modi di sopravvivere nella terribile
situazione. Molto non avevano da mangiare e tutti i mezzi erano buoni
per procurarsi cibo e denaro. Alcuni uscivano subito dopo i
bombardamenti e prendevano nei negozi, mezzi distrutti, tutto ciò
che era ancora utilizzabile. Ne mangiavano con le loro famiglie e ne
vendevano a chi aveva qualche soldo.
Nei pressi della galleria sostavano sempre militari
tedeschi: , che paura quella volta che cercavano soldati italiani e
per stanarli misero alle due entrate del tunnel le mine,
minacciando di far saltare tutto. Per molti giorni nessuno potè
uscire , nemmeno a far cuocere un po’ di pasta sui fuochi di
fortuna organizzati davanti agli ingressi.
Una volta toccò proprio a me vivere una terribile
avventura: ero seduta con i miei figli nel mio angolino, vidi
passare due carbinieri, uno lo conoscevo ( era venuto diverse volte a
controllare la locanda e si era mostrato sempre gentile e
rispettoso), mi vide, si fermò e dissi:”Mi nasconda i tedeschi ci
inseguono” .Io , senza pensare alle comseguenze, alzai la coperta
sulla quale eravamo seduti e:”Nascondetevi qui”. Li coprii e i
bambini si sedettero sopra : Passarono i tedeschi e non si accorsero
di nulla anche se una signora seduta di fronte mezza pazza
gridava:”Ci sono i carabineri!”. Nessuno l’ascoltò e tutti
fummo salvi. Ma quanta paura!
Io trascorrevo così le miei giornate sola e con il
timore che da un momento all’altro potesse accadere qualcosa di
terribile.
I
miei fratelli a Cancellara pensavano a me, ai bambini e un giorno
Raffaele e Michele ,con un asino e qualche vivere, partirono e a
piedi raggiunsero Potenza.Andarono subito alla locanda, non mi
trovarono, chiesero qua e là e finalmente seppero dove mi ero
rifugiata.
Vennero
e con loro a cavallo dell’asinello andammo a Cancellara in
campagna.Dove oltre al conforto della vicinanza dei miei cari c’era
cibo e aria buona. Non sapevo niente di Nicola, ma ero protetta dai
miei fratelli.
Un giorno, finiti i bombardamenti, mi fecero sapere
che il prefetto aveva ordinato la riapertura di tutti i pubbblici
locali. Anche la mia locanda doveva riaprire i battenti.
Presi
il figlio più piccolo, lasciai le bambine in campagna, e andai ad
aprire il locale.
Mi
trovavo a Potenza da pochi giorni, quando una mattina, mentre
scrivevo i nomi degli ospiti sull’apposito registro, con la coda
dell’occhio, vidi Dino che, seduto vicino a me sul seggiolone, si
agitava e rideva felice. Alzai gli occhi e davanti a me vidi una
figura umana nera dai capelli ai piedi, era Nicola fuggito
dall’esercito sul tetto di un carro merci a carbone. Ci
abbracciammo felici e... lentamente la vita riprese. Arrivarono le
truppe di occupazione. La mia locanda ospitò giovani di tutte le
razze, ma soprattutto neri americani. L’arrivo delle truppe di
occupazione fu accolto da tutti noi con gioia. Noi eravamo affamati,
da anni non sapevamo cos’era una tavoletta di cioccolata, il pane
bianco, i biscotti. Essi arrivavano con tutte queste cose e ridevano
vendondo la nostra bramosia. Come tutte le cose anche questa felicità
era oscurata dal sapere che la loro presnza era spesso causa di
infelicità. Erano giovani che da anni non vedevano le loro famiglie,
le loro donne e spesso cercavano contanti con le nostre ragazze.
Alcune si vendevano per poter avere cibo, vestiti per loro e le loro
famiglie ; altre si innamorarono e, ad occupazione finita, qualcuna
raggiunse il giovane innamorato in America. Molte invece furono
abbondonate, magari in attesa di un bambino con tutte le tristi
conseguenze.
Finita la guerra, cominciò la ricostruzione, ci fu
il Referendum (Monarchia o Re pubblica?), il voto alle donne, le
prime elezioni.
Intanto le mie bambine crescevano : finirono le
Scuole Elementari e le medie. Io avevo l’ambizione di vederle
laureate Potenza non aveva una Università, bisogna andare a Napoli,
Salerno, Bari ....Si poteva mandare una ragazza da sola in una grande
città? E così decidemmo di spostarci tutti. Io volevo andare a
Roma, ma non riuscimmo a trovare una sistemazione. A quei tempi
abbondonare la propria residenza per un’altra era difficile:la
città ospitante accettava, con molte difficoltà, solo persone che
avessero un lavoro. Dopo molti tentatavi finimmo a Savona che potè
risolvere il nostro problema perchè vicina a Genova. Anche qui
dovemmo affrontare molti problemi ma raggiungemmo lo scopo di far
studiare i nostri figli e dare loro una vita più comoda della
nostra.
Antonietta
A cura di Dreiser Cazzaniga Jr.
sabato, febbraio 11, 2012
Savianismi
«Me ne vado – conclude Saviano - con la certezza che il racconto e la memoria possono salvare un mondo e permettere di mappare una sorta di percorso che pericolosamente ci dice: il peggio è ancora da venire e laddove si perdono le regole si perde tutto ma, come scrive Lilin, il motto degli Urka siberiani è ancora vivo: “C’è chi la vita la gode, chi la subisce, noi la combattiamo".
Frase che sarebbe stata appena accettabile se pronunciata dal rimpianto Belushi.
Odio i nazisti della Transnitria.
Dreiser Cazzaniga
Da La Reubblica del 3 Aprile 2009
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