Punto per punto corrispondeva
Il tracciato del tuo candore con lo zenith
Con il calore vuoto del rame con le sue mani adunche
Quando afferravano lo specchio
Per maledire la lebbra degli occhi, la speranza
Delle labbra e tuttte quante le possibili preghiere:
Invoca il concavo risuonare su se stessa
della costernazione, quando anche il cielo
manca al respiro – gridava
E l'accoglievi aprendo tutti i pori
Alla pioggerellina rinfrescante della disperazione.
genseki
domenica, gennaio 30, 2011
La mano cerca il cenno
La tua voce cercava la parola come
La mano cerca il cenno, l'occhio il sottinteso
Come l'ala smarrita cerca la caduta
E il volo il rigore retto del mezzogiorno
La tua voce cercava la parola
Come il bagliore cerca l'elissi
Come qualsiasi sfera il punto e a capo
La tua voce si cercava nella parola
Come Achille cercava una tartaruga
Che accettasse la competizione
Come la trama cerca il dialogo
Il sentiero le orme l'erba del te il tepore del burro
La tua voce si cercava sempre a una soglia
Su di un limite sostando presso il verbo
Infinitamente vicina al suo svelarsi
Nella caducitá del proprio senso.
genseki
La mano cerca il cenno, l'occhio il sottinteso
Come l'ala smarrita cerca la caduta
E il volo il rigore retto del mezzogiorno
La tua voce cercava la parola
Come il bagliore cerca l'elissi
Come qualsiasi sfera il punto e a capo
La tua voce si cercava nella parola
Come Achille cercava una tartaruga
Che accettasse la competizione
Come la trama cerca il dialogo
Il sentiero le orme l'erba del te il tepore del burro
La tua voce si cercava sempre a una soglia
Su di un limite sostando presso il verbo
Infinitamente vicina al suo svelarsi
Nella caducitá del proprio senso.
genseki
Agua Mojada
Guardala come si divincola
Come cerca di sfuggire alla storia
Di rientrare a tentoni nello sguardo
Da cui era uscita in forma di certezza
In quello spazio tra corpo e consapevolezza
In cui ogni corpo appare come oscenamente triste
Per volersi separare dalla sua genericitá
Eddai! Guarda come si contorce, tutta bagnata
porta qua quegli stracci, le orecchie, i tasselli
Porta qua, svelto prima che piova
Anzi, guarda che sta giá piovendo come
Quando eri bambino ad Ormea e la pioggia
Si porta via la neve sporca, la neve che non è piú bianca ma è sporca
E la pioggia se la porta via la porta via nei tombini
Sotto terra la neve bianca ma sporca sotto la terra nera
Piange e la pioggia cade sulla pioggia
Strato di pioggia su strato di pioggia
E lo sguardo cade sullo sguardo
Strato di sguardo su strato di sguardo
E la storia cade sulla storia strato a strato di storia
Fino a coprire lo sguardo della sua ignominia
E inutilmente si divincola si scuote scampana
Strilla come acqua su acqua la storia
La storia si scioglie nel tempo
genseki
Come cerca di sfuggire alla storia
Di rientrare a tentoni nello sguardo
Da cui era uscita in forma di certezza
In quello spazio tra corpo e consapevolezza
In cui ogni corpo appare come oscenamente triste
Per volersi separare dalla sua genericitá
Eddai! Guarda come si contorce, tutta bagnata
porta qua quegli stracci, le orecchie, i tasselli
Porta qua, svelto prima che piova
Anzi, guarda che sta giá piovendo come
Quando eri bambino ad Ormea e la pioggia
Si porta via la neve sporca, la neve che non è piú bianca ma è sporca
E la pioggia se la porta via la porta via nei tombini
Sotto terra la neve bianca ma sporca sotto la terra nera
Piange e la pioggia cade sulla pioggia
Strato di pioggia su strato di pioggia
E lo sguardo cade sullo sguardo
Strato di sguardo su strato di sguardo
E la storia cade sulla storia strato a strato di storia
Fino a coprire lo sguardo della sua ignominia
E inutilmente si divincola si scuote scampana
Strilla come acqua su acqua la storia
La storia si scioglie nel tempo
genseki
Carne Manzottin
Il Duca detto anche lo Spadaro
Si dice, nelle piole dei borghi prossimi, che a Scoriosozzo qualcuno pur visse - , sussurró il comissario Fabro appoggiandosi rumorosamente alla spalliera della vecchia sedia - un tal Buca o Duca detto Spadaro, di lui poco si sa, se non che vegetava e ingrassava accanto alla stufa inebetito dalla televisione. Si dice che en tenesse accesa piú d'una contemporaneamente, en possedeva, pare, varie decine, e scendesse alla pianura in contate occasioni con una vecchia carretta dal bagagliaio pieno di scatolette di carne manzottin. Tutti nella valle e nella pianura hanno visto qualche volta un catorcio sudicio pieno di scatolette di carne manzottin. Sembra che la carne manzottin non la abbia mai tirata fuori dal bagagliaio. Perché teneva il bagagliaio zeppo di scatole di carne manzottin? Lermita, dica sinceramente, lei ha mai aperto nella sua vita una scatola di carne manzottin, en ha mai gustato il contenuto? - Comissario che cosa vuole da me? Risposi in un tono accentuato di stizza annoiata. - Non la prenda cosí caro Lermita, soltanto voglio che condivida con me questo esperimento – e, dopo aver goffamente frugato nelle tascone della deformata giacca di fustagno giallino che un tempo era forse stata arancione, gonfiate da una intera collezione di grandi mandilli stropicciati che dovevano aver raccolto e seccato intere secchiate di sudore commissarile, en trasse una scatoletta di carne manzottin, infilando l'indice nell'apposito anello con la cautela e il rispetto con cui il giovane sposo infila l'anello nuziale al dito della snella fanciulla davanti all'altare adornato di gigli, anche se in questo caso la manovra era all'inverso giacché si trattava di infilare l'anello nel dito e non il dito dell'anello di modo che non potevo fare a meno di pensare ad un oscena parodia del sacramento, inscenata con sfacciatagine blasfema dal comissario Fabro, per inveterato liberopensantismo o per studiare quelche mia reazione per qualche sua misteriosa ragione, aprí il contenitore metallico, e con l'altra mano rovesció il suo contenuto rosa e gelatinoso in un piattino celeste che il solerte cameriere, a un suo cenno imperioso gli aveva testé recato. I frammenti di carne rosa sfumavano nel grigio torbido della gelatina che verso l'esterno del cilindro, di cui aveva assunto per compressione la forma, andavano acquistando una tonalitá giallina, filamenti sopravissuti ad una soprannaturale macelleria in una nebbia solidificata, tutto il cieco orrore della realtá mi strinse la gola in una morsa ferrea, soffocavo, l'insensatezza impenetrabile dell'essere tremava come un cuore sfiancato negli ultimi battiti rosa dei filamenti che si dibattevano nella loro gelatina; Fabro trasse dal viluppo dei mandilli il suo opinello con cui divise esattamente in due la massa che ai miei occhi pareva palpitante, per un attimo pensai che i frammenti di carne trasformati in pseudopodi schizzassero verso i miei occhi e mi penetrassero nel cervello per succhiarmi quello che mi restava di autocoscienza – Che cosa le succede Lermita? - La voce di Fabro mi liberó da quell'incubo, i filamenti rientrarono nella gelatina e i miei occhi nelle loro orbite. Fabro mi stava offrendo nel piattino azzurro una metá della carne, l'altra meta la stava giá rumorosamente masticando lui, vincendo il ribrezzo con uno sforzo sovrumano la inghiottii anch'io a bocconcini. Perché il Duca Spadaro girava per la valle con il bagagliaio pieno di scatole di carne manzottin? Vi era un qualche legame tra Duca Spadaro e Dreiser Cazzaniga? La carne manzottin aveva qualche cosa a che fare con la morte di Dreiser Cazzaniga? Io en avevo mangiato un pezzo e non ero morto li per li. La carne manzottin era un segnale, un messaggio, una domanda? Dreiser Cazzaniga en conosceva la risposta e per questo doveva essere messo a tacere?
Si dice, nelle piole dei borghi prossimi, che a Scoriosozzo qualcuno pur visse - , sussurró il comissario Fabro appoggiandosi rumorosamente alla spalliera della vecchia sedia - un tal Buca o Duca detto Spadaro, di lui poco si sa, se non che vegetava e ingrassava accanto alla stufa inebetito dalla televisione. Si dice che en tenesse accesa piú d'una contemporaneamente, en possedeva, pare, varie decine, e scendesse alla pianura in contate occasioni con una vecchia carretta dal bagagliaio pieno di scatolette di carne manzottin. Tutti nella valle e nella pianura hanno visto qualche volta un catorcio sudicio pieno di scatolette di carne manzottin. Sembra che la carne manzottin non la abbia mai tirata fuori dal bagagliaio. Perché teneva il bagagliaio zeppo di scatole di carne manzottin? Lermita, dica sinceramente, lei ha mai aperto nella sua vita una scatola di carne manzottin, en ha mai gustato il contenuto? - Comissario che cosa vuole da me? Risposi in un tono accentuato di stizza annoiata. - Non la prenda cosí caro Lermita, soltanto voglio che condivida con me questo esperimento – e, dopo aver goffamente frugato nelle tascone della deformata giacca di fustagno giallino che un tempo era forse stata arancione, gonfiate da una intera collezione di grandi mandilli stropicciati che dovevano aver raccolto e seccato intere secchiate di sudore commissarile, en trasse una scatoletta di carne manzottin, infilando l'indice nell'apposito anello con la cautela e il rispetto con cui il giovane sposo infila l'anello nuziale al dito della snella fanciulla davanti all'altare adornato di gigli, anche se in questo caso la manovra era all'inverso giacché si trattava di infilare l'anello nel dito e non il dito dell'anello di modo che non potevo fare a meno di pensare ad un oscena parodia del sacramento, inscenata con sfacciatagine blasfema dal comissario Fabro, per inveterato liberopensantismo o per studiare quelche mia reazione per qualche sua misteriosa ragione, aprí il contenitore metallico, e con l'altra mano rovesció il suo contenuto rosa e gelatinoso in un piattino celeste che il solerte cameriere, a un suo cenno imperioso gli aveva testé recato. I frammenti di carne rosa sfumavano nel grigio torbido della gelatina che verso l'esterno del cilindro, di cui aveva assunto per compressione la forma, andavano acquistando una tonalitá giallina, filamenti sopravissuti ad una soprannaturale macelleria in una nebbia solidificata, tutto il cieco orrore della realtá mi strinse la gola in una morsa ferrea, soffocavo, l'insensatezza impenetrabile dell'essere tremava come un cuore sfiancato negli ultimi battiti rosa dei filamenti che si dibattevano nella loro gelatina; Fabro trasse dal viluppo dei mandilli il suo opinello con cui divise esattamente in due la massa che ai miei occhi pareva palpitante, per un attimo pensai che i frammenti di carne trasformati in pseudopodi schizzassero verso i miei occhi e mi penetrassero nel cervello per succhiarmi quello che mi restava di autocoscienza – Che cosa le succede Lermita? - La voce di Fabro mi liberó da quell'incubo, i filamenti rientrarono nella gelatina e i miei occhi nelle loro orbite. Fabro mi stava offrendo nel piattino azzurro una metá della carne, l'altra meta la stava giá rumorosamente masticando lui, vincendo il ribrezzo con uno sforzo sovrumano la inghiottii anch'io a bocconcini. Perché il Duca Spadaro girava per la valle con il bagagliaio pieno di scatole di carne manzottin? Vi era un qualche legame tra Duca Spadaro e Dreiser Cazzaniga? La carne manzottin aveva qualche cosa a che fare con la morte di Dreiser Cazzaniga? Io en avevo mangiato un pezzo e non ero morto li per li. La carne manzottin era un segnale, un messaggio, una domanda? Dreiser Cazzaniga en conosceva la risposta e per questo doveva essere messo a tacere?
Tristano Lermita
sabato, gennaio 22, 2011
Prima del grande urto
Avrei voluto averti conosciuta
Prima di addormentarmi nella macchina
Di addormentarmi davanti al palmizio
E il rombo poi e tutto quello sfacelo
E il gusto di bile nella bocca e di zinco
E le lacrime della carne come stille
Di rimorso quando ti caddero le forbici dal grembo
E i miei occhi si fecero porosi
Al potassio, al silicio del tuo ventre
Avrei voluto conoscerti prima del grande urto
Prima della voce roca prima della cassa toracica
Della fiera affamata, del pietrificarsi della fiamma nel focolare
Tra stemmi de emblemi avrei voluto conoscerti
Elevando il tuo fiato ad orifiamma
I tuoi occhi a guizzo di tromba il tuo dolore
Come la volpe in fuga si sarebbe nascosto tra le felci
la mia polvere si sarebbe deposta
Sui tuoi scaffali, sui tuoi guanciali come nel sogno
Del gatto che dorme ora sul raso e ti conserva
per se e per me in possibile memoria.
genseki
Prima di addormentarmi nella macchina
Di addormentarmi davanti al palmizio
E il rombo poi e tutto quello sfacelo
E il gusto di bile nella bocca e di zinco
E le lacrime della carne come stille
Di rimorso quando ti caddero le forbici dal grembo
E i miei occhi si fecero porosi
Al potassio, al silicio del tuo ventre
Avrei voluto conoscerti prima del grande urto
Prima della voce roca prima della cassa toracica
Della fiera affamata, del pietrificarsi della fiamma nel focolare
Tra stemmi de emblemi avrei voluto conoscerti
Elevando il tuo fiato ad orifiamma
I tuoi occhi a guizzo di tromba il tuo dolore
Come la volpe in fuga si sarebbe nascosto tra le felci
la mia polvere si sarebbe deposta
Sui tuoi scaffali, sui tuoi guanciali come nel sogno
Del gatto che dorme ora sul raso e ti conserva
per se e per me in possibile memoria.
genseki
Rimorsi
Per tanti anni ho pascolato i miei rimorsi
Alla falda dei tuoi capelli, dimentico
Che nel mondo c'erano ancora nuvole,
Che il ghiaccio continuava a fiorire dal granito
I miei rimorsi li ho nutriti di verbena,
Di rucola, di erba cipollina, ma erano i tuoi capelli
Il loro orizzonte, la tua chioma screpolata e lisa
Il suo odore di acquaragia e nei giorni di festa
Di pinosilvestrevidal.
Neppure il rimorso piú piccolo ho voluto
Lasciarlo preda dei denti, l'ho stretto al petto
Come un tumore, come un ratto lo ho coccolato
E intanto crescevano i tuoi capelli, fino ai larici
Fino al pino mugo gemevano nella brina
Come steli spezzati, gocciolavano appena
Spruzzati di notte a ricordarmi quanto fosse
Pieno, il nostro niente ardente di tanto dolore
E il rimorso un ricorso prudente di fronte
A tutto il male che ci univa nella comune abiezione
Di animali infermi di parola, di verbo infetti
E di voce corrosa.
genseki
Alla falda dei tuoi capelli, dimentico
Che nel mondo c'erano ancora nuvole,
Che il ghiaccio continuava a fiorire dal granito
I miei rimorsi li ho nutriti di verbena,
Di rucola, di erba cipollina, ma erano i tuoi capelli
Il loro orizzonte, la tua chioma screpolata e lisa
Il suo odore di acquaragia e nei giorni di festa
Di pinosilvestrevidal.
Neppure il rimorso piú piccolo ho voluto
Lasciarlo preda dei denti, l'ho stretto al petto
Come un tumore, come un ratto lo ho coccolato
E intanto crescevano i tuoi capelli, fino ai larici
Fino al pino mugo gemevano nella brina
Come steli spezzati, gocciolavano appena
Spruzzati di notte a ricordarmi quanto fosse
Pieno, il nostro niente ardente di tanto dolore
E il rimorso un ricorso prudente di fronte
A tutto il male che ci univa nella comune abiezione
Di animali infermi di parola, di verbo infetti
E di voce corrosa.
genseki
Un'altra Melisande
Ancora su Melisanda si distende il pensiero
Avvinto dalla sua natura vegetale,
Dal suo pullulare e germogliare dal susurro
Che sono le sue parole, la memoria radicale
Non sa di luoghi la sua tensione è atopica
Si sviluppa sempre come dentro se stessa
Per questo e solo per questo la chioma, rossa,
O aranciata è mistica imitazione dell'acqua
Ovazione al multiple frullo di tanti uccelli
Tutti vorrebbero bere dai suoi capelli
Io vorrei bere dai suoi capelli
La conoscenza liquida dello sprofondare in verticale
Nel corpo terroso ehe ci modella.
Il vero abbraccio è abbraccio di acqua e terra
Il solo amplesso in cui tutto si trasforma
Nella prossimitá del senza forma.
O Melisanda che non hai dato frutto
Ma solo chioma e rami d'etere e cromo
Nei pozzi rabbrividiva in te l'estraneitá
Gelida dei cieli, delle loro metalliche distanze
Ma lo spazio era nulla al tuo narcotizzante germinare
Le tue parole ti ricoprivano come corteccia.
*
genseki
Avvinto dalla sua natura vegetale,
Dal suo pullulare e germogliare dal susurro
Che sono le sue parole, la memoria radicale
Non sa di luoghi la sua tensione è atopica
Si sviluppa sempre come dentro se stessa
Per questo e solo per questo la chioma, rossa,
O aranciata è mistica imitazione dell'acqua
Ovazione al multiple frullo di tanti uccelli
Tutti vorrebbero bere dai suoi capelli
Io vorrei bere dai suoi capelli
La conoscenza liquida dello sprofondare in verticale
Nel corpo terroso ehe ci modella.
Il vero abbraccio è abbraccio di acqua e terra
Il solo amplesso in cui tutto si trasforma
Nella prossimitá del senza forma.
O Melisanda che non hai dato frutto
Ma solo chioma e rami d'etere e cromo
Nei pozzi rabbrividiva in te l'estraneitá
Gelida dei cieli, delle loro metalliche distanze
Ma lo spazio era nulla al tuo narcotizzante germinare
Le tue parole ti ricoprivano come corteccia.
*
genseki
La tua voce
No, la tua voce non la trovi nella poesia
Non risuona nel gioco delle vibranti
Liquida come il guizzo della lingua
Nel sogno torrenziale del bacio,
Di quel bacio, o di quel petalo
La tua voce non si spezza qui in inflessioni
Di edera e di felce elastiche come il passo
Di una mattina elegante correndo in un parco alla moda
Tra scoiattoli e tepore non raschia l'intonaco
Non aderisce alla pietra come la lucertola agostana
Nel chiaroscuro del patio, non brilla nel fondo del pozzo
Come la corona di Melisanda
Non affoga avvolgendo come la cascata dei suoi capelli
Melisanda appartiene al mondo vegetale,
Esprime il desiderio della clorofilla
La tua voce furono forse le spine che la prefigurararono
O il luppolo scabroso e adesivo, ma certo sotto la sua pelle
Vellutata da pomice e borotalco
É l'animale che si tende nel sua salto verso la morte
La tua voce si faceva di malva e violetta
Aprendosi al mio goffo silenzio
Come il bosco al ricordo del temporale
Ma a stento contiene i brividi lo strazio
Degli artigli, la convulsione gemella della preda e del predatore
La tua voce non risale dalla profonditá della poesia
Fino a farsi coscienza della parola ma si acquatta nella sua morte
Come un bianco felino in una tana,
Madida e felpata, come la tua lingua di un altro bacio
...
Non risuona nel gioco delle vibranti
Liquida come il guizzo della lingua
Nel sogno torrenziale del bacio,
Di quel bacio, o di quel petalo
La tua voce non si spezza qui in inflessioni
Di edera e di felce elastiche come il passo
Di una mattina elegante correndo in un parco alla moda
Tra scoiattoli e tepore non raschia l'intonaco
Non aderisce alla pietra come la lucertola agostana
Nel chiaroscuro del patio, non brilla nel fondo del pozzo
Come la corona di Melisanda
Non affoga avvolgendo come la cascata dei suoi capelli
Melisanda appartiene al mondo vegetale,
Esprime il desiderio della clorofilla
La tua voce furono forse le spine che la prefigurararono
O il luppolo scabroso e adesivo, ma certo sotto la sua pelle
Vellutata da pomice e borotalco
É l'animale che si tende nel sua salto verso la morte
La tua voce si faceva di malva e violetta
Aprendosi al mio goffo silenzio
Come il bosco al ricordo del temporale
Ma a stento contiene i brividi lo strazio
Degli artigli, la convulsione gemella della preda e del predatore
La tua voce non risale dalla profonditá della poesia
Fino a farsi coscienza della parola ma si acquatta nella sua morte
Come un bianco felino in una tana,
Madida e felpata, come la tua lingua di un altro bacio
...
Scoriosozzo
Che cosa ci faceva Dreiser Cazzaniga nei boschi di Scoriosozzo, che cosa lo aveva spinto a recarsi alle pendici del Monte Mucrone, alle soglie alte e luminose della Melanopartene, che avvolta nei suoi sette mantelli rossi benediceva il dolore dei pellegrini accogliendoli uno a uno tra i pesanti panneggi per un tempo sempre molto breve ma che ai meschini pareva un'eternitá di muschiosa beatitudine? Era difficile rispondere anche e soprattuto ora che questa domanda non si poteva piú farla direttamente a lui. Il Commissario Fabro pensava che Dreiser Cazzaniga dovesse conoscere qualcuno nel paese di Scoriozozzo; la difficoltá, tuttavia, stava nel fatto che il pasello di Scoriozzozzo in realtá non esisteva, e non solo non esisteva, nemeno aveva abitanti, Scoriosozzo era solo il mortuario sogno massonico di una pallida e grassa borghesia pedemontana. Quello che avrebbe potuto sembrare un borgo pittoresco radicato solidamente nel tempo e nel granito grigio del costone era in realtá solo un incastro di villule ottocentesche dalle forme grottescamente iniziatiche, simboliche, egiziane, di quell'Egitto di cartapesta e tarocchi che tanto affascinava il grasso Schikaneder. Certo dopo piú di un secolo quei tristi manieri melodrammatici in cui il granito era impiegato per imitare la cartapesta e che poggiavano su creste e costoni anch'essi di granito avevano assunto un tale convinzione del loro ruolo nel paesaggio da far si che Scoriozozzo potesse apparire un borgo agli occhi del viandante e persino del villegiante se non fosse stato che non aveva abitanti, e se non aveva abitanti come poteva Dreiser Cazzaniga essere ospitato da uno di loro per essere poi assassinato? In realtá nella valle si diceva o meglio si mormorava che un abitante residesse in quel triste mondo sarastriano anche se solo pochi si azzardavano a pronunciare il suo nome: un tale Duca o Buca detto anche Tucano: grasso, grasso, grasso, con lo sguardo perso perennemente in una smorfia di meraviglia eravi che diceva averlo scorto intento a far provvista di legna sul Mucrone e su Serretto nell'iminenza dell'inverno rigido di Scoriozozzo. Mo dove viveva, nessuno pareva saperlo a volerlo rivelare. Comunque Tristano decise di seguire il lentissimo Fabro nella sua ricerca. Il borgo di Scoriosozzo non lo si poteva percorrere senza essere scossi da un certa inquietudine, le sue magioni altezzose rivelavano nel portamento che la loro origine non era nell'arroganza rapace e spensierata di una feroce aristocrazia alpina, adusa alla razzia e al gelo, ma nei costumi biedermeier di un opulenta e untuosa e tronfia e suina borghesia di pianura e della pianura piú stagnante del continente. Stagnante nel suo ottuso benessere, nella sua cultura cimiteriale, nei suo entusiasmi cadaverici, nella sua grossolana teosofia. Scoriosozzo non era un borgo era un sogno molesto che si era a tal punto aggrappato al granito e alle robuste radici dei faggi da aver acquistato le convincenti sembianze di una solida esistenza. Scoriosozzo lo faceva star male come una sonata di Schubert suonata dalla figlia scrofolosa di un industriale di pianura per i suoi compari di sfruttamento e stupro prima di andarsene tutti al bordello marocchino a sodomizzare le tredicenni, Non poteva sopportare di immaginare i salotti tivestiti di mogano in cui un tempo la luce proveniente da pomposi candelabri illuminava tremante i ritratti di antenati comprati al mercato dell'antiquariato a metri quadri.
Tristano Lermita
martedì, gennaio 18, 2011
La voce
No, la tua voce non la trovi nella poesia
Non risuona nel gioco delle vibranti
Liquida come il guizzo della lingua
Nel sogno torrenziale del bacio,
Di quel bacio, o di quel petalo
La tua voce non si spezza qui in inflessioni
Di edera e di felce elastiche come il passo
Di una mattina elegante correndo in un parco alla moda
Tra scoiattoli e tepore non raschia l'intonaco
Non aderisce alla pietra come la lucertola agostana
Nel chiaroscuro del patio, non brilla nel fondo del pozzo
Come la corona di Melisanda
Non affoga avvolgendo come la cascata dei suoi capelli
Melisanda appartiene al mondo vegetale,
Esprime il desiderio della clorofilla
La tua voce furono forse le spine che la prefigurararono
O il luppolo scabroso e adesivo, ma certo sotto la sua pelle
Vellutata da pomice e borotalco
É l'animale che si tende nel suo salto verso la morte
La tua voce si faceva di malva e violetta
Aprendosi al mio goffo silenzio
Come il bosco al ricordo del temporale
Ma a stento contiene i brividi lo strazio
Degli artigli, la convulsione gemella della preda e del predatore
La tua voce non risale dalla profonditá della poesia
Fino a farsi coscienza della parola ma si acquatta nella sua morte
Come un bianco felino in una tana,
Madida e felpata, come la tua lingua di un altro bacio
Non risuona nel gioco delle vibranti
Liquida come il guizzo della lingua
Nel sogno torrenziale del bacio,
Di quel bacio, o di quel petalo
La tua voce non si spezza qui in inflessioni
Di edera e di felce elastiche come il passo
Di una mattina elegante correndo in un parco alla moda
Tra scoiattoli e tepore non raschia l'intonaco
Non aderisce alla pietra come la lucertola agostana
Nel chiaroscuro del patio, non brilla nel fondo del pozzo
Come la corona di Melisanda
Non affoga avvolgendo come la cascata dei suoi capelli
Melisanda appartiene al mondo vegetale,
Esprime il desiderio della clorofilla
La tua voce furono forse le spine che la prefigurararono
O il luppolo scabroso e adesivo, ma certo sotto la sua pelle
Vellutata da pomice e borotalco
É l'animale che si tende nel suo salto verso la morte
La tua voce si faceva di malva e violetta
Aprendosi al mio goffo silenzio
Come il bosco al ricordo del temporale
Ma a stento contiene i brividi lo strazio
Degli artigli, la convulsione gemella della preda e del predatore
La tua voce non risale dalla profonditá della poesia
Fino a farsi coscienza della parola ma si acquatta nella sua morte
Come un bianco felino in una tana,
Madida e felpata, come la tua lingua di un altro bacio
Confidenze al Comissario Fabro
Davanti a un bicchiere di Inferno e a un piatto rovente di polenta scunsa finí per riconoscere con il commissario Fabro che lui e Dreiser Cazzaniga avevano avuto molte conoscenze in comune. Si Jules Lapache lo aveva conosciuto anche lui, no, prima del suo sodalizio con Dreiser Cazzaniga, quando Jules Lapache aveva ancora la sua scorbutica centoventisette verde e il maglioncino azzurro a girocollo e forse lavorava ancora per la rateale Einaudi. Si fu al Barfranca che lo conobbe, pe via del progetto di una rivista a cui egli si diceva interessato, non non gli aveva mai comprato nessun libro, si, fu lui a dargli il nome di Dreiser Cazzaniga come un possibile cliente, Jules Lapache aveva giá tutti i denti marci, allora, ma questo non selo ricordava si ricordava solo il maglioncino a girocollo, Po Jules e Dreiser Cazzaniga cominciarono a rassomigliarsi ogn giorno di piú solo che Dreiser Cazzaniga andava in bicicletta con lo zaino e ogni tanto i capelli se li lavava. Il commissario Fabro continuava con le sue domande, come se non avesse niente di meglio da fare, mentre con le ditona grasse girava le pagine di una gazzetta dello sport sudicia e piena di cerchietti vinosi. No la sorella di Jules non l'aveva proprio mai vista, no quella con cui viveva non era la sorella! Jules Lapache non era un alcolizzato, non aveva ammazzato nessuno, non aveva un tesoro nascosto, faceva ringhiare le donne che incontrava come mastine, tutte, quasi tutte, con lui ringhiavano, non avevano paura di lui, verso di lui provavano qualche cosa che aveva punti in comune con la paura ma soprattutto con la voglia di dilaniare con i denti carni giá infette, di sporcarsi le labbra con sangue stagnante e di lecarsele poi e di ululare, dopo aver ringhiato il ringhio piú ndo e scabbioso che femmina del totem dello sciacallo avessa mai potuto ringhiare da quando la luna era verde e baciava sulla bocca, una per uno tutte le sue fedeli cacciatrici. Gli avrebbero morso volentieri gli stinchi rinsecchiti a stento ricoperti da qui calzettini rigidi e verdevinosi che dovevano puzzare deliziosamente. Ma lui non sembrava temerle, le affrontava con una voce soffice soffice e esibiva con loro il suo odio per la vita, che era un odio contadino, l'odio di una lucertola sul muro, un odio cresciuto nell'odore del verderame e del letame nella disperazione della masturbazione dietro la gabbia dei conigli. Si e Dreiser Cazzaniga non si accorgeva di andar rassomigliandosi, di tentare di imitarlo anche se lui le ragazze non le faceva ringhiare, anzi! E cosí si convertiva in un enigma, un enigma appassionato che attraeva odi impotenti, tanto impotenti da restare in gran parte inespressi. Dreiser Cazzaniga e Jules Lapache divennero enigma e paria del borgo e della provincia eppure con loro tutte le armi restavano spuntate, nulla avrebbe potuto ferirli. Dreiser Cazzaniga, allora si mangiava le unghie.
Commissario lei pensa che l'abbiano assassinato?
genseki
Commissario lei pensa che l'abbiano assassinato?
genseki
lunedì, gennaio 17, 2011
Breton su Achim von Arnim - Parte II
Bisogna anche notare come egli si tenne sempre lontano dai fratelli Schlegel. Un simile atteggiamento, che credo deliberato, implica, in questo momento da parte di Arnim, un'adesione senza riseve alle tesi di Fichte, nell'amplissima misura in cui, , oggetto delle piú costanti polemiche e delle piú vilente, esse costatemente difendono i diritti della Ragione e della Critica in quanto epsressioni della filosofia della Riforma e della Rivoluzione. Per togliere qualsiasi dubbio sulla chiarezza e la nettezza di questa adesione basterebbe portare una testimonianza del 1811, ovvero l'anno della pubblicazione di Isabelle d'Egitto e che proprio in quell'epoca acquisisce tutto il suo valore: “Per piú di un ascoltatore, studente o no, le conferenze di Fichte, come lo sotolinea Achim von Arnim, sostituivano quella che fu la religione della Chiesa”.
Cosí ecco come riesce a svilupparsi, non senza momenti di grande effervescenza e frequenti ritorni allo scrupolo, in uno dei cervelli meglio organizzati del principio del XIX secolo, e,non bisogna dimenticrlo, un cervello essenzialmente poetico, la notevole situazione in cui si trova lo spirito, conteso, allora in modo piú evidente che mai, tra le forze del progresso e quelle regressive. Un'alleanza che richiama l'attenzione e che nella storia è raramente cosciente di se stessa anche se la possiamo definire eterna tende a porre nello stesso campo i poeti, gli artisti e gli scenziati che sanno valutare il valore ell'iluminaione che si produce a grandi intervalli a traverso di loro e ammettere che vi è qualche cosa al di lá di essa, non fose altro che la notte.. Da qui a voler rendere ancora piú oscura la notte non vi è che un passo, come lo testimonia Schelling quando si mise in testa di attirare verso la sua folosofia l'approvazione dei romantici preconizzando un ritorno del misticismo e infeudando la scinza all'arte quando dichiaró che: “entrambe dovevano finalmente coincidere, quando a scienza avrá risolto il suo problema, e certo lo risolverá, come l'arte ha giá risolto per sempre il suo (sono io che lo sottolineo”.
Nell'altro campo, raggruppati attorno a Fichte come piú tardi lo saranno attorno a Hegel si radunavano i partigiani dell'illuminismo e tra di loro è essenziale riconosce, a partire a questo istante Achim von Arnim. Effettivamente è proprio questa congiuntura e questa soltanto che ci fa capire il rimorso di Brentano, verso la fine della sua vita, che si accusa, lui che doveva morire monaco, d'avere favorito il matrimonio di sua sorella con arnim: “Son io” - dice: “ che po condussi da Bettina e cosí la consegnai alla letteratura, ai filosofi, alla Giovin Germania; è colpa mia se ella non ha piú religione”. de è ancora questa congiuntura che ci spiega come l'opera di Arnim, la cui fantasia è la piú abbagliante della sua epoca, non incorre nel giudizio che si puó su gran parte della letteratura romantic tedesca e che si esprime a mio giudizio con un'autorevolezza incomparabile, in questa critica di Hegel a proposito di Enrico di Ofterdingen romanzo cosí nebuloso di Novalis: “Il giovane autore si è lasciato trascinare da una prima brillante invenzone, ma non si è reso conto di quanto una simile concezione sia difettosa, precisamente per essere irrealizzabile. Le figure incorporee e le situazioni vuote sfuggono sepre alla realtá in cui dovrebbero inserirsi, invece, se prtendessero di avere una qualche realtá”. Nulla di cosí arbitrario, vago, irrisolto in Arnim. sono ben sicuro, avendoli riletti molte volte, che nei racconti che seguono non è stato commesso il benché minim abuso di fiducia, salvo l'iniziativ che consiste nel mettere in circolazione e in relazione esseri liberati fin dove è possibile dalla convenzione di presentarsi nella loro essenza e comportamento com esseri vivi. Una volta acconsentito ad entrare in scena, questi esseri si comportano con una naturalezza e, si potrebbe dire, un coraggiodi cui non saprei trovare l'eqivalente nelle creazioni di qualche altro narratore. E dicendo questo, non penso solo a Hoffmann e a i suoi “diavoli” di paccotiglia, tra cui un sedicente golem venuto dopo quello di arnim e che solo en è una grossolana contraffazione, Sono davvero oggetti di perfetta illusione che spingono la civetteria fino a sembrar sottrarsi alla volontá dell'autore, in modo tale che costui, come se sfuggisse ad ogni contagio romantico, assume al loro lato l'aspetto di un osservatore impersonale.
Cosí ecco come riesce a svilupparsi, non senza momenti di grande effervescenza e frequenti ritorni allo scrupolo, in uno dei cervelli meglio organizzati del principio del XIX secolo, e,non bisogna dimenticrlo, un cervello essenzialmente poetico, la notevole situazione in cui si trova lo spirito, conteso, allora in modo piú evidente che mai, tra le forze del progresso e quelle regressive. Un'alleanza che richiama l'attenzione e che nella storia è raramente cosciente di se stessa anche se la possiamo definire eterna tende a porre nello stesso campo i poeti, gli artisti e gli scenziati che sanno valutare il valore ell'iluminaione che si produce a grandi intervalli a traverso di loro e ammettere che vi è qualche cosa al di lá di essa, non fose altro che la notte.. Da qui a voler rendere ancora piú oscura la notte non vi è che un passo, come lo testimonia Schelling quando si mise in testa di attirare verso la sua folosofia l'approvazione dei romantici preconizzando un ritorno del misticismo e infeudando la scinza all'arte quando dichiaró che: “entrambe dovevano finalmente coincidere, quando a scienza avrá risolto il suo problema, e certo lo risolverá, come l'arte ha giá risolto per sempre il suo (sono io che lo sottolineo”.
Nell'altro campo, raggruppati attorno a Fichte come piú tardi lo saranno attorno a Hegel si radunavano i partigiani dell'illuminismo e tra di loro è essenziale riconosce, a partire a questo istante Achim von Arnim. Effettivamente è proprio questa congiuntura e questa soltanto che ci fa capire il rimorso di Brentano, verso la fine della sua vita, che si accusa, lui che doveva morire monaco, d'avere favorito il matrimonio di sua sorella con arnim: “Son io” - dice: “ che po condussi da Bettina e cosí la consegnai alla letteratura, ai filosofi, alla Giovin Germania; è colpa mia se ella non ha piú religione”. de è ancora questa congiuntura che ci spiega come l'opera di Arnim, la cui fantasia è la piú abbagliante della sua epoca, non incorre nel giudizio che si puó su gran parte della letteratura romantic tedesca e che si esprime a mio giudizio con un'autorevolezza incomparabile, in questa critica di Hegel a proposito di Enrico di Ofterdingen romanzo cosí nebuloso di Novalis: “Il giovane autore si è lasciato trascinare da una prima brillante invenzone, ma non si è reso conto di quanto una simile concezione sia difettosa, precisamente per essere irrealizzabile. Le figure incorporee e le situazioni vuote sfuggono sepre alla realtá in cui dovrebbero inserirsi, invece, se prtendessero di avere una qualche realtá”. Nulla di cosí arbitrario, vago, irrisolto in Arnim. sono ben sicuro, avendoli riletti molte volte, che nei racconti che seguono non è stato commesso il benché minim abuso di fiducia, salvo l'iniziativ che consiste nel mettere in circolazione e in relazione esseri liberati fin dove è possibile dalla convenzione di presentarsi nella loro essenza e comportamento com esseri vivi. Una volta acconsentito ad entrare in scena, questi esseri si comportano con una naturalezza e, si potrebbe dire, un coraggiodi cui non saprei trovare l'eqivalente nelle creazioni di qualche altro narratore. E dicendo questo, non penso solo a Hoffmann e a i suoi “diavoli” di paccotiglia, tra cui un sedicente golem venuto dopo quello di arnim e che solo en è una grossolana contraffazione, Sono davvero oggetti di perfetta illusione che spingono la civetteria fino a sembrar sottrarsi alla volontá dell'autore, in modo tale che costui, come se sfuggisse ad ogni contagio romantico, assume al loro lato l'aspetto di un osservatore impersonale.
Trad genseki
Vecchie fotografie
Fu in una vecchia foto che ti ritrovai
Con le mani gonfie appoggiate al comodino
E la gonnellina nera del lutto di un altro fratellino
Morto prima di piangere, un fiore secco
Nel libro da messa e i mandorli fioriti
Nel cassetto della biancheria, il padre
Era un ingegnere con tanto di baffi,
Odore di treno e di cuoio e gli occhi
Con un germano dentro che volava
Nel mattino di Novembre su quel fiume
Che finiva per disfarsi nella cittá vecchia
Ubriaco di tannino e lisciva, il fiume,
Non il padre che faceva saltare il granito
Con il solo tuono degli occhi che beveva il tuorlo
Da un forellino e puzzava di ozono, di grasso di foca
Come un calafato e tu pregavi per lui, nella foto
Lo immaginavi tra tutte quelle vele
Accanto alla madonna ovale, e le funi
E abbassavi gli occhi e ti guardavi le scarpe
Entravi in un'altra foto dove eri nuda
Con i riccioli neri, le mani appoggiate ad una colonnina dorica
E si vedeva che puzzavi come un'oca
Prima di essere decapitata e come un'oca eri bianca
E ti guardavi i piedi senza vederli
E tuo padre sul ponte regolava funi e vele
Perforava il mare con i suoi tunnel di ghiaccio
Entrava con un tuono in antartide
Piantava la sua picozza su un iceberg
Poi con una stampella entravi in un'altra foto
Ti gettavi sotto la ruota del treno
E la Vergine dal suo uovo azzurro
Ti fulminava con i suoi raggi azzzurri
E tu ti allontanavi dai binari con una gamba in mano
La gonnellina da scolaretta delle monache
Spruzzata di sangue e ti fermavi a parlare con le chiocciole
Del gusto del cavolfiore e della cucina azzurra della vergine
Poi entravi in un'altra foto
In una successione di specchi e la Vergine
Ti sorrideva mentre ti guardavi i piedi
Pelavi le carote lavavi le sottane gettavi mangime ai granchi
Era la Vergine del Gelo, gelosa del padre,
La Vergine delle grotte che spiava l'ingegnere
Che tendava tranelli alla sua dinamite
Era la Vergine Ossidata
Quella che vive nell'abisso di una cascata di specchi
La vedi appena dietro il tuo volto piú sfocato
Dove hai le lentiggini e i capelli rossi
E i capelli neri unti e luminosi nello specchio di bronzo
Acqua di stagno come gli occhi dell'assassino
Ti fissi i piedi, ti sfoglia come una rosa,
E getta ogni petalo in un'altra foto
Alla Vergine della Primavera.
*
Con le mani gonfie appoggiate al comodino
E la gonnellina nera del lutto di un altro fratellino
Morto prima di piangere, un fiore secco
Nel libro da messa e i mandorli fioriti
Nel cassetto della biancheria, il padre
Era un ingegnere con tanto di baffi,
Odore di treno e di cuoio e gli occhi
Con un germano dentro che volava
Nel mattino di Novembre su quel fiume
Che finiva per disfarsi nella cittá vecchia
Ubriaco di tannino e lisciva, il fiume,
Non il padre che faceva saltare il granito
Con il solo tuono degli occhi che beveva il tuorlo
Da un forellino e puzzava di ozono, di grasso di foca
Come un calafato e tu pregavi per lui, nella foto
Lo immaginavi tra tutte quelle vele
Accanto alla madonna ovale, e le funi
E abbassavi gli occhi e ti guardavi le scarpe
Entravi in un'altra foto dove eri nuda
Con i riccioli neri, le mani appoggiate ad una colonnina dorica
E si vedeva che puzzavi come un'oca
Prima di essere decapitata e come un'oca eri bianca
E ti guardavi i piedi senza vederli
E tuo padre sul ponte regolava funi e vele
Perforava il mare con i suoi tunnel di ghiaccio
Entrava con un tuono in antartide
Piantava la sua picozza su un iceberg
Poi con una stampella entravi in un'altra foto
Ti gettavi sotto la ruota del treno
E la Vergine dal suo uovo azzurro
Ti fulminava con i suoi raggi azzzurri
E tu ti allontanavi dai binari con una gamba in mano
La gonnellina da scolaretta delle monache
Spruzzata di sangue e ti fermavi a parlare con le chiocciole
Del gusto del cavolfiore e della cucina azzurra della vergine
Poi entravi in un'altra foto
In una successione di specchi e la Vergine
Ti sorrideva mentre ti guardavi i piedi
Pelavi le carote lavavi le sottane gettavi mangime ai granchi
Era la Vergine del Gelo, gelosa del padre,
La Vergine delle grotte che spiava l'ingegnere
Che tendava tranelli alla sua dinamite
Era la Vergine Ossidata
Quella che vive nell'abisso di una cascata di specchi
La vedi appena dietro il tuo volto piú sfocato
Dove hai le lentiggini e i capelli rossi
E i capelli neri unti e luminosi nello specchio di bronzo
Acqua di stagno come gli occhi dell'assassino
Ti fissi i piedi, ti sfoglia come una rosa,
E getta ogni petalo in un'altra foto
Alla Vergine della Primavera.
*
Enrique Lihn
Di tutte le possibili disperazioni quella della morte deve essere...
Tra tutte le disperazioni possibili quella della morte sembra essere la peggiore
E con esse la paura della morte, testa o croce
Quando ormai si puó prevedere il giorno e l'ora
Vi è anche la sgradevole probabilitá che la paura della morte e la disperazione siano
Inseparabili come unghia e carne normalmente
Ricordo un amico di un'altra epoca che fuggiva di notte dalla sua casa e dall'ospedale
Con il salvancodotto che si concederebbe a un dannato nell'inferno
E piombava in casa di qualche amica che non corrispondeva al suo amore
de esigeva con gli argomenti propri della follia
Che lo accogliesse in casa come un ospite fisso
Mi sembra di vedere come alla fine di quste conversazioni impossibili
Era riportato alla sua tana dalla signora e dal suo coniuge
In silenzio asoluto, lui, lo gnomo dell'alba nella foresta nera
Di ritorno alla sua anticasa
O alll'aeroporto degli ospedali perché non perdesse il suo volo.
Fuori tempo
Il nostro entusiasmo infiammava quei giorni che scorrono
Tra moltitudini di giorni eguali.
La nostra debolezze codificava in essi
la nostra ultima speranza.
Pensavamo e il tempo che non avrebbe prezzo
Se en andava poveramente
E questi, sono, insomma, gli anni che verranno.
Proprio ora avremmo risolto tutto
Avevamo tutta la vita davanti.
La cosa migliore da fare era non aver fretta.
*
Se si deve scrivere correttamente poesiaNon basta sentirsi venir meno nel giardino
Sotto il peso combinato dell'anima o quel che l'è
E del celebre crepuscolo o quel che l'è.
Il cuore è povero di vocabolario.
Il suo labirinto: un gioco per ritardati
In cui fa ridere vederlo muoversi come un bue
Un lettore integrale di romanzi a fascicoli.
Fin dal momento in piglia il violino
Nemmeno fosse il valzer triste di Sibelius
Resta nella sala che va riempiendosi di tango.
Salo le dovute eccezioni le poetesse uruguayane
Confondono ancora la poesia con il ballo
In una morbosa sala da gioco,
Oppure la confondono con il sesso o la confondono con la morte.
Se si debe scrivere correttamente poesia
Bisogna comunque prendersela con calma.
Prima di tutto: sedersi a maturare.
L'odio prematuro per la letteratura
Puó servire per non passare da buliccio nell'esercito
Ma proprio Rimbaud
Che diede prova del suo odio fu topo di bibloteca,
E la sua gloriosa nausea venne da tanto rosicare.
Si gioca a scacchi
Con le parole per ululare.
Equilibrio instabile di inchiostro e sangue
Che devi mantenere da un verso all'altro
Sotto pena de romperti le scatole dell'anima.
Morte, follia e sogno son altrettanti pezzi
Di avorio o di corno o giu di li;
L'importante è spostarli nel giardino a quadretti
In modo che il pedone che balla con la regina
Non gli perdoni il minor passo falso.
Coloro che insistono nel chiamare le cose con il loro nome
Come se fossero chiare e semplicissime
Non fanno che coprirle di ornamenti.
Non le esprimono, girano intorno al dizionario,
Non usano il linguaggio,
Le chiamano per nome e loro rispondono ai loro nomi
ma si spogliano in luoghi oscuri.
Discorsi, orazioni, giochi da dopocena,
Tutte le cosucce che ci permettono di tirare avanti.
Se devi scrivere correttamente poesia
Non sarebbe male abbassare un po' il tono
Senza per questo cadere in un silenzio monolitico
Né decidersi per il mugugno.
È qualche cosa di simile a un pesce ciò che speriamo di pescare
Un tocco di vita, rapido, che si confonde con l'ombra
E non l'ombra vera e propria e neppure l'intero Leviatano.
È qualche cosa che vale la pena ricordare
Per una qualche ragione simile al nulla
Visto che non si tratta del nulla e neppure di tutto il Leviatano,
Non è precisamente una scarpa o una dentiera.
Tra tutte le disperazioni possibili quella della morte sembra essere la peggiore
E con esse la paura della morte, testa o croce
Quando ormai si puó prevedere il giorno e l'ora
Vi è anche la sgradevole probabilitá che la paura della morte e la disperazione siano
Inseparabili come unghia e carne normalmente
Ricordo un amico di un'altra epoca che fuggiva di notte dalla sua casa e dall'ospedale
Con il salvancodotto che si concederebbe a un dannato nell'inferno
E piombava in casa di qualche amica che non corrispondeva al suo amore
de esigeva con gli argomenti propri della follia
Che lo accogliesse in casa come un ospite fisso
Mi sembra di vedere come alla fine di quste conversazioni impossibili
Era riportato alla sua tana dalla signora e dal suo coniuge
In silenzio asoluto, lui, lo gnomo dell'alba nella foresta nera
Di ritorno alla sua anticasa
O alll'aeroporto degli ospedali perché non perdesse il suo volo.
Fuori tempo
Il nostro entusiasmo infiammava quei giorni che scorrono
Tra moltitudini di giorni eguali.
La nostra debolezze codificava in essi
la nostra ultima speranza.
Pensavamo e il tempo che non avrebbe prezzo
Se en andava poveramente
E questi, sono, insomma, gli anni che verranno.
Proprio ora avremmo risolto tutto
Avevamo tutta la vita davanti.
La cosa migliore da fare era non aver fretta.
*
Se si deve scrivere correttamente poesiaNon basta sentirsi venir meno nel giardino
Sotto il peso combinato dell'anima o quel che l'è
E del celebre crepuscolo o quel che l'è.
Il cuore è povero di vocabolario.
Il suo labirinto: un gioco per ritardati
In cui fa ridere vederlo muoversi come un bue
Un lettore integrale di romanzi a fascicoli.
Fin dal momento in piglia il violino
Nemmeno fosse il valzer triste di Sibelius
Resta nella sala che va riempiendosi di tango.
Salo le dovute eccezioni le poetesse uruguayane
Confondono ancora la poesia con il ballo
In una morbosa sala da gioco,
Oppure la confondono con il sesso o la confondono con la morte.
Se si debe scrivere correttamente poesia
Bisogna comunque prendersela con calma.
Prima di tutto: sedersi a maturare.
L'odio prematuro per la letteratura
Puó servire per non passare da buliccio nell'esercito
Ma proprio Rimbaud
Che diede prova del suo odio fu topo di bibloteca,
E la sua gloriosa nausea venne da tanto rosicare.
Si gioca a scacchi
Con le parole per ululare.
Equilibrio instabile di inchiostro e sangue
Che devi mantenere da un verso all'altro
Sotto pena de romperti le scatole dell'anima.
Morte, follia e sogno son altrettanti pezzi
Di avorio o di corno o giu di li;
L'importante è spostarli nel giardino a quadretti
In modo che il pedone che balla con la regina
Non gli perdoni il minor passo falso.
Coloro che insistono nel chiamare le cose con il loro nome
Come se fossero chiare e semplicissime
Non fanno che coprirle di ornamenti.
Non le esprimono, girano intorno al dizionario,
Non usano il linguaggio,
Le chiamano per nome e loro rispondono ai loro nomi
ma si spogliano in luoghi oscuri.
Discorsi, orazioni, giochi da dopocena,
Tutte le cosucce che ci permettono di tirare avanti.
Se devi scrivere correttamente poesia
Non sarebbe male abbassare un po' il tono
Senza per questo cadere in un silenzio monolitico
Né decidersi per il mugugno.
È qualche cosa di simile a un pesce ciò che speriamo di pescare
Un tocco di vita, rapido, che si confonde con l'ombra
E non l'ombra vera e propria e neppure l'intero Leviatano.
È qualche cosa che vale la pena ricordare
Per una qualche ragione simile al nulla
Visto che non si tratta del nulla e neppure di tutto il Leviatano,
Non è precisamente una scarpa o una dentiera.
Tristano Lermita
Incontro con Dreiser Cazzaniga
Ricordava di aver incontrato Dreiser Cazzaniga nel corso delle sue passeggiate novembrine, con la testa in fiamme e Carducci nel cuore. La sua percezione dell'autunno era profondamente carducciana per via della poesia imparata a memoria d'autunno, alle elementari e per il fatto che per la via che egli percorreva per andare a scuola davvero respirava l'aspro odore dei mosti e se non vi erano spiedi vi erano cacciatori di cinghiali, sugli usci, che non rimiravano il cielo ma si rimiravano le scarpe piene di fango, Insomma l'autunno lo viveva in un universo parallelo che chiamava Carducci, E fu in autunno che incontró Dreiser Cazzaniga sulla stradina di Santa Libera, prima che decidessero di asfaltarla, stradina che menava al mare attraverso un lunghissimo itinerario tra alte querce rosse. Dreiser Cazzaniga avanzava col passo di un ciccione che è profondamente convinto di essere magro. In generale si muoveva e gesticolava come qualcuno che fosse di colpo stato precipitato in un altro corpo e non se en fosse ancora reso conto, Dai suoi occhi tranquilli e acquosi sembrava guardare il mondo come se fossero intensi e fiammegianti, il sorriso dolce che modellava la sua bocca pareva che nascondesse una smorfia invisibile di annoiato disprezzo, le dita pallide e lunghisime le muoveva come se fossero tozze e brunite dal fuoco del lavoro e della lotta. La lunga barba castana e i capelli che scendevano formando abbozzi di anelli fino al collo sfiniti e unti sotto il rigido cappello nero gli conferivano un profilo vagamente giudaico. Scrutava pigramente il bosco in cerca di funghi, reggeva con la mano destra una copia dell'Orlando Furioso di Garzanti. Non sapeva chi fosse en come si chiamasse, venne a conoscenza del suo nome nel caffé del borgo mentre comprava un biglietto della corriera che scende verso il mare e trangugiava un caffé amaro e colloso. Lo rivide altra volte, anche in cittá, con i seguaci di Mastro Arrigo, con qualche prostituta ucraina biondissima e stupida, mentre entrava in una panetteria a comprare la focaccia. Dreiser Cazzaniga non aveva per lui nessun interesse e nulla faceva presagire che fosse destinato, proprio lui a incontrarne il cadavere in quel bosco di carpini epilettici alle pendici del monte mucrone con la testa appoggiata a un tronco coperto da uno spesso strato di Trametes Versicolor. Era Dicembre, Il monte Rosa lontano era solo un'idea traingolare, come era finito lassú quel corpo coperto da una giacca grunge, col basco ancora ficcato sulla testa calva e un paio di scarponi da muratore di cui no gli ea sfugitto dal piede? Restó a fissare il cadavere e si percepí di colpo come un leggero segugio giallo intento a fiutare le ascelle di quel morto. Poi si ricordó di Nastagio degli Onesti, di Botticelli, una donna nuda correva nel bosco in uno schianto secco di rami. Quando riaprí gli occhi e ritrovó la calma si accorse che il Commissario Fabro gli aveva appoggiato una mano sulla spalla.
Ricordava di aver incontrato Dreiser Cazzaniga nel corso delle sue passeggiate novembrine, con la testa in fiamme e Carducci nel cuore. La sua percezione dell'autunno era profondamente carducciana per via della poesia imparata a memoria d'autunno, alle elementari e per il fatto che per la via che egli percorreva per andare a scuola davvero respirava l'aspro odore dei mosti e se non vi erano spiedi vi erano cacciatori di cinghiali, sugli usci, che non rimiravano il cielo ma si rimiravano le scarpe piene di fango, Insomma l'autunno lo viveva in un universo parallelo che chiamava Carducci, E fu in autunno che incontró Dreiser Cazzaniga sulla stradina di Santa Libera, prima che decidessero di asfaltarla, stradina che menava al mare attraverso un lunghissimo itinerario tra alte querce rosse. Dreiser Cazzaniga avanzava col passo di un ciccione che è profondamente convinto di essere magro. In generale si muoveva e gesticolava come qualcuno che fosse di colpo stato precipitato in un altro corpo e non se en fosse ancora reso conto, Dai suoi occhi tranquilli e acquosi sembrava guardare il mondo come se fossero intensi e fiammegianti, il sorriso dolce che modellava la sua bocca pareva che nascondesse una smorfia invisibile di annoiato disprezzo, le dita pallide e lunghisime le muoveva come se fossero tozze e brunite dal fuoco del lavoro e della lotta. La lunga barba castana e i capelli che scendevano formando abbozzi di anelli fino al collo sfiniti e unti sotto il rigido cappello nero gli conferivano un profilo vagamente giudaico. Scrutava pigramente il bosco in cerca di funghi, reggeva con la mano destra una copia dell'Orlando Furioso di Garzanti. Non sapeva chi fosse en come si chiamasse, venne a conoscenza del suo nome nel caffé del borgo mentre comprava un biglietto della corriera che scende verso il mare e trangugiava un caffé amaro e colloso. Lo rivide altra volte, anche in cittá, con i seguaci di Mastro Arrigo, con qualche prostituta ucraina biondissima e stupida, mentre entrava in una panetteria a comprare la focaccia. Dreiser Cazzaniga non aveva per lui nessun interesse e nulla faceva presagire che fosse destinato, proprio lui a incontrarne il cadavere in quel bosco di carpini epilettici alle pendici del monte mucrone con la testa appoggiata a un tronco coperto da uno spesso strato di Trametes Versicolor. Era Dicembre, Il monte Rosa lontano era solo un'idea traingolare, come era finito lassú quel corpo coperto da una giacca grunge, col basco ancora ficcato sulla testa calva e un paio di scarponi da muratore di cui no gli ea sfugitto dal piede? Restó a fissare il cadavere e si percepí di colpo come un leggero segugio giallo intento a fiutare le ascelle di quel morto. Poi si ricordó di Nastagio degli Onesti, di Botticelli, una donna nuda correva nel bosco in uno schianto secco di rami. Quando riaprí gli occhi e ritrovó la calma si accorse che il Commissario Fabro gli aveva appoggiato una mano sulla spalla.
La tuta
La tuta, la sua parte superiore l'aveva comprata in autunno nell'umidissima Piazza dell'Aviatore, ora tutti lo avevano dimenticato, certo l'Aviatore non aveva piú discendenti, o questi si erano dispersi dimentichi della loro stirpe. Eppure era stata gran festa con la banda tutta ben lucidata e il maestro Orlando a scuotere pigramente la bacchetta come se la banda fosse stata di un altro e il cugino Tchenzo, quello che era rimasto sempre giovane e che provava il suono dei freni delle locomotive a soffiare nel clarinetto che tutti credevano fosse il diminutivo di Clarino e il volo cerimonioso dei piccioni tra i tigli dorati sulla piazza della stazione e poi al ristorante con il Borgomastro, i cani, i monelli, i marinaretti e le comitive in bicletta. Tutto era stato dimenticato, in Piazza dell'Aviatore ci avevo comprato la tuta che presto divenne un umile talismano, una tuta da poche palanche, beige, e nera aveva il potere come tutti gli altri talismani che aveva raccolto come orfani del caso di conferire all'attimo la solennitá di un promessa che sarebbe stata mantenuta. L'aveva comprata in un negozio albanese che si chiamava KOLA MIT HAT. Parole che evocarono su due piedi un animale mitologico una specie di incartapecorita tarasca da guardaroba. In un misto di hispano-germano-albionico quel nome gli apparve come dotato incontrovertibilmente del seguente significato: la coda incontra il cappello, la coda con la testa (in un'altra possibile versione). Il serpente Ourobouro insomma, anche enza palindromo. Un talismano, un enigma, un animale mitologico bastavano a renderlo sicuro che nonostante tutto, nonostante la miseria l'abiezione e il ridicolo la vita doveva avere un senso, magari non serio e pomposo, magari secco e spelacchiato e un poco ammuffitto ma sempre un senso. La tuta la indossava da allora quando cercava dentro di se la povertá delle foglie di autunno.
Contro i pensieri neri
Contro i pensieri neri
Pensieri
Non neri pensieri
La loro relazione paradigmatica con la morte è una facile risorsa
Una cattiva metafora
I pensieri non piangono
Non compatiscono i loro oggetti
Nemmeno possono essere pensati come ausiliari della ragione
(Fourier non aveva poi torto quando annunciava la scienza della follía)
L'espropriato osserva che, nella prospettiva della morte, le cose
Forzate a occupare uno spazio limitato piuttosto che a fluire in un
Tempo amorfo suppostamente illimitato
Si ordinano come in un quadro di Mantegna
Mai prima si era visto cosí, al centro della scena
Come un santo con un leone ai suoi piedi
Non sono mai stato un santo e non addomesticai mai un leone
L'importante è il centro del quadro
Come lo vedo, come lo vedono
Nella prospettiva dell'equidistanza
il fatto di essere senza che questo sia un motivo di orgoglio
(Che orgoglio puó mai avere colui che sta per morire?)
Il centro di un piccolo sistema planetario
Al quale, in onore della chiarezza, manca una quarta dimensione
Il tempo, il punto cieco della prospettiva.
Enrique Lihn
Trad genseki
Pensieri
Non neri pensieri
La loro relazione paradigmatica con la morte è una facile risorsa
Una cattiva metafora
I pensieri non piangono
Non compatiscono i loro oggetti
Nemmeno possono essere pensati come ausiliari della ragione
(Fourier non aveva poi torto quando annunciava la scienza della follía)
L'espropriato osserva che, nella prospettiva della morte, le cose
Forzate a occupare uno spazio limitato piuttosto che a fluire in un
Tempo amorfo suppostamente illimitato
Si ordinano come in un quadro di Mantegna
Mai prima si era visto cosí, al centro della scena
Come un santo con un leone ai suoi piedi
Non sono mai stato un santo e non addomesticai mai un leone
L'importante è il centro del quadro
Come lo vedo, come lo vedono
Nella prospettiva dell'equidistanza
il fatto di essere senza che questo sia un motivo di orgoglio
(Che orgoglio puó mai avere colui che sta per morire?)
Il centro di un piccolo sistema planetario
Al quale, in onore della chiarezza, manca una quarta dimensione
Il tempo, il punto cieco della prospettiva.
Enrique Lihn
Trad genseki
La porta e il portatore
Barzakh, vi si entra seguendo, magari un portatore della chiave, io non en ho mai incontrati, di portatori di chiavi tranne forse quella splendida figliola finlandese che coccolava un gatto tra i due seni perfetti in una pizzzeria di Via Meravigli a Milano. Non la ho seguita peró. La siciliana amara di Bra che voleva che io gli restituissi la copia del quotidiano che mi aveva prestato, ma non una qualsiasi copia di quel quotidiano, proprio quella che mi aveva prestato, Io mentivo compulsivamente allora, e cercavo di entrare nel Mondo dei Significati attarverso le porte al fondo delle case, degli appartamenti, delle villette, delle camere di albergo. Ogni luogo abitabile, allora mi pareva la porta aperta sulla meraviglia di una vita possibile, si aprivano davanti a me inesauribili vite possibili e la pura vita possibile era per me una finestra aperta su un cortile triste, su un grande albero sporco, su una via poco frequentata a guardare la pioggia cadere per sempre un mattino di riposo ma non di festa, un mattino di sciopero o di alluvione o di incipiente guerra civile, insomma un mattino senza lavoro ma feriale, alla finestra che piove. Poi queste porte si sono chiuse, adesso sono scomparse e cerco dentro di me la meraviglia: percheggio il furgone sotto un albero, al fresco, in periferia, ragazzi zingari bruciano piramide di pneumatici e poi vi girano in torno con le moto che urlano pú del sole. Chiudo gli occhi e cerco la porta o il portatore nella paura che sale dentro di me e che come un'onda si solleva dentro di me e con sé mi porta oltre la soglia di Barzakh a Rue Fontaine 41
Enrique Lihn
Nel 1999, tornato dal Venezuela sognai che mi portavano alla casa dove viveva, allora, Enrique Lihn, in un paese che avrebbe potuto essere il Cile e in una cittá che avrebbe potuto essere Santiago, se pensaimo che il Cile e Santiago per un certo periodo furono simili all'inferno e che questa somiglianza, in qualche profonditá della cittá reale e della cittá immaginaria rimarrá
per sempre. Certo io sapevo che Enrique Lihn era già morto, tuttavia, quando mi invitarono a fare la sua conoscenza non mi opposi. Foprse pensai in uno scherzo di quelli che erano con me, tutti cileni, o forse in un miracole. Probabiolmente non pensai un bel niente, o non mi resi ben conto di quello che avevano detto.
...
Al principio lo ricobbi a stento, la sua faccia non era quella che appare nelle foto dei suoi libri, era dimagrito e ringiovanito, era piú bello, i suoi occhi erano migliori che quelli in biaco e nero della quarta di copertina. In relatá Lihn non sembrava Lihn, ormai quanto piuttosto uno di quegli attori di Hollywood di serie B che appaiono nei film che vanno subito in TV o che non passano mai nelle sale europee e entrano immediatamente nei videoclub. Comunque anche se non somigilia a se stesso Lihn era Lihn, non vi era alcun dubbio.
Roberto Bolaño
Incontro con Enrique Lihn
Trad genseki
Al principio lo ricobbi a stento, la sua faccia non era quella che appare nelle foto dei suoi libri, era dimagrito e ringiovanito, era piú bello, i suoi occhi erano migliori che quelli in biaco e nero della quarta di copertina. In relatá Lihn non sembrava Lihn, ormai quanto piuttosto uno di quegli attori di Hollywood di serie B che appaiono nei film che vanno subito in TV o che non passano mai nelle sale europee e entrano immediatamente nei videoclub. Comunque anche se non somigilia a se stesso Lihn era Lihn, non vi era alcun dubbio.
Roberto Bolaño
Incontro con Enrique Lihn
Trad genseki
Enrique Lihn
Ora davvero tu e io siamo piú lontani uno dall'altro
Che due stelle in galassie differenti.
Nessun astronomo mai riuscirá a vederci insieme
Nel suo vertiginoso campo visuale
Né il fotografo di cartagena davanti alla sua Polaroid
Cosí fu per sette anni infiniti
Le altre immagini sono nubi di memoria
Da questa e da quelle se ne è andata la vita.
Drive in
Sullo schermo si legge: è solo per te
La proiezione comincerebbe se finalmente ti adormentassi
Se non fosse perché, a volte, per fortuna, la perdi
Vai al cinema da solo
Sei solo sullo schermo
I tuoi incontri con la star
Sarano pure fatali ma non aggiungono
Il suo nome alla povertá del cast:
Sei tu che reciti tutte le parti.
Magari, sará l'ultima volta che lavoreremo insieme
L'angoscia che ti sveglia suona falsa
Rinunzi ad annotare nel tuo quaderno dei sogni
Questa cosa da nulla che riempirebbe cento pagine
L'analisi che alla fine
Sarebbe un'operazione di routine.
Buona notte Achille
Finalmente ce l'abbiamo fatta a prenderti nel tallone
La morte che fuggi
Correrá senza scomporsi accanto a te.
Buona notte, Achille
Sto per attraversare la barriera
Sto per attraversare la barriera
Dello specchio per vedere
Ció che non si puó vedere:
Come sarebbe il mondo
Se copiasse lo specchio
La realtá non al rovescio
Colma infine del suo nulla.
Siccome erano anni che mi detestavi
Sicome erano anni che mi detestavi
Perché a tuo insindacabile giudizio ero stato
Cattivo coniuge d'una amica tua
Mi scegliesti per farmi dir di tuo marito
Cose che ripetesti avendole inventate
Come se io le avesi dette di lui, tra amici comuni
In una casa precisa
“Un perfetto mediocre”
Volesti infliggergli questa ferita nel costato
Celebro qui tutta la precisione
Della femmine perversitá
Per fare ammenda dei miei eccessi in lode e per la gloria
Delle donne
Mi piacerrebe ascoltare la tua verione dei fatti un giorno o l'altro
Ma, naturalmente, dopo la morte.
Come se il sogno fosse scritto in strofe regolari
Come se il sogno fosse scritto in strofe regolari
Ogni risveglio notturno significa
Che il corpo si riabitua alla sua idea fissa: il nemico
Monta la guardia dentro di lui
Senza mai chiudere un occhio
Signore e padrone della cittadella conquistata.
Enrique Lihn
Trad genseki
Che due stelle in galassie differenti.
Nessun astronomo mai riuscirá a vederci insieme
Nel suo vertiginoso campo visuale
Né il fotografo di cartagena davanti alla sua Polaroid
Cosí fu per sette anni infiniti
Le altre immagini sono nubi di memoria
Da questa e da quelle se ne è andata la vita.
Drive in
Sullo schermo si legge: è solo per te
La proiezione comincerebbe se finalmente ti adormentassi
Se non fosse perché, a volte, per fortuna, la perdi
Vai al cinema da solo
Sei solo sullo schermo
I tuoi incontri con la star
Sarano pure fatali ma non aggiungono
Il suo nome alla povertá del cast:
Sei tu che reciti tutte le parti.
Magari, sará l'ultima volta che lavoreremo insieme
L'angoscia che ti sveglia suona falsa
Rinunzi ad annotare nel tuo quaderno dei sogni
Questa cosa da nulla che riempirebbe cento pagine
L'analisi che alla fine
Sarebbe un'operazione di routine.
Buona notte Achille
Finalmente ce l'abbiamo fatta a prenderti nel tallone
La morte che fuggi
Correrá senza scomporsi accanto a te.
Buona notte, Achille
Sto per attraversare la barriera
Sto per attraversare la barriera
Dello specchio per vedere
Ció che non si puó vedere:
Come sarebbe il mondo
Se copiasse lo specchio
La realtá non al rovescio
Colma infine del suo nulla.
Siccome erano anni che mi detestavi
Sicome erano anni che mi detestavi
Perché a tuo insindacabile giudizio ero stato
Cattivo coniuge d'una amica tua
Mi scegliesti per farmi dir di tuo marito
Cose che ripetesti avendole inventate
Come se io le avesi dette di lui, tra amici comuni
In una casa precisa
“Un perfetto mediocre”
Volesti infliggergli questa ferita nel costato
Celebro qui tutta la precisione
Della femmine perversitá
Per fare ammenda dei miei eccessi in lode e per la gloria
Delle donne
Mi piacerrebe ascoltare la tua verione dei fatti un giorno o l'altro
Ma, naturalmente, dopo la morte.
Come se il sogno fosse scritto in strofe regolari
Come se il sogno fosse scritto in strofe regolari
Ogni risveglio notturno significa
Che il corpo si riabitua alla sua idea fissa: il nemico
Monta la guardia dentro di lui
Senza mai chiudere un occhio
Signore e padrone della cittadella conquistata.
Enrique Lihn
Trad genseki
Rue Fontaine 41
Rue Fontaine 41
Che è il nome adeguato per un nuovo blog o un nuovo diario o entrambe le cose, ancora non lo so, Rue Fontaine è da intendersi come l'indice, la localizazione geografica, e storica, in una certa misura del Barzakh. Una porta del Barzakh, insomma. E questo vuol dire che in realtá il mio modo di pensare mostra una continuitá che mi sorprende. La sorpresa dipende, credo, dal fatto che io mi sforzo di stare piú attento alle discontinuitá e alle variazioni che alla continuitá. l'anima, (che oggi si suole chiamare mente) è una successione di avvenimenti discreti e non continui, la continuitá è un'illusione. Questo equivale a dire che se si nega la continuitá dell'anima si finisce per riaffermarla come illusione, ovvero, una continuitá vi è e questa è la coninuitá dell'illusione che vi sia una continuitá, mentre la realtá è che i pensieri sorgono come bolle nell'acqua della marmitta in modo discreto, senza logica, senza relazioni e cosí come sono sorti ricompaiono e con i pensieri anche l'anima è sorta come una discontinutá e scoppierá come una bollicina confondendosi nell'acqua del tutto. Ora che ci penso mi pare che anche nel sorgere discreto dei pensieri ci sia una continuitá, la continuitá del loro stesso apparire: i pensieri e gli altri eventi che occorrono nell'anima, occorrono, appunto in modo continuo, non si possono mai arrestare. Sembra quindi che l'anima sia dotata di due ripi di continuitá, una la continuitá del'illusione e l'altra la continuitá della produzione.
Comunque alla soglia della vecchiaia comincio ad afferarmi come un naufrago ai tronchi marci di acqua salata alle occorrenze di continuitá. Volevo godermela questa mia vecchiaia cecando i semi a partire dai rami su cui le foglie giá hanno acquistato il colore del rame, avevo fatto, naturalemente, i conti senza il dolore e la debolezza che ora minacciano la mia capacitá di godere di qualsiasi cosa e meno ancora della vecchiaia. Cerco le origini delle mie convinzioni piú profonde, dei gesti e delle decisioni che hanno condizionato la mia vita e che la condizionano. La vecchiaia (incipiente) è come un altipiano. (Ovvero come l'illusione di un altipiano, sembra un altipiano perché è incipiente, poi giungerá a sembrare persino una parete, e credo che finira per apparire come uno strapiombo notturno con il trampolino dell'ultimo salto) da quassú si vedono tutti i sentieri che abbiamo percorso per arrivare fin quassú. (verso i ventanni pensavo che avrebbero finito per delineare una forma, un'immagine, una parola, che fosse il senso della vita, del percorso “Die Linien des Lebens sind verschieden”... ora temo che non sará cosí bello e nitido) e le loro intersezioni. Ho notato che le origini sono spesso un brano che lessi e dimenticai completamente, una poesia, una parola a volte, che non ricordavo ssolutamente piú e che si sono sviluppati come semi appunto in ramificati edifizi arborei. Io parto dalla fogliolina giallina lassú sul ramo tremolante e scendo nel tempo e nello spazio fino a trovare il seme che ha generato tutto questo e quando lo trovo sono sorpreso dalla casualitá di tutto il processo.
Che è il nome adeguato per un nuovo blog o un nuovo diario o entrambe le cose, ancora non lo so, Rue Fontaine è da intendersi come l'indice, la localizazione geografica, e storica, in una certa misura del Barzakh. Una porta del Barzakh, insomma. E questo vuol dire che in realtá il mio modo di pensare mostra una continuitá che mi sorprende. La sorpresa dipende, credo, dal fatto che io mi sforzo di stare piú attento alle discontinuitá e alle variazioni che alla continuitá. l'anima, (che oggi si suole chiamare mente) è una successione di avvenimenti discreti e non continui, la continuitá è un'illusione. Questo equivale a dire che se si nega la continuitá dell'anima si finisce per riaffermarla come illusione, ovvero, una continuitá vi è e questa è la coninuitá dell'illusione che vi sia una continuitá, mentre la realtá è che i pensieri sorgono come bolle nell'acqua della marmitta in modo discreto, senza logica, senza relazioni e cosí come sono sorti ricompaiono e con i pensieri anche l'anima è sorta come una discontinutá e scoppierá come una bollicina confondendosi nell'acqua del tutto. Ora che ci penso mi pare che anche nel sorgere discreto dei pensieri ci sia una continuitá, la continuitá del loro stesso apparire: i pensieri e gli altri eventi che occorrono nell'anima, occorrono, appunto in modo continuo, non si possono mai arrestare. Sembra quindi che l'anima sia dotata di due ripi di continuitá, una la continuitá del'illusione e l'altra la continuitá della produzione.
Comunque alla soglia della vecchiaia comincio ad afferarmi come un naufrago ai tronchi marci di acqua salata alle occorrenze di continuitá. Volevo godermela questa mia vecchiaia cecando i semi a partire dai rami su cui le foglie giá hanno acquistato il colore del rame, avevo fatto, naturalemente, i conti senza il dolore e la debolezza che ora minacciano la mia capacitá di godere di qualsiasi cosa e meno ancora della vecchiaia. Cerco le origini delle mie convinzioni piú profonde, dei gesti e delle decisioni che hanno condizionato la mia vita e che la condizionano. La vecchiaia (incipiente) è come un altipiano. (Ovvero come l'illusione di un altipiano, sembra un altipiano perché è incipiente, poi giungerá a sembrare persino una parete, e credo che finira per apparire come uno strapiombo notturno con il trampolino dell'ultimo salto) da quassú si vedono tutti i sentieri che abbiamo percorso per arrivare fin quassú. (verso i ventanni pensavo che avrebbero finito per delineare una forma, un'immagine, una parola, che fosse il senso della vita, del percorso “Die Linien des Lebens sind verschieden”... ora temo che non sará cosí bello e nitido) e le loro intersezioni. Ho notato che le origini sono spesso un brano che lessi e dimenticai completamente, una poesia, una parola a volte, che non ricordavo ssolutamente piú e che si sono sviluppati come semi appunto in ramificati edifizi arborei. Io parto dalla fogliolina giallina lassú sul ramo tremolante e scendo nel tempo e nello spazio fino a trovare il seme che ha generato tutto questo e quando lo trovo sono sorpreso dalla casualitá di tutto il processo.
mercoledì, dicembre 22, 2010
Memoria
Considerato, oggi, il passato mi appare come la faccia visibile della luna, con tutto quello che vi si voglia vedere di fantasmagorico e di impreciso. Luci, ombre, figure, La veritá, o quella cosa che si è abituati a chiamare veritá, proprio quella, io non la conosco, la dimentico, non la guardo, non so che cosa sia. Eppure io mo sento capacissimo di scrivere qualche cosa che si potrebbe chiamare un romanzo, una narrazione in cui non appaia assolutamente nessun essere del passato, nessun avvenimento accaduto, ma nel quale i fatti descritti da me e gli esseri che avró fatto agire saranno piú comparabili a ció che esistette che la loro fotografia fedelmente conservata nei ricordi e nei documenti...
Naturalmente tratteró di avvenimenti e faró delle dichiarazioni. Tuttavia non li considererño altro che vecchi vestiti, piú o meno amati di cui ci si ricorsda con una certa emozione, di viaggi compiuti, foto di un album di famiglia, parleró delle cose vissute con il sentimento di farmio capire.
Georges Ribemont-Dessaignes
Avant Dada
trad. genseki
Naturalmente tratteró di avvenimenti e faró delle dichiarazioni. Tuttavia non li considererño altro che vecchi vestiti, piú o meno amati di cui ci si ricorsda con una certa emozione, di viaggi compiuti, foto di un album di famiglia, parleró delle cose vissute con il sentimento di farmio capire.
Georges Ribemont-Dessaignes
Avant Dada
trad. genseki
martedì, dicembre 21, 2010
Preludio delle origini
Da cosa sei nato o poeta? Dal tempo e dallo spazio,
Senza principio né fine,
Senza padre e senza madre
Sorgente nel giardino delle origini.
Qualcuno chiede qual è la sua nascita?
Dall'acqua che sgorga dalla prima sorgente.
Oh fontana della memoria, fontana del gran centro della terra
Anche tu nascesti, tu che scorri sui ciottoli bianchi del ricordo,
Di ció che era senza essere, prima del sapere dell'esistenza?
Eccoti voluta arrotolata come una vipera
Sviluppata nella marea amica al sole e alla luna
E presto sfuggente alla mano che si bagna
Al piede che osa
Marciare sull'acqua
Da chi sono nato? Forse dal vento,
Dal gran vento senza pace, senza dimora
Anch'egli nato dagli orizzonti che mai raggiungono
Né la mano adulatrice
Né il piede del viaggiatore che per calmarlo meglio
Maschera la sua marcia in danza e la sua danza in volo.
Dal gran vento con criniera di giumenta
Con dita di foglie morte,
Con grida d'uccello migratore
Dal sonno senza riposo all'ombra dei camini,
Dallo sguardo di fumo,
Dall'amore crudele dei soli estivi
Nelle valli piú ampie,
Informato del sangue degli omicidi e delle lacrime dei lutti
Su pietre, polvere e sudore.
Forse sei nato dalla notte o dal fuoco?
È vero, ho visto le greggi transumanti
Dormire in uno spazio di pacifiche tenebre,
Mentre negli angoli cupi dimenticati dagli uomini
Risplendeva l'infimo miracolo dei versi lucenti.
Davvero ho visto sulle panchine della solitudine
Sulla lenta deriva dello zodiaco,
Intrecciarsi le mani, fondersi gli aliti
Aprirsi i cuori da dove sgocciolava
Un pianto straziante e divino.
Davvero ho visto danzare il fuoco sulla punta dell'erba
Correre sulle colline e godere della fuga del mistero,
Vegliare come l'amore in preda al ricordo
Nell'atrio del silenzio
Attorto dalle delizie del suicidio e i deliri,
Scaturito dal mio respiro con la fiamma che lo divora
E con cui nutre la sua fame di troni, sangue e contrade
Fino a vomitare da solo le proprie ossa, la pomice e lo zolfo
E la cenere della sua potenza.
Davvero in qualche eden di noncuranza
Ho visto lucciole accendersi tra balsami notturni
Fuochi fatui di assenza e mancanza
Sogno noncurante di raggiungere con due strilli il silenzio.
Forse, peró nacqui dalla terra,
Come un'erba, un grillo, una pietra
Come un¡eco da tempo dimenticata in un pozzo
Che germina di colpo quando la linfa cresce
E svapora sospiro promesso alla rugiada,
Liana virtuale aspirata dalle stelle,
Fuori dal tuo ventre, peso del cuore, terra mia.
Eccomi in equilibrio tra due forze
Danzatore effimero
Per un eterno giorno
Per un amore eterno,
Gioiello leggero impermanente
Per la vita eterna
Per la morte eterna
Ammutolisca la domanda posta!
Fratelli, sono ma giammai non naqui.
Georges Ribemont-Dessaignes
Trad. genseki
Senza principio né fine,
Senza padre e senza madre
Sorgente nel giardino delle origini.
Qualcuno chiede qual è la sua nascita?
Dall'acqua che sgorga dalla prima sorgente.
Oh fontana della memoria, fontana del gran centro della terra
Anche tu nascesti, tu che scorri sui ciottoli bianchi del ricordo,
Di ció che era senza essere, prima del sapere dell'esistenza?
Eccoti voluta arrotolata come una vipera
Sviluppata nella marea amica al sole e alla luna
E presto sfuggente alla mano che si bagna
Al piede che osa
Marciare sull'acqua
Da chi sono nato? Forse dal vento,
Dal gran vento senza pace, senza dimora
Anch'egli nato dagli orizzonti che mai raggiungono
Né la mano adulatrice
Né il piede del viaggiatore che per calmarlo meglio
Maschera la sua marcia in danza e la sua danza in volo.
Dal gran vento con criniera di giumenta
Con dita di foglie morte,
Con grida d'uccello migratore
Dal sonno senza riposo all'ombra dei camini,
Dallo sguardo di fumo,
Dall'amore crudele dei soli estivi
Nelle valli piú ampie,
Informato del sangue degli omicidi e delle lacrime dei lutti
Su pietre, polvere e sudore.
Forse sei nato dalla notte o dal fuoco?
È vero, ho visto le greggi transumanti
Dormire in uno spazio di pacifiche tenebre,
Mentre negli angoli cupi dimenticati dagli uomini
Risplendeva l'infimo miracolo dei versi lucenti.
Davvero ho visto sulle panchine della solitudine
Sulla lenta deriva dello zodiaco,
Intrecciarsi le mani, fondersi gli aliti
Aprirsi i cuori da dove sgocciolava
Un pianto straziante e divino.
Davvero ho visto danzare il fuoco sulla punta dell'erba
Correre sulle colline e godere della fuga del mistero,
Vegliare come l'amore in preda al ricordo
Nell'atrio del silenzio
Attorto dalle delizie del suicidio e i deliri,
Scaturito dal mio respiro con la fiamma che lo divora
E con cui nutre la sua fame di troni, sangue e contrade
Fino a vomitare da solo le proprie ossa, la pomice e lo zolfo
E la cenere della sua potenza.
Davvero in qualche eden di noncuranza
Ho visto lucciole accendersi tra balsami notturni
Fuochi fatui di assenza e mancanza
Sogno noncurante di raggiungere con due strilli il silenzio.
Forse, peró nacqui dalla terra,
Come un'erba, un grillo, una pietra
Come un¡eco da tempo dimenticata in un pozzo
Che germina di colpo quando la linfa cresce
E svapora sospiro promesso alla rugiada,
Liana virtuale aspirata dalle stelle,
Fuori dal tuo ventre, peso del cuore, terra mia.
Eccomi in equilibrio tra due forze
Danzatore effimero
Per un eterno giorno
Per un amore eterno,
Gioiello leggero impermanente
Per la vita eterna
Per la morte eterna
Ammutolisca la domanda posta!
Fratelli, sono ma giammai non naqui.
Georges Ribemont-Dessaignes
Trad. genseki
sabato, dicembre 18, 2010
Tra i fiori degli ontani
Altri vivrá forse di mercoledi altre mattine
Io i miei mercoledi gli ho persi con l'inverno
E con la solitudine. mercoledi di mercato
Senza treni, mercoledi al caffé pensando
Al tuo stupore di vedermi nello specchio
Dove custodisci tutte le prospettive
Mercoldi di fusarie e di anemoni
Mercoledi tra tricoloma e muscaria
Mercoledi stringendo la tua crinolina
Domando i tuoi fianchi sul materasso di rame
Mercoledi fiutando benzina all'angolo del sicomoro
Mercoledi spiando i tuoi piedi
Desiderosi di tacco e cerniera
Mercoledi pisciando nel lavabo
D'una stanza nemica senza rami
Il melo alla finestra era solo un fantasma
Tu cantavi tra i fiori degli ontani.
genseki
Io i miei mercoledi gli ho persi con l'inverno
E con la solitudine. mercoledi di mercato
Senza treni, mercoledi al caffé pensando
Al tuo stupore di vedermi nello specchio
Dove custodisci tutte le prospettive
Mercoldi di fusarie e di anemoni
Mercoledi tra tricoloma e muscaria
Mercoledi stringendo la tua crinolina
Domando i tuoi fianchi sul materasso di rame
Mercoledi fiutando benzina all'angolo del sicomoro
Mercoledi spiando i tuoi piedi
Desiderosi di tacco e cerniera
Mercoledi pisciando nel lavabo
D'una stanza nemica senza rami
Il melo alla finestra era solo un fantasma
Tu cantavi tra i fiori degli ontani.
genseki
Nel tuo fiume
Invano avevo cercato di guadarti
Coscienziosamente avvolgendomi i gins
Al di sopra la caviglia
Poi finivo sempre per inciampare e sommergermi in te
Nel tuo fiume
E andare in letargo come uno di quei caimani
Che avevano fatto indigestione di tartarughe
E non avevo abbastanza lacrime
Per confluire nel tuo fiume
Per esserti affluente del tuo corso torrentizio
Per fondermi nella tua corrente principale
Accarezzato dalle tue anguille
Avevo nausea invece, mi trascinavi,
Come un travicello per i tuoi mulinelli
Invano cercavo la pozza, lo stagno
Invano tendevo le mani ai rami degli ontani.
Ero grasso, maledizione, e nudo,
Ero la tua balena d'acqua dolce
Su di me si posavano anche gli aironi
Rosa e cinerini, non avevo mai avuto
La destrezza necessaria per farmi acqua
Cataratta delle tue angosce, cascata dei tuoi soprassalti
No poco a poco andavo evaporando
Tra le tife e i canneti nella carezza di quel sole
Che portava al pascolo tutte le sue nuvole.
genseki
Coscienziosamente avvolgendomi i gins
Al di sopra la caviglia
Poi finivo sempre per inciampare e sommergermi in te
Nel tuo fiume
E andare in letargo come uno di quei caimani
Che avevano fatto indigestione di tartarughe
E non avevo abbastanza lacrime
Per confluire nel tuo fiume
Per esserti affluente del tuo corso torrentizio
Per fondermi nella tua corrente principale
Accarezzato dalle tue anguille
Avevo nausea invece, mi trascinavi,
Come un travicello per i tuoi mulinelli
Invano cercavo la pozza, lo stagno
Invano tendevo le mani ai rami degli ontani.
Ero grasso, maledizione, e nudo,
Ero la tua balena d'acqua dolce
Su di me si posavano anche gli aironi
Rosa e cinerini, non avevo mai avuto
La destrezza necessaria per farmi acqua
Cataratta delle tue angosce, cascata dei tuoi soprassalti
No poco a poco andavo evaporando
Tra le tife e i canneti nella carezza di quel sole
Che portava al pascolo tutte le sue nuvole.
genseki
gemini e apollo
Cosa fosse poi quel nostro discorrere da un equivoco all'altro
Quando in fondo quello che cercavo
Era solo tepore, luce di un giorno feriale
Minestra sorbita lentamente col cucchiaio
A radio spenta le ciabatte della vicina di ballatoio
Le tue labbra sapevano allora di zinco, le tue dita
O le tue dita intorno a tutti quei bicchieri
Come fuscelli tirolesi mi richiamavano
Alle estati alpine dell'infanzia
Quando ero grasso e felice e solo come una felce
E gemini e apollo riempivano il cielo notturno
Da dove sei venuta fuori, da quale mattino
Da quale sciopero dei tram o dei treni
Da quale dei tanti miei mercoledi all'alba
Fragranti di soltudine tra i bagolari?
La tuta del mercoledí era davvero rosa?
I tuoi seni odoravano di posacenere
Di tappo di bottiglia di birra dell'infanzia
I tuoi capelli stingevano sul sofá
Nell'umiditá richiamo per i merli.
genseki
Quando in fondo quello che cercavo
Era solo tepore, luce di un giorno feriale
Minestra sorbita lentamente col cucchiaio
A radio spenta le ciabatte della vicina di ballatoio
Le tue labbra sapevano allora di zinco, le tue dita
O le tue dita intorno a tutti quei bicchieri
Come fuscelli tirolesi mi richiamavano
Alle estati alpine dell'infanzia
Quando ero grasso e felice e solo come una felce
E gemini e apollo riempivano il cielo notturno
Da dove sei venuta fuori, da quale mattino
Da quale sciopero dei tram o dei treni
Da quale dei tanti miei mercoledi all'alba
Fragranti di soltudine tra i bagolari?
La tuta del mercoledí era davvero rosa?
I tuoi seni odoravano di posacenere
Di tappo di bottiglia di birra dell'infanzia
I tuoi capelli stingevano sul sofá
Nell'umiditá richiamo per i merli.
genseki
Ontologia e caffé
Il caffé lo preferivi senza sale
L'ontologia dialettica
Scendevi le scale da anni nei miei sogni
E le tue ascelle erano il nido
O la tana tiepida del mio frugare
L'indivia nel tinello
L'odore di ammoniaco sul pianerottolo
Tutto quanto in una luce di sabato mattina
Vissuto al mercoledi, non pensavo nemmeno
A togliere i tuoi alluci dalle tasche del mio cappotto
Quando dovevo andare al Collegio Docenti
Gli accarezzavo mentre dormivo sul calorifero
Ma comprando il giornale mi dimenticavo il tuo nome
Il tuo indirizzo era quello di un altro portone
Se sventolavi lo facevi da un altro balcone
Il mio desiderio si perdeva tra le antenne
Poi ti incontravo in una nuova latteria
E era sempre una sorpresa vederti tra i ceci
E la mezzaluna fragrante della panissa
E non sapere come cominciare quel discorso
Che si era tane volte interrotto per sempre.
*
genseki
L'ontologia dialettica
Scendevi le scale da anni nei miei sogni
E le tue ascelle erano il nido
O la tana tiepida del mio frugare
L'indivia nel tinello
L'odore di ammoniaco sul pianerottolo
Tutto quanto in una luce di sabato mattina
Vissuto al mercoledi, non pensavo nemmeno
A togliere i tuoi alluci dalle tasche del mio cappotto
Quando dovevo andare al Collegio Docenti
Gli accarezzavo mentre dormivo sul calorifero
Ma comprando il giornale mi dimenticavo il tuo nome
Il tuo indirizzo era quello di un altro portone
Se sventolavi lo facevi da un altro balcone
Il mio desiderio si perdeva tra le antenne
Poi ti incontravo in una nuova latteria
E era sempre una sorpresa vederti tra i ceci
E la mezzaluna fragrante della panissa
E non sapere come cominciare quel discorso
Che si era tane volte interrotto per sempre.
*
genseki
Nascita del canto
Poi sarebbero apparse anche le ali
Sole, sull'orizzonte come una fuga di pioppi
Nel crepuscolo del parabrezza
Come l'arco di un'arpa vulcanica inclinata sulla pianura
E noi due li a tremare
Con i palmi madidi delle mani
Con i pollici in astinenza e tutto quel rimorso di bottiglie
Sulla sporcizia dimenticata dei tavoli
Immonde nella loro diafana immensitá
Ci minacciavano fin nel ventre del bagagliaio
Dove ci stringemmo tra catene e ruote di scorta
Nel desiderio di un'altra nascita canora.
genseki
Sole, sull'orizzonte come una fuga di pioppi
Nel crepuscolo del parabrezza
Come l'arco di un'arpa vulcanica inclinata sulla pianura
E noi due li a tremare
Con i palmi madidi delle mani
Con i pollici in astinenza e tutto quel rimorso di bottiglie
Sulla sporcizia dimenticata dei tavoli
Immonde nella loro diafana immensitá
Ci minacciavano fin nel ventre del bagagliaio
Dove ci stringemmo tra catene e ruote di scorta
Nel desiderio di un'altra nascita canora.
genseki
Da altri vertici mossa, sibilando, fragorosa
Come lava che nel suo cammino sfrigolando soffoca
L'ascoltavo avanzare ma il nero, l'oscuro
Non era il manto, non l'avvolgente panneggio
Che rifulgeva notturno; l'ossame avariato
Che ticchettava nella sua voce e quell'odore di farina
Che finiva per disfare anche la speranza.
Non lasciavano spazio alla serenitá selvosa
Che percepivo salire dal muschio, dalla foglie di betulla
Gioielli sul velluto delicato degli aghi di pino.
Alle spalle, come l'alito dell'attesa, gialla
Come l'avorio dello sfinimento con passo arenoso,
Tra gli anemoni marciti delle primavere che mancammo
Scendeva come fuoco incerto serpeggiante tra trucioli,
Tra rovi, da vertici ove i Baal sanguinavano dai ventri
Gonfi e crudeli, la maledizione sfinita
Che evocammo sul nostro abbraccio
A sigillarne il patto infecondo come monete
Prestate l'una all'altra nel mutuo d'usura dei corpi.
Cosí ci avrebbe trovati come il morto diadema
Nella tomba dello scrigno vuoto tra le risatine dei sorci
E lo schiamazzare dei corvi pochi istanti prima
Che tutto il bosco crollasse e la realtá del male
Si svelasse nella sua nausea d'oceano.
genseki
Come lava che nel suo cammino sfrigolando soffoca
L'ascoltavo avanzare ma il nero, l'oscuro
Non era il manto, non l'avvolgente panneggio
Che rifulgeva notturno; l'ossame avariato
Che ticchettava nella sua voce e quell'odore di farina
Che finiva per disfare anche la speranza.
Non lasciavano spazio alla serenitá selvosa
Che percepivo salire dal muschio, dalla foglie di betulla
Gioielli sul velluto delicato degli aghi di pino.
Alle spalle, come l'alito dell'attesa, gialla
Come l'avorio dello sfinimento con passo arenoso,
Tra gli anemoni marciti delle primavere che mancammo
Scendeva come fuoco incerto serpeggiante tra trucioli,
Tra rovi, da vertici ove i Baal sanguinavano dai ventri
Gonfi e crudeli, la maledizione sfinita
Che evocammo sul nostro abbraccio
A sigillarne il patto infecondo come monete
Prestate l'una all'altra nel mutuo d'usura dei corpi.
Cosí ci avrebbe trovati come il morto diadema
Nella tomba dello scrigno vuoto tra le risatine dei sorci
E lo schiamazzare dei corvi pochi istanti prima
Che tutto il bosco crollasse e la realtá del male
Si svelasse nella sua nausea d'oceano.
genseki
Al confine, al silenzio
Era nel punto di intersezione del sogno
Che perforava la palma il centro di quella e altre reti
Staccionate, filo spinato
altri limiti e canalizzazioni come vene
Dello spazio inclinato, del manto, della pelle
Era nel punto in cui il sogno confina con il simbolo
Sotto quel lnguaggio frondoso, la brezza di trillanti ghirlande
E l'anima che il pollame lascia cadere nelle piume bianche
Che avanzava verso il proprio sogno
E che in esso avanzanza anche quel nulla
L'altro, il senza tempo, l'oscuro volto di luce assoluta
E non era che il suo corpo addormentato
Quello che carbonizzava le parole, che si assopiva nei suoi brividi
Che si faceva eterno nel panico e poi nell'alito
Piú fermo ancora convinto in se stesso posto
A guardia del suo concepirsi di fronte alla possibilitá
Al confine, al silenzio.
genseki
Che perforava la palma il centro di quella e altre reti
Staccionate, filo spinato
altri limiti e canalizzazioni come vene
Dello spazio inclinato, del manto, della pelle
Era nel punto in cui il sogno confina con il simbolo
Sotto quel lnguaggio frondoso, la brezza di trillanti ghirlande
E l'anima che il pollame lascia cadere nelle piume bianche
Che avanzava verso il proprio sogno
E che in esso avanzanza anche quel nulla
L'altro, il senza tempo, l'oscuro volto di luce assoluta
E non era che il suo corpo addormentato
Quello che carbonizzava le parole, che si assopiva nei suoi brividi
Che si faceva eterno nel panico e poi nell'alito
Piú fermo ancora convinto in se stesso posto
A guardia del suo concepirsi di fronte alla possibilitá
Al confine, al silenzio.
genseki
giovedì, dicembre 16, 2010
A bocca spenta
Chi potrebbe dormire con i piedi
Anche ravvolti nel camicione
Come fossero due baci qualsiasi?
I piedi lasciali fuori dal tuo sonno.
Nel mio posso accogliere anche loro
Con tutti gl altri pesci
A bocca spenta.
genseki
Anche ravvolti nel camicione
Come fossero due baci qualsiasi?
I piedi lasciali fuori dal tuo sonno.
Nel mio posso accogliere anche loro
Con tutti gl altri pesci
A bocca spenta.
genseki
mercoledì, dicembre 15, 2010
lunedì, dicembre 13, 2010
Le tue calze
Le tue calze stese sul balcone
Trionfavano dell’angolo del quinto piano
Ma il vero tepore era quello dentro
Il tinello, il latte, il sapone, lo zinco
Ti guardavo dormire senza piedi
E aspettavo il freddo del mattino
Per godere di un altro caffè
Della vista delle ortensie disseccate
Dal vetro del tram sognando arance
Su fino alla collina del cancro
Pensavo al tuo fianco stanco
Orizzonte del mio riposo.
genseki
Trionfavano dell’angolo del quinto piano
Ma il vero tepore era quello dentro
Il tinello, il latte, il sapone, lo zinco
Ti guardavo dormire senza piedi
E aspettavo il freddo del mattino
Per godere di un altro caffè
Della vista delle ortensie disseccate
Dal vetro del tram sognando arance
Su fino alla collina del cancro
Pensavo al tuo fianco stanco
Orizzonte del mio riposo.
genseki
Breton su Arnim
Parte I
Breton su Achim von Arnim
All'epoca in cui il ventenne Achim von Arnim studiava fisica e matematica all'universitá di Goettingen si affrontano due concezioni scientifiche l'una delle quali assai recente, che lungi dal tendere ad avvicinarsi intraprendono l'una contro l'altra una lotta mortale. Nelle circostanze storiche in cui tale dibattito si svolge, per uno spirito agile e ardente come quello di Arnim non è possibile la neutralitá. Per renderlo comprensibile non mi resta che ripercorrere le peripezie a prima vista curiose del dramma mentale che allora si rappresentava sotto l'apparenza puramente intellettuale di imporre una scelta tra due metodi, quello sperimentale e quello speculativo che portano con sé la necessitá di scegliere tra due spiegazioni profondamente discordanti del mondo e della vita.
Breton su Achim von Arnim
All'epoca in cui il ventenne Achim von Arnim studiava fisica e matematica all'universitá di Goettingen si affrontano due concezioni scientifiche l'una delle quali assai recente, che lungi dal tendere ad avvicinarsi intraprendono l'una contro l'altra una lotta mortale. Nelle circostanze storiche in cui tale dibattito si svolge, per uno spirito agile e ardente come quello di Arnim non è possibile la neutralitá. Per renderlo comprensibile non mi resta che ripercorrere le peripezie a prima vista curiose del dramma mentale che allora si rappresentava sotto l'apparenza puramente intellettuale di imporre una scelta tra due metodi, quello sperimentale e quello speculativo che portano con sé la necessitá di scegliere tra due spiegazioni profondamente discordanti del mondo e della vita.
Non si insisterá mai troppo sul ruolo che la fisica ha svolto nelle preoccupazioni dei romantici. La ranocchia scorticata che, inaspettatament nel 1786, sul tavolo di Galvani, compie il movimento ben conosciuto, tenendo conto della straordinaria rivelazione che ha rappresentato per loro, dell'aiuto che ha loro donato nella percezione di un mondo nuovo, subito agghindato di mistiche grazie e dell'abitudine che essi acquisirono di mettere il loro cuore a nudo, proprio come il suo, ebbene, poeticamenente quella ranocchia potrebbe essere considerata il loro totem. Ora, quando nell'anno 1800 Arnim entra nel circolo universitario di Iena, è notevole che il suo genio lo attragga verso Ritter che, movendo dall'esperinza di Galvani giunge, con Volta, di cui ignorava le ricerche, a mettere in luce alcuni fenomeni suscettibili di confermare la scoperta del magnetismo animale. La figura di Ritter, effettivamente sembra la piú attraente del momento. Fisico, ma anche cabalista, teosofo e poeta, Ritter, come egli stesso narra nei suo “Frammenti” era afflitto da un tic bizzarro che si presentava come un folletto e che ricorda molto da vicino la “scrittura automatica” dei medium. Tale tic lo obblgava a interrompersi continuamente mentre scriveva e ad annotare sui margini le cose piú buffe. Questo surrealista ante litteram diviene dopo Mesmer il piú grande apologeta del sonno, grazie al quale, dice, “L'uomo ricade nell'organismo universale, è davvero onnipotente fisicamente, si muta in un mago”. Egli si concentra sul magnetismo e sul sonnambulismo. Scrive: “nel magnetismo animale si esce dall'ambito della coscienza volontaria per entrare in quello dell'attivitá automatica, ove di nuovo il corpo organico si comporta come una cosa inorganica e ci rivela cosí, contemporaneamente i segreti di due mondi”. Per farsi un'iea precisa delle sue idee e dell'estensione dei suoi interessi prendiamo in considerazione questa affermazione: “Molti dei miei frammenti non ho potuto pubblicarli, perché nella loro forma primitiva sarebbero apparsi troppo scabrosi, soprattutto uno, composto poche settimane prima del matrimonio dell'autore e che è di tale natura che sarebbe sembrato impossibile che con idee simili un uomo potesse pensare di sposarsi”. A quanto pare si trattava della storia dei rapporti sessuali attraverso i secoli, con, a modo di epilogo una descrizione della forma ideale di tali rapporti, fatta in modo tale che “nessun giudice, nemmeno il piú liberale sarebbe stato clemente con l'autore, nonostante il rigore della dimostrazione”. È significativo che Achim von Arnim, la cui prima opera è un “Abbozzo di una teoria dei fenomeni dell'elettricitá” fosse ospite abituale nella casa di campagna di Ritter a Belvedere presso Iena. È in questa casa che si organizza un “partito anti-schelling” e si attacca vivacemente la sua “Filosofia della Natura”. Ritter considerava il sistema di Schelling “un pezzo di fisica” e considerava il suo autore “incapace di essere un vero filosofo: un filosofo chimico, niente di piú che un filosofo-elettricista”. Alcuni autori menzionano, in questo periodo della vita di Arnim, l'esistenza di una relazione con Novalis. Pare, tuttavia, che si trattase solo di contatti occasionali dovuti ad un legame di riconoscenza che legava Ritter a Novalis che l'aveva scoperto e strappato alla sua condizione miserabile. Nonostante le sue frequenti e sospette incursioni nel mondo metafisico, tutto fa pensare che uno scienziato di gran classe come Ritter godesse, agli occhi di un giovane formato al rigore metodologico e di temperamento curioso come Arnim, di un maggior prestigio che un poeta mistico smarrito a un punto tale da rimproeverare a Fichte di non aver posto l'estasi alla base del suo sistema. In ogni modo la morte di Novalis nel 1801 rende la sua influenza possibile su Arnim temporalemente molto limitata. Sappiamo inoltre che Arnim, che subito si interesó ai lavori di Priestley e di Volta, e a quelli del fisico umorista Lichtemberg, e il cui protestantesimo era sensibilmente kantiano, non intrattenne nessuna relazione personale con Schelling. Siccome fu tra i primi a condannare la su “Filosofia della natura”, non poté, necessariamente seguire il suo autore attraverso i capricci della sua evoluzione e neppure, a maggior ragione accodarsi quando l'opportunismo, che per meglio sedurre Schelling aveva preso la forma di caroline Schlegel, gli dettó la conversione alle idee piú nebulose di Ritter e di Jacob Boehme che impregnavano il neocatolicesimo di allora.
venerdì, dicembre 10, 2010
mercoledì, dicembre 08, 2010
Nei giardini di Adone
Nei giardini di Adone coltivo vane parole
Effimere come teneri piselli -
Che il gelo di febbraio non permette,
E il timido bramito di rampicanti
Invano alzano al luminoso melo -
Prosperare fino al pallido verde
Che riassume l’orto nella sua delicata
Finita tessitura sonora, fuga e contrappunto
Tra sperma e clorofilla
Persino la lavanda geme il suo profumo
Nel giocondo canestro pronta
A morire avendo appena il tempo
Di rammemorare l’amido e la zampogna.
genseki
Effimere come teneri piselli -
Che il gelo di febbraio non permette,
E il timido bramito di rampicanti
Invano alzano al luminoso melo -
Prosperare fino al pallido verde
Che riassume l’orto nella sua delicata
Finita tessitura sonora, fuga e contrappunto
Tra sperma e clorofilla
Persino la lavanda geme il suo profumo
Nel giocondo canestro pronta
A morire avendo appena il tempo
Di rammemorare l’amido e la zampogna.
genseki
sabato, dicembre 04, 2010
La voce
È la parola che alberga la voce
La mia parola rifugio al tuo discorso
Al canto forse, ti modula la bocca
La tua parola suscita il mio fiato
Non lascia dimorare la mia lingua
La parola è rifugio della voce, canestro
Ove riposa in frequente sussulto
Fragranza è la voce nella spazio del dire
Nella morta parola sovrana voce sparge
Polline e strilli demenza e campane
Fino a che tutto il suono sia incarnato.
La mia parola rifugio al tuo discorso
Al canto forse, ti modula la bocca
La tua parola suscita il mio fiato
Non lascia dimorare la mia lingua
La parola è rifugio della voce, canestro
Ove riposa in frequente sussulto
Fragranza è la voce nella spazio del dire
Nella morta parola sovrana voce sparge
Polline e strilli demenza e campane
Fino a che tutto il suono sia incarnato.
La paura
Era d’asfalto
Era d’asfalto la lingua bianca
La lingua della paura
E il prato era oltre quel nastro
Quel bianco che lecca cento metri di denti
Ê pane la mia paura, è mollica
Tu sei il suo latte
Gocciola tepore con roco fiato
Scaldato al rosso degli scogli
Era d’asfalto la paura
Quella bianca sul prato
Quella che confonde i pioppi con le gocce
Con un asfodelo in mano
Davanti al parabrezza hai aperto
La porta della paura
Nel tripudio sconcio di mille denti.
Era d’asfalto la lingua bianca
La lingua della paura
E il prato era oltre quel nastro
Quel bianco che lecca cento metri di denti
Ê pane la mia paura, è mollica
Tu sei il suo latte
Gocciola tepore con roco fiato
Scaldato al rosso degli scogli
Era d’asfalto la paura
Quella bianca sul prato
Quella che confonde i pioppi con le gocce
Con un asfodelo in mano
Davanti al parabrezza hai aperto
La porta della paura
Nel tripudio sconcio di mille denti.
venerdì, dicembre 03, 2010
I giardinio d'Adone
Fioriscono nei giardini d’Adone
Sillabe, corolle di senso , effimere
In vimini e coccio
Versi maschere rime e tanti altri petali
Soavi al tatto, al credere; fuori
Incede alta foresta col ritmo del Vero
Brucia corona di specchi ogni chioma
E parla solo chi brucia
E cenere consola.
Raccogli viandante nel palmo della mano
Le reliquie di questo incendio
Che fu occhio e cuore
E sangue feconderá il tuo giardino
Fino alla prossima resurrezione.
Nessuno che sia saggio
Protegge la parola, la sua dal fuoco
Lascia che dilegui in altra bocca
D’altri ancora tormento e sospetto
Fioriscono ancora nei giardini d’Adone
Rime e parole, giá cavo il respiro si fa fiamma
D’altri petali, d’altre carezze e cenere
Ove sospetto ora foresta ora morte.
Sillabe, corolle di senso , effimere
In vimini e coccio
Versi maschere rime e tanti altri petali
Soavi al tatto, al credere; fuori
Incede alta foresta col ritmo del Vero
Brucia corona di specchi ogni chioma
E parla solo chi brucia
E cenere consola.
Raccogli viandante nel palmo della mano
Le reliquie di questo incendio
Che fu occhio e cuore
E sangue feconderá il tuo giardino
Fino alla prossima resurrezione.
Nessuno che sia saggio
Protegge la parola, la sua dal fuoco
Lascia che dilegui in altra bocca
D’altri ancora tormento e sospetto
Fioriscono ancora nei giardini d’Adone
Rime e parole, giá cavo il respiro si fa fiamma
D’altri petali, d’altre carezze e cenere
Ove sospetto ora foresta ora morte.
Lo sciamano di Briggio
Anche Briggio come alquanto altri barrios valligiani possdeva il proprio sciamano, colui che era incaricato di tramandare le gesta ella stirpe e la continuitá delle tradizioni e della parlata. Lo sciamano del barrio di Briggio aveva un nom benedetto, dorato: era infatti chiamato Abbondio, Abbondio Agatupolo e tutti nelle stradine strette e scivolose, cui l’umiditá quasi perenne conferiva odore di muffa, muschio e bollitura di cavol con mosto solevano designarlo con rispetto, o a volte con mal disimulata stizza Mastro Abbondio. Di origine forse levantina giunse nel barrio come calafato e fattosi ginnasiarca si elevó poco a poco con le sole sue forze fino alla prestigiosa carica di sciamano che nessuno per lunghissimi anni pensó mai di contendergli. No, mai fu sfidato Mastro Abbondio. Di modesta statura e carnagione scura aveva la fronte scolpita da tre profonde rughe che si accentuavano quando assumeva il fiero cipiglio con cui era solito presentarsi in pubblico nelle occasioni ufficiali e nelle festivitá e proprio nel centro delle tre rughe come un punto di intersezione un pronunciata prominenza callosa, come una specie di piccolo corno.
Si fissó nella memoria del giovin Dreiser Cazzaniga, tale prominenza, come marchio del sapere e della cultura a tal segno che quando giá era uno studioso, onesto adolescente non poteva figurarsi Cicerone, Patone o Aristotele stesso senza una pronuncatissima protuberanza frontale come unicorni, insomma del Parnaso. Voce aveva roca e carnosa per lo smodato uso di nicotina che ingiallivagli altresí le falangi dell’indice e del medio della mano destra. Gran parte della sua vita era dedicata alla stesura di una monumentale “Historia Barrii Briggi” grazie a una cospicua documentazione messagli a disposizione dal fratello, persona grigia e da tutti ignorata nonostante i somigliassero come due gocce d’acqua, forse proprio pe l’assenza del corno di Mastro Abbondio. Della sua maggiore fatica soleva egli dare pubbliche letture in molto contate occasioni, sfogliava allora davanti agli attoniti briggesi immensi fasci di scartafacci, borbottando con voce roca che si confondeva nel fruscio pergamenaceo senza mai iincontrare quelloche cercava. Queste letture non erano lette perché non trovava mai quello che aveva intenzione di leggere. Alla sua morte non fu possibile trovare traccia dell’opera sua maggiore, nemmeno poche righe che si potessero ad essa attibuire. Tra colpi di tosse e arzigogoli delle mani egli riusciva, tuttavia di comunicare ai briggesi la tesi principale che aveva scoperto e dimostrato. I briggesi erano originari di Trebisonda, in Asia Minore ed erano giunti nell’umido barriio chiamati da un rdine monastico del luogo per la loro perizia artigianale nella produione di oggetti sferici, biglie, perle, pelote e palle. Adduceva come prova di questa teoria il fatto che nella parlata briggesi si trovassero elementi celtici. Il fatto che a Trebisonda non vi fossero celti e che anzi un proverbio di Cappadocia citato da Bessarone suonasse: “Raro come un celta in Trebisonda” non turbava i briggesi che non sapevano chi fosse Bessarione e non avevano mai udito parlare di Cappadocia. L’ordine monastico poi aveva la sua sede in Marsiglia ed era stato fondato molti secoli dopo l’esodo preteso dei briggesi da Trebisonda secondo lo stesso mastro Abbondio; neppure questa contraddizione aveva peró il potere di scuotere la ferma fede che gli abitanti del barrio riponevano nel loro sciamano, vuoi percé non la notavano, vuoi perché il fatto di potersi fregiare di tale esotica provenienza gli faceva sentire superiori agl altri villani che appartenevano al luogo dove erano spuntati come funghi dall’umido sottobosco.
Soleva Mastro Abondio abbellire il suo discorso con citazioni in antiche, illustri lingue straniere e soprattutto in castigliano. Grande e amara fu la sopresa del giovin Dreiser Cazzaniga quando, avendo appreso egli il castigliano, dovette rendersi conto del fatto che le citazioni di Mastro Abbondio non solo non erano in castigliano ma in uno scorretto gagliego, ma che nemmeno il loro significao coincideva con quello che Mastro Abbodio gli attribuiva. La figura dello Sciamano cadde fragorosamente nella mente di Dreiser Cazzaniga laciando il suolo cosparso di cocci taglienti. Per lunghi anni Dreiser Cazzaniga irrise e rabbiosamente denigró Mastro Abbondio e l’opera sua e solo dopo che vari lustri accumularono sulle sua spalle dolore e delusioni comprese che Matro Abbondio aveva svolto nel Barrio una nobile e amara funzione, non per le sue conoscenze e per la sua cultura, ché non possedeva né le une né l’altra, ma per aver saputo scolpire nelle anime dei giovani briggesi il rispetto per il sapere e l’amore per la propria terra e la propria stirpe facendo in modo che si sentissero parte di una vicenda che superava le loro vite individuali e affondava nei secoli, che si sentissero un popolo, pochi anni prima che la televisione finisse pre traformarli definitivamente in una plebe stracciona dipendente dall’annona.
Si fissó nella memoria del giovin Dreiser Cazzaniga, tale prominenza, come marchio del sapere e della cultura a tal segno che quando giá era uno studioso, onesto adolescente non poteva figurarsi Cicerone, Patone o Aristotele stesso senza una pronuncatissima protuberanza frontale come unicorni, insomma del Parnaso. Voce aveva roca e carnosa per lo smodato uso di nicotina che ingiallivagli altresí le falangi dell’indice e del medio della mano destra. Gran parte della sua vita era dedicata alla stesura di una monumentale “Historia Barrii Briggi” grazie a una cospicua documentazione messagli a disposizione dal fratello, persona grigia e da tutti ignorata nonostante i somigliassero come due gocce d’acqua, forse proprio pe l’assenza del corno di Mastro Abbondio. Della sua maggiore fatica soleva egli dare pubbliche letture in molto contate occasioni, sfogliava allora davanti agli attoniti briggesi immensi fasci di scartafacci, borbottando con voce roca che si confondeva nel fruscio pergamenaceo senza mai iincontrare quelloche cercava. Queste letture non erano lette perché non trovava mai quello che aveva intenzione di leggere. Alla sua morte non fu possibile trovare traccia dell’opera sua maggiore, nemmeno poche righe che si potessero ad essa attibuire. Tra colpi di tosse e arzigogoli delle mani egli riusciva, tuttavia di comunicare ai briggesi la tesi principale che aveva scoperto e dimostrato. I briggesi erano originari di Trebisonda, in Asia Minore ed erano giunti nell’umido barriio chiamati da un rdine monastico del luogo per la loro perizia artigianale nella produione di oggetti sferici, biglie, perle, pelote e palle. Adduceva come prova di questa teoria il fatto che nella parlata briggesi si trovassero elementi celtici. Il fatto che a Trebisonda non vi fossero celti e che anzi un proverbio di Cappadocia citato da Bessarone suonasse: “Raro come un celta in Trebisonda” non turbava i briggesi che non sapevano chi fosse Bessarione e non avevano mai udito parlare di Cappadocia. L’ordine monastico poi aveva la sua sede in Marsiglia ed era stato fondato molti secoli dopo l’esodo preteso dei briggesi da Trebisonda secondo lo stesso mastro Abbondio; neppure questa contraddizione aveva peró il potere di scuotere la ferma fede che gli abitanti del barrio riponevano nel loro sciamano, vuoi percé non la notavano, vuoi perché il fatto di potersi fregiare di tale esotica provenienza gli faceva sentire superiori agl altri villani che appartenevano al luogo dove erano spuntati come funghi dall’umido sottobosco.
Soleva Mastro Abondio abbellire il suo discorso con citazioni in antiche, illustri lingue straniere e soprattutto in castigliano. Grande e amara fu la sopresa del giovin Dreiser Cazzaniga quando, avendo appreso egli il castigliano, dovette rendersi conto del fatto che le citazioni di Mastro Abbondio non solo non erano in castigliano ma in uno scorretto gagliego, ma che nemmeno il loro significao coincideva con quello che Mastro Abbodio gli attribuiva. La figura dello Sciamano cadde fragorosamente nella mente di Dreiser Cazzaniga laciando il suolo cosparso di cocci taglienti. Per lunghi anni Dreiser Cazzaniga irrise e rabbiosamente denigró Mastro Abbondio e l’opera sua e solo dopo che vari lustri accumularono sulle sua spalle dolore e delusioni comprese che Matro Abbondio aveva svolto nel Barrio una nobile e amara funzione, non per le sue conoscenze e per la sua cultura, ché non possedeva né le une né l’altra, ma per aver saputo scolpire nelle anime dei giovani briggesi il rispetto per il sapere e l’amore per la propria terra e la propria stirpe facendo in modo che si sentissero parte di una vicenda che superava le loro vite individuali e affondava nei secoli, che si sentissero un popolo, pochi anni prima che la televisione finisse pre traformarli definitivamente in una plebe stracciona dipendente dall’annona.
venerdì, novembre 19, 2010
Per i tre grandi maestri del realismo drammatico del XVII secolo, Caravaggio, Rembrandt e Bernini, lo spechio è un'utensile quasi altrettanto importante del pennello, o lo scalpello. L'obiettivo consisteva nello scongelare l'espressione della passione, liberandola dalle restrizioni imposte dai modelli classici; nel dotare della maggiore autenticitá possibile la mobilitá naturale del volto e i gesti del corpo. E mentre si convertivano nei loro propri modelli per portare a compimento questo processo di animazione, scoprirono l'intensitá della propria identificazione con la storia che raccontavano. Autoritraendosi, gli artisti si trasformavano in attori e pubblico contemporaneamente, i produttori e consumatori della propria rappresentazione.
Simon Schama
Il potere dell'arte
Bernini
Simon Schama
Il potere dell'arte
Bernini
Memorie di Dreiser Cazzaniga
L'Africa di Dreiser Cazzaniga
Come avvenne che Dreiser Cazzaniga nel pieno della sua amara goventú finisse nel Cuore Tenebroso del'Africa Equatoriale? Neppure lui riuscí mai a chiarirselo bene. Per imitare Rambaldo? Per idealismo? Per paura? Per desiderio di avventtura? La sola cosa che Dreiser Cazzaniga mostró sempre di sapere con sicurezza fu che la decisione sciagurata la prese durante un'escursione con Beaumont in un mattino fragrante tra l'abetaia e il mare dell'adolescenza mentre presentiva la discesa del Dio ladro e medico di cui a quei tempi adorava le tracce lievi sui prati e l'arena: Hermes.
Poi la decisione la mantenne. L'Africa di Dreiser Cazzaniga fu una discesa iniziatica nelle viscere della sua pretenziosa ingenuitá. Lui, a volte la chiamava proprio stupiditá. Dreiser Cazzaniga era stato programmato per essere un perdente (lo abbiamo giá visto).
Il viaggio comincio nei Paesi bassi cattolici, Dreiser Cazzaniga ricorda di come fu portato quasi di peso dall'entusiasmo degli amici fino al'aereo. Era il primo aereo dela sua vita e non capí niente di quello che doveva fare per imbarcarsi. Se lo trovó fatto, lo fece, insomma senza poi potersi ricordare quello che aveva fatto. Poi fu una locanda aeroportuale piena di ubriachi calvi provenienti dalla poderosa isola di Albione che vomitavano e pisciavano per i corridoi e sugli ascensori. Piú morto che vivo, in una mattina di riflessi di cromo raggiunse il velivolo che doveva portarlo in Camerun. Del volo non ricordó mai pú nulla salvo lo scalo a Kano per problemi di stabilitá dovuti all'infuriare del vento Rosso, l'Harmattan. Restarono ore nell'aereoport che doveva essere rovente avvolti in una fiammegiante nebbia di sabbia rossa. Il suo casuale compagno di viaggio era un bulgaro che gli spiegava in una specie di inglese (Dreiser no capiva l'inglese) come per vincere la paura dell'Africa la cosa migliore fosse l'acquavite di ginepro di cui aveva una bottiglia in ogni tasca della sahariana. (Dreiser Cazzaniga anche se non capiva l'inglese capiva perfettamente quello che il bulgaro voleva dirgli in quello che egli credeva fosse inglese). Poi l'aereo decolló e dopo una serie infinita di vuoti d'aria finalmente atterró a Douala. Una nube di calore insopportabile e umido come quello del calderone di una antica tintoria colpí e avvolse il poverso Dreiser Cazzaniga mettendo al tappeto quel poco che restava del suo buon senso giá screpolato da ore e ore di ansia intervallate da raffiche di paura. Nel mezzo di una folla frenetica egli cominció a distribuire scellini, franchi, corone, talleri a qualsiasi sbirraccio gli si avvicinasse con fare minaccioso e si ritrovó senza bagaglio in una cella di fango secco dal suolo di fango pisciato in mezzo a topi e escrementi e altri insetti in qualche luogo attorno all'aeroporto di Douala. Dopo un tempo che non seppe mai calcolare nel ricordo la porta si aprí e un uomo entró gridando: “Dreiser! Dreiser!” Distribuendo pacche sulla spalle a tutti gli sbirracci e sorrisi e sigarette, fece cenn a Dreiser Cazzaniga di seguirlo. Dreiser Cazzaniga lo seguí. Era un gigante canuto dalla dentatura gialla e nera, portava una camicia che la settimana precedente aveva dovuto essere bianca, e una collana di denti di varie fiere anch'essi gialli e neri in mezzo ad altri feticci pelosi, stivali messicani, la fondina di una pistola in cui teneva le chiavi della macchina e il guinzaglio di uno dei suoi cani. Dreiser Cazzaniga entró nella sua macchina come si entra in un frigorifero, la barba gli si ricoprì si brina. Avrebbe trascorso i primi venti giorni in Africa tormentato da una violenta bronchite. L'interno della macchina era pieno di denti, conchiglie e feticci pelosi che pendevano sporchi da ogni gancio disponibile. Sui sedili giacevano abbandonati porno di Taiwan e film di Kungfu di Hongkong. Dreiser Cazzaniga si abbandonó alla spossatezza che precede la morte bianca mentre il veicolo si apriva il passo in un delirio di claxon e di mani tese che il Señor Zocco si affrettava a colmare di banconote stropicciate. La casa di Don Zocco era circondata da altissimi muri, cani rabbiosi, servi servili, siepi spinose. Dreiser Cazzaniga en varc'il cancello con il rombo rovente della febbre nelle tempie. Un servo in mutande trateneva a stento un cane dai denti coperti di una leggera bava rosa, Dreiser Cazzaniga non aveva piú forza per avere paura. La sua stanza gli fu mostrata e Don Zanco lo invitó a trascorrere la serata, se avesse voluto con i suoi invitati in piscina. Dreiser Cazzaniga declinó l'invito, ovviamente, Un motore di Boeing ronzava senza sosta nella sua testa, lo assordava lo spingeva a fumare una sigaretta dopo l'altra.
Solo. Cercava di dormire. Il motore non si spegneva, la notte era come un'immensa spugna caldissima e profumata, che ottundeva i sensi e lasciava solo il sussulto di sporadici palpiti di paura. Dreiser Cazzaniga cercó un po' di fresco guardando fuori dalla finestra. a finestra dava sulla piscina, nella piscina Don Zanco e i suoi amici saltavano tra gli spruzzi circondati da una decina di schiamazanti ragazzine nude. Sembravano trainati dalle punte dei loro sessi turgidi sui forti corpi spossati dal gin. Dreiser Cazzaniga rinunció a scendere in piscina, si rassegnó al motore del Boeing, si lasció cadere sul letto e cadde in un doloroso sopore. Poi il motore si spense, Dreiser Cazzaniga precipitó con terrore nel nulla del suo silenzio interno. Si riseveglió gridando nel silenzio azzurro della sua prima mattina africana, nell'illusione tanto dolce che i grandi alberi che incorniciavano il paesaggio che si vedeva dalla finestra fossero scaturiti di colpo dalla terra proprio nel corso di quella sola notte.
Come avvenne che Dreiser Cazzaniga nel pieno della sua amara goventú finisse nel Cuore Tenebroso del'Africa Equatoriale? Neppure lui riuscí mai a chiarirselo bene. Per imitare Rambaldo? Per idealismo? Per paura? Per desiderio di avventtura? La sola cosa che Dreiser Cazzaniga mostró sempre di sapere con sicurezza fu che la decisione sciagurata la prese durante un'escursione con Beaumont in un mattino fragrante tra l'abetaia e il mare dell'adolescenza mentre presentiva la discesa del Dio ladro e medico di cui a quei tempi adorava le tracce lievi sui prati e l'arena: Hermes.
Poi la decisione la mantenne. L'Africa di Dreiser Cazzaniga fu una discesa iniziatica nelle viscere della sua pretenziosa ingenuitá. Lui, a volte la chiamava proprio stupiditá. Dreiser Cazzaniga era stato programmato per essere un perdente (lo abbiamo giá visto).
Il viaggio comincio nei Paesi bassi cattolici, Dreiser Cazzaniga ricorda di come fu portato quasi di peso dall'entusiasmo degli amici fino al'aereo. Era il primo aereo dela sua vita e non capí niente di quello che doveva fare per imbarcarsi. Se lo trovó fatto, lo fece, insomma senza poi potersi ricordare quello che aveva fatto. Poi fu una locanda aeroportuale piena di ubriachi calvi provenienti dalla poderosa isola di Albione che vomitavano e pisciavano per i corridoi e sugli ascensori. Piú morto che vivo, in una mattina di riflessi di cromo raggiunse il velivolo che doveva portarlo in Camerun. Del volo non ricordó mai pú nulla salvo lo scalo a Kano per problemi di stabilitá dovuti all'infuriare del vento Rosso, l'Harmattan. Restarono ore nell'aereoport che doveva essere rovente avvolti in una fiammegiante nebbia di sabbia rossa. Il suo casuale compagno di viaggio era un bulgaro che gli spiegava in una specie di inglese (Dreiser no capiva l'inglese) come per vincere la paura dell'Africa la cosa migliore fosse l'acquavite di ginepro di cui aveva una bottiglia in ogni tasca della sahariana. (Dreiser Cazzaniga anche se non capiva l'inglese capiva perfettamente quello che il bulgaro voleva dirgli in quello che egli credeva fosse inglese). Poi l'aereo decolló e dopo una serie infinita di vuoti d'aria finalmente atterró a Douala. Una nube di calore insopportabile e umido come quello del calderone di una antica tintoria colpí e avvolse il poverso Dreiser Cazzaniga mettendo al tappeto quel poco che restava del suo buon senso giá screpolato da ore e ore di ansia intervallate da raffiche di paura. Nel mezzo di una folla frenetica egli cominció a distribuire scellini, franchi, corone, talleri a qualsiasi sbirraccio gli si avvicinasse con fare minaccioso e si ritrovó senza bagaglio in una cella di fango secco dal suolo di fango pisciato in mezzo a topi e escrementi e altri insetti in qualche luogo attorno all'aeroporto di Douala. Dopo un tempo che non seppe mai calcolare nel ricordo la porta si aprí e un uomo entró gridando: “Dreiser! Dreiser!” Distribuendo pacche sulla spalle a tutti gli sbirracci e sorrisi e sigarette, fece cenn a Dreiser Cazzaniga di seguirlo. Dreiser Cazzaniga lo seguí. Era un gigante canuto dalla dentatura gialla e nera, portava una camicia che la settimana precedente aveva dovuto essere bianca, e una collana di denti di varie fiere anch'essi gialli e neri in mezzo ad altri feticci pelosi, stivali messicani, la fondina di una pistola in cui teneva le chiavi della macchina e il guinzaglio di uno dei suoi cani. Dreiser Cazzaniga entró nella sua macchina come si entra in un frigorifero, la barba gli si ricoprì si brina. Avrebbe trascorso i primi venti giorni in Africa tormentato da una violenta bronchite. L'interno della macchina era pieno di denti, conchiglie e feticci pelosi che pendevano sporchi da ogni gancio disponibile. Sui sedili giacevano abbandonati porno di Taiwan e film di Kungfu di Hongkong. Dreiser Cazzaniga si abbandonó alla spossatezza che precede la morte bianca mentre il veicolo si apriva il passo in un delirio di claxon e di mani tese che il Señor Zocco si affrettava a colmare di banconote stropicciate. La casa di Don Zocco era circondata da altissimi muri, cani rabbiosi, servi servili, siepi spinose. Dreiser Cazzaniga en varc'il cancello con il rombo rovente della febbre nelle tempie. Un servo in mutande trateneva a stento un cane dai denti coperti di una leggera bava rosa, Dreiser Cazzaniga non aveva piú forza per avere paura. La sua stanza gli fu mostrata e Don Zanco lo invitó a trascorrere la serata, se avesse voluto con i suoi invitati in piscina. Dreiser Cazzaniga declinó l'invito, ovviamente, Un motore di Boeing ronzava senza sosta nella sua testa, lo assordava lo spingeva a fumare una sigaretta dopo l'altra.
Solo. Cercava di dormire. Il motore non si spegneva, la notte era come un'immensa spugna caldissima e profumata, che ottundeva i sensi e lasciava solo il sussulto di sporadici palpiti di paura. Dreiser Cazzaniga cercó un po' di fresco guardando fuori dalla finestra. a finestra dava sulla piscina, nella piscina Don Zanco e i suoi amici saltavano tra gli spruzzi circondati da una decina di schiamazanti ragazzine nude. Sembravano trainati dalle punte dei loro sessi turgidi sui forti corpi spossati dal gin. Dreiser Cazzaniga rinunció a scendere in piscina, si rassegnó al motore del Boeing, si lasció cadere sul letto e cadde in un doloroso sopore. Poi il motore si spense, Dreiser Cazzaniga precipitó con terrore nel nulla del suo silenzio interno. Si riseveglió gridando nel silenzio azzurro della sua prima mattina africana, nell'illusione tanto dolce che i grandi alberi che incorniciavano il paesaggio che si vedeva dalla finestra fossero scaturiti di colpo dalla terra proprio nel corso di quella sola notte.
Il folle Melograno
In questi cortili bianchissimi dove spira il vento del sud
Sibilando per le stanze dalle ampie volte, ditemi: è il folle melograno
Che saltella nella luce spargendo la sua risata fruttuosa
Con ostinazioni e sussurri di vento? Diteni, è il folle melograno
Che freme in foglioline novelle con l'alba
Illuminando tutti i colori con un brivido di trionfo?
Quando nei campi ove si risvegliano nude le fanciulle
Mietono con bionde mani il trifoglio,
Percorrono i confini dei loro sogni, ditemi, è il folle melograno
Che insospettabilmente colloca nei suoi freddi panieri le luci
Con nomi traboccanti di gorgheggi? Ditemi,
È il folle melograno che combatte il coperchio di nuvole del mondo?
Il giorno che la gelosia adorna con sette tipi di piume
Abbbraciando l'eterno sole con migliaa di prismi
Accecanti, ditemi, è il folle melograno
Che afferra una criniera con cento frustate nella sua corsa
Mai afflitto mai brontolone? Ditemi, è il fole melograno
Che proclama a gran voce lo spuntare della nuova speranza?
Ditemi è il folle melograno che saluta da lontano
Agitando un fazzoletto di foglie di fuoco fresco
Un mare che sta per pertorire mille e una barca
Che onde che vano e vengono mille e una volta
Su spiagge inodore? Ditemi, è il folle meolgrano
Che fa scricchiolare le alte brigli nella trasparenza dell'etere?
In alto con grappolo glauco che s'incendia di festa
Arrogante, avventato, ditemi, è il folle melograno
Che fa scoppiare in luce nel bel mezzo del mondo i temporali del demonio?
Che estende da parte a parte la nuca di zafferano del giorno
Intrecciato con sparto? Ditemi, è il folle melograno
Che sbottona in fretta e furia la seta del giorno?
Sottoveste per il primo d'aprile e cicale a ferragosto
Ditemi, quegli che gioca, che infuria, che confonde,
Agitando come minacce le sue cattive ombre nere
Versando in grembo al sole uccelli inebrianti
Ditemi, colui che mette ali aperte al petto delle cose
Al petto dei nostri sogni piú profondi, è il folle melograno?
Odysseas Elytis
Orientamenti
Trad genseki
Sibilando per le stanze dalle ampie volte, ditemi: è il folle melograno
Che saltella nella luce spargendo la sua risata fruttuosa
Con ostinazioni e sussurri di vento? Diteni, è il folle melograno
Che freme in foglioline novelle con l'alba
Illuminando tutti i colori con un brivido di trionfo?
Quando nei campi ove si risvegliano nude le fanciulle
Mietono con bionde mani il trifoglio,
Percorrono i confini dei loro sogni, ditemi, è il folle melograno
Che insospettabilmente colloca nei suoi freddi panieri le luci
Con nomi traboccanti di gorgheggi? Ditemi,
È il folle melograno che combatte il coperchio di nuvole del mondo?
Il giorno che la gelosia adorna con sette tipi di piume
Abbbraciando l'eterno sole con migliaa di prismi
Accecanti, ditemi, è il folle melograno
Che afferra una criniera con cento frustate nella sua corsa
Mai afflitto mai brontolone? Ditemi, è il fole melograno
Che proclama a gran voce lo spuntare della nuova speranza?
Ditemi è il folle melograno che saluta da lontano
Agitando un fazzoletto di foglie di fuoco fresco
Un mare che sta per pertorire mille e una barca
Che onde che vano e vengono mille e una volta
Su spiagge inodore? Ditemi, è il folle meolgrano
Che fa scricchiolare le alte brigli nella trasparenza dell'etere?
In alto con grappolo glauco che s'incendia di festa
Arrogante, avventato, ditemi, è il folle melograno
Che fa scoppiare in luce nel bel mezzo del mondo i temporali del demonio?
Che estende da parte a parte la nuca di zafferano del giorno
Intrecciato con sparto? Ditemi, è il folle melograno
Che sbottona in fretta e furia la seta del giorno?
Sottoveste per il primo d'aprile e cicale a ferragosto
Ditemi, quegli che gioca, che infuria, che confonde,
Agitando come minacce le sue cattive ombre nere
Versando in grembo al sole uccelli inebrianti
Ditemi, colui che mette ali aperte al petto delle cose
Al petto dei nostri sogni piú profondi, è il folle melograno?
Odysseas Elytis
Orientamenti
Trad genseki
giovedì, novembre 18, 2010
Poesia dell'addio
Il sole sbriciola la sabbia bianca del cortile
Le palme agitano la criniera come un grido
È bene che tu beva il vino del disprezzo
Prima dell'addio
Non troverai un altro amico
Quando giungerai
Alle porte di Hûrqalya.
genseki
Le palme agitano la criniera come un grido
È bene che tu beva il vino del disprezzo
Prima dell'addio
Non troverai un altro amico
Quando giungerai
Alle porte di Hûrqalya.
genseki
Memorie di Dreiser Cazzaniga
Dreiser Cazzaniga e il macinino
Fin dalla piú tenera infanzia Dreiser Cazzaniga ebbe una percezione chiara di quelo che fosse l'immortalitá. Lui l'immortalitá la percepiva nelle cose, negli oggetti piú semplici che andava scoprendo in casa della Nonna Violante detta la Dama Azul. La casa della Dama Azul aveva due colori bellissimi, l'arancione della cucina e l'azzurro della stanzza da letto. Tutti i mobili dela cucina erano dipinti di un arancione solare e le gambe delle sedie e dei tavoli erano arancioni, il sole che entrava come a fiotti dalla finestra incorniciata di gerani esaltava il canto luminoso del colore, lo faceva esplodere negli occhi. La dama Azul, come era allora costume delle vecchie signore del Barrio aveva i capelli azzurri, e l'azzurro era l'altro colore della case, il colore che dominava nella stanza da letto freschissima in cui Dreiser Cazzaniga dormiva, leggeva e sognava. Dal soffitto pendeva una curiosa lampada che emanava una pallidissima luce azzurra che a Dreiser Cazzaniga faceva pensare alla morte. Non è che lui sapesse che cosa fosse la morte e che cosa avesse a che fare con quella fievole luce azzurra in cui ad osservala bene parevano predominare i toni verdi, un sottile verde cobalto, tuttavia le due immagini, la lucina e la morte era incatenate una all'altra. Molti anni dopo, la lucina azzurra avrebbe iluminato due grossi piedi pallidi e sporchi che spuntavano da una coperta troppo corta su di un letto troppo corto. Cosí sorgeva la morte agli occhi di Dreiser Cazzaniga, Gli oggetti della cucina immersi nela loro atmosfera di agrumi, invece, erano assolutamente immortali: erano immortali i piselli che egli aiutava a sgusciare traendol dal sacchetto di spessa carta marroncina, erano immortali gli stofinacci bianchi con l'impronta di qualche bruciatura, era immortale il macinino del caffe, era tutto di legno e quando si apriva il cassettino emanava un odore profondo che stordiva di piacere, era immortale il mortaio per fare il pesto di marmo grigio con le sue venuzze azzurre come i capelli della nonna Dama, era la grande radio di legno con le sue due pesanti porte di legno e tutte le colonnine che separavano gli altoparlanti, il vaso del basilico alla finestra la grattugia del parmigiano e quella ancora piú temibile del pecorino sardo che la nonna Dama Azul, la Violante benedetta ripuliva con infinita pazienza, con la lama di un colello per estrarne anche la piú piccola briciola di formaggio. Tutta questa meraviglia avvolgeva gli oggetti della cucina che sorgevano dal sempre, dall'evidenza, davanti a Dreiser Cazzaniga che li percepiva come meravigliosi proprio perché nel momente in ciu gli apparivano gli apparivano come rivelandosi sullo sfondo di una preeseistenza, un sempre che era l'evidenza stessa della loro permenenza. Dreiser Cazzaniga, bambino rabbrividiva di gratitudine per l'esistenza del mondo e per la sua indubitabile eternitá.
Fin dalla piú tenera infanzia Dreiser Cazzaniga ebbe una percezione chiara di quelo che fosse l'immortalitá. Lui l'immortalitá la percepiva nelle cose, negli oggetti piú semplici che andava scoprendo in casa della Nonna Violante detta la Dama Azul. La casa della Dama Azul aveva due colori bellissimi, l'arancione della cucina e l'azzurro della stanzza da letto. Tutti i mobili dela cucina erano dipinti di un arancione solare e le gambe delle sedie e dei tavoli erano arancioni, il sole che entrava come a fiotti dalla finestra incorniciata di gerani esaltava il canto luminoso del colore, lo faceva esplodere negli occhi. La dama Azul, come era allora costume delle vecchie signore del Barrio aveva i capelli azzurri, e l'azzurro era l'altro colore della case, il colore che dominava nella stanza da letto freschissima in cui Dreiser Cazzaniga dormiva, leggeva e sognava. Dal soffitto pendeva una curiosa lampada che emanava una pallidissima luce azzurra che a Dreiser Cazzaniga faceva pensare alla morte. Non è che lui sapesse che cosa fosse la morte e che cosa avesse a che fare con quella fievole luce azzurra in cui ad osservala bene parevano predominare i toni verdi, un sottile verde cobalto, tuttavia le due immagini, la lucina e la morte era incatenate una all'altra. Molti anni dopo, la lucina azzurra avrebbe iluminato due grossi piedi pallidi e sporchi che spuntavano da una coperta troppo corta su di un letto troppo corto. Cosí sorgeva la morte agli occhi di Dreiser Cazzaniga, Gli oggetti della cucina immersi nela loro atmosfera di agrumi, invece, erano assolutamente immortali: erano immortali i piselli che egli aiutava a sgusciare traendol dal sacchetto di spessa carta marroncina, erano immortali gli stofinacci bianchi con l'impronta di qualche bruciatura, era immortale il macinino del caffe, era tutto di legno e quando si apriva il cassettino emanava un odore profondo che stordiva di piacere, era immortale il mortaio per fare il pesto di marmo grigio con le sue venuzze azzurre come i capelli della nonna Dama, era la grande radio di legno con le sue due pesanti porte di legno e tutte le colonnine che separavano gli altoparlanti, il vaso del basilico alla finestra la grattugia del parmigiano e quella ancora piú temibile del pecorino sardo che la nonna Dama Azul, la Violante benedetta ripuliva con infinita pazienza, con la lama di un colello per estrarne anche la piú piccola briciola di formaggio. Tutta questa meraviglia avvolgeva gli oggetti della cucina che sorgevano dal sempre, dall'evidenza, davanti a Dreiser Cazzaniga che li percepiva come meravigliosi proprio perché nel momente in ciu gli apparivano gli apparivano come rivelandosi sullo sfondo di una preeseistenza, un sempre che era l'evidenza stessa della loro permenenza. Dreiser Cazzaniga, bambino rabbrividiva di gratitudine per l'esistenza del mondo e per la sua indubitabile eternitá.
L'eccentrico
L'eccentrico
Questa volta non avevo vie d'uscita
La cosa migliore era fare
Come tutti gli altri
La gente del villaggio non avrebbe capito
Nemmeno gli artisti della capitale,
D'altra parte, nessuno avrebbe capito
Lo sapevo bene.
Sarebbe stato beffardo, elegante,
Ma anche un tenero dono di speranza
Se non fossi stato sicuro che sarebbe passato inavvertito
Non restava piú nulla da esaminare,
Il tempo per la riflessione era trascorso.
Avevo stabilito il tempo e il luogo.
La veritá è che avevo già da qualche tempo
Deciso di cominciare ad invecchiare,
Per non dare troppo nell'occhio.
Qualche pelo bianco nella barba,
Passeggiare con il bastone, e tanti altri piccoli dettagli
Per rendere il tutto piú credibile.
Bastava già.
La decisione l'avevo presa. Sarei morto come tutti gli altri
Non avevo ancora deciso di che
Ma sarei morto, che diamine.
Proprio come mio nonne, il tempo dell'immortalitá
Non era ancora maturo, la societá non era pronta
Tutti erano tanto abiuati a morire
Tutti erano troppo abituati a morire,
Ci sarebbero volute generazioni per cambiare questa abitudine,
Questo costume tanto radicato
Se non fossi morto avrebbero
Finito per ammazzarmi
Sarei morto allora, da solo. Dovevo cercarmi un assasino
Su Facebucco o goggole.
O un'assasina che mi istillase goccia a goccia
Un veleno tiepido
Un estratto di anime marcite e peli madidi
Sarebbe stato un po' come fare l'amore.
Dovevo ricordarmi di controllare i trigliceridi
Chi rinuncerebbe a morire sano,
Senza cirrosi o colesterolo?
Prima di morire dovevo smettere di fumare
Fare lunghe passeggiate e rinunciare alla pancetta fritta
Sarei morto senza cancro perbacco
Ma sarei morto, Lo avevo deciso.
Non avevo altra scelta.
*
genseki
Questa volta non avevo vie d'uscita
La cosa migliore era fare
Come tutti gli altri
La gente del villaggio non avrebbe capito
Nemmeno gli artisti della capitale,
D'altra parte, nessuno avrebbe capito
Lo sapevo bene.
Sarebbe stato beffardo, elegante,
Ma anche un tenero dono di speranza
Se non fossi stato sicuro che sarebbe passato inavvertito
Non restava piú nulla da esaminare,
Il tempo per la riflessione era trascorso.
Avevo stabilito il tempo e il luogo.
La veritá è che avevo già da qualche tempo
Deciso di cominciare ad invecchiare,
Per non dare troppo nell'occhio.
Qualche pelo bianco nella barba,
Passeggiare con il bastone, e tanti altri piccoli dettagli
Per rendere il tutto piú credibile.
Bastava già.
La decisione l'avevo presa. Sarei morto come tutti gli altri
Non avevo ancora deciso di che
Ma sarei morto, che diamine.
Proprio come mio nonne, il tempo dell'immortalitá
Non era ancora maturo, la societá non era pronta
Tutti erano tanto abiuati a morire
Tutti erano troppo abituati a morire,
Ci sarebbero volute generazioni per cambiare questa abitudine,
Questo costume tanto radicato
Se non fossi morto avrebbero
Finito per ammazzarmi
Sarei morto allora, da solo. Dovevo cercarmi un assasino
Su Facebucco o goggole.
O un'assasina che mi istillase goccia a goccia
Un veleno tiepido
Un estratto di anime marcite e peli madidi
Sarebbe stato un po' come fare l'amore.
Dovevo ricordarmi di controllare i trigliceridi
Chi rinuncerebbe a morire sano,
Senza cirrosi o colesterolo?
Prima di morire dovevo smettere di fumare
Fare lunghe passeggiate e rinunciare alla pancetta fritta
Sarei morto senza cancro perbacco
Ma sarei morto, Lo avevo deciso.
Non avevo altra scelta.
*
genseki
Memorie di Dreiser Cazzaniga
La Gaviota di Solentiname
Gli amici di Dreiser Cazzaniga vivenano una doppia vita. Proprio tutti. Una era, appunto la loro vita. L'altra, meschina davvero, era quella che menavano nella scatola cranica di Dreiser Cazzaniga, sottomessi ai suoi bizzarri e cangianti paesaggi interiori. Condannati a lunghe e ripetitive conversazioni. A dire il vero questo destino Dreiser Cazzaniga non lo riservava solo agli amici, ma a parenti, amanti, nemici. Tutti condannati ad avere un doppio nella sua testa e a non poter saperlo.
Il piú condannato di tutti, comunque, era Dreiser Cazzaniga stesso. Egli non poteva, invero, godere, che so io, di una gita per le sierre autunnali che incoronavano dei loro fiammeggianti boschi e dei loro pascoli diamantini il barrio povero e infreddolito, senza dover convocare proprio a quella escursione uno dei suoi amici diletti. Si, certo uno dei tanti tenerissimi compagni che dovevano tradirlo, tutti o per l'abbraccio della Señora de las Aguas Verdes, o per un'avventura in compagnia di Jesús il Verde, una di quelle avventure che non hanno mai ritorno, o semplicemente pugnalarlo alle spalle con un pugnale intinto nel veleno, cosí, solo per vederlo contorcersi dal dolore.
Cosí Dreiser Cazzaniga peccatore cieco e meschinello abbandonato dalla Grazia era condannato a vivere qualsiasi esperienza estetica, amorosa, politica, o sportiva, soltando condividendola con questi doppi ignari. Erano i suoi prigionieri. Erano velieri in bottiglia. La sua mente era la bottiglia. Imprigionandoli, peró Dreiser Cazzaniga finiva per imprigionare soprattutto se stesso. Come vivere con una Dama Bunducchia nella testa che vi va sbavando tutto il parquet dell'anima con la sua bava di alcolista mentre voi le sputate addosso tutto il vostro furioso, inutile disprezo,? Come contemplare un dipinto di Paolo Veronese discutendone tutti i particolari con lo zio Cardinale, quasi catatonico e dallo sguardo a tratti misteriosamente indulgente, mentre gli si dimostrava con logica impeccabile quanto spregevole e straccione fosse il Profeta di Nazareth, per vederlo ridere soddisfatto, guardandosi le unghie pallide sulla veste rossissima macchiata di ragú? Era piú terribile essere la bottiglia che il veliero o il piccione che vi era restato imprigionato. Dreiser Cazzaniga viveva solo se poteva porre tra se e la vita la conversazione immaginale con un doppio. Uno strazio. Penitenza e preghiera avrebbero forse potuto salvarlo Ma questo non avvenne. La bottiglia si ruppe da sola. O meglio fu il doppio di una certa dolcissima bianca gabianella che semplicemente ruppe la bottiglia col piccolo becco crudele aduso a sventrare i piccioni e Dreiser Cazzaniga la vide volare via nel cielo immenso che era anche esso nella sua mente, intendendo cosí che la sua mente non era una bottiglia ma un universo. Rotta la bottiglia tutti furono liberi, felloni e leali, vivi e morti, tutti i doppi ritrovarono la loro libertá e Dreiser Cazzaniga ritrovó il silenzio, la Rosa Blanca, il perdono e respiró finalmente la bellezza del mondo e dell'essere mortali. Dolce Gabbianella. Forse ella fu, o meglio il suo doppio fu, un inconsapevole strumento della Vergine Pastora. Dreiser Cazzaniga amó la di lei libera rotta, la carena, la vena e il palpito per tutta la sua pigra vecchiezza.
Gli amici di Dreiser Cazzaniga vivenano una doppia vita. Proprio tutti. Una era, appunto la loro vita. L'altra, meschina davvero, era quella che menavano nella scatola cranica di Dreiser Cazzaniga, sottomessi ai suoi bizzarri e cangianti paesaggi interiori. Condannati a lunghe e ripetitive conversazioni. A dire il vero questo destino Dreiser Cazzaniga non lo riservava solo agli amici, ma a parenti, amanti, nemici. Tutti condannati ad avere un doppio nella sua testa e a non poter saperlo.
Il piú condannato di tutti, comunque, era Dreiser Cazzaniga stesso. Egli non poteva, invero, godere, che so io, di una gita per le sierre autunnali che incoronavano dei loro fiammeggianti boschi e dei loro pascoli diamantini il barrio povero e infreddolito, senza dover convocare proprio a quella escursione uno dei suoi amici diletti. Si, certo uno dei tanti tenerissimi compagni che dovevano tradirlo, tutti o per l'abbraccio della Señora de las Aguas Verdes, o per un'avventura in compagnia di Jesús il Verde, una di quelle avventure che non hanno mai ritorno, o semplicemente pugnalarlo alle spalle con un pugnale intinto nel veleno, cosí, solo per vederlo contorcersi dal dolore.
Cosí Dreiser Cazzaniga peccatore cieco e meschinello abbandonato dalla Grazia era condannato a vivere qualsiasi esperienza estetica, amorosa, politica, o sportiva, soltando condividendola con questi doppi ignari. Erano i suoi prigionieri. Erano velieri in bottiglia. La sua mente era la bottiglia. Imprigionandoli, peró Dreiser Cazzaniga finiva per imprigionare soprattutto se stesso. Come vivere con una Dama Bunducchia nella testa che vi va sbavando tutto il parquet dell'anima con la sua bava di alcolista mentre voi le sputate addosso tutto il vostro furioso, inutile disprezo,? Come contemplare un dipinto di Paolo Veronese discutendone tutti i particolari con lo zio Cardinale, quasi catatonico e dallo sguardo a tratti misteriosamente indulgente, mentre gli si dimostrava con logica impeccabile quanto spregevole e straccione fosse il Profeta di Nazareth, per vederlo ridere soddisfatto, guardandosi le unghie pallide sulla veste rossissima macchiata di ragú? Era piú terribile essere la bottiglia che il veliero o il piccione che vi era restato imprigionato. Dreiser Cazzaniga viveva solo se poteva porre tra se e la vita la conversazione immaginale con un doppio. Uno strazio. Penitenza e preghiera avrebbero forse potuto salvarlo Ma questo non avvenne. La bottiglia si ruppe da sola. O meglio fu il doppio di una certa dolcissima bianca gabianella che semplicemente ruppe la bottiglia col piccolo becco crudele aduso a sventrare i piccioni e Dreiser Cazzaniga la vide volare via nel cielo immenso che era anche esso nella sua mente, intendendo cosí che la sua mente non era una bottiglia ma un universo. Rotta la bottiglia tutti furono liberi, felloni e leali, vivi e morti, tutti i doppi ritrovarono la loro libertá e Dreiser Cazzaniga ritrovó il silenzio, la Rosa Blanca, il perdono e respiró finalmente la bellezza del mondo e dell'essere mortali. Dolce Gabbianella. Forse ella fu, o meglio il suo doppio fu, un inconsapevole strumento della Vergine Pastora. Dreiser Cazzaniga amó la di lei libera rotta, la carena, la vena e il palpito per tutta la sua pigra vecchiezza.
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