domenica, gennaio 29, 2012
Flannery
O'Connor
Da: "Sangue sapiente"
Ebbene
io predico la Chiesa senza Cristo, sono membro e predicatore di
questa chiesa in cui i ciechi non vedono e i paralitici non
camminano e i morti restano belli morti. Chiedetemi di questa chiesa
e vi dirò che è quella in cui il sangue di Cristo non intrappola
con la redenzione.
- È un predicatore disse una donna -. andiamocene.
- Ascoltatemi tutti, porterò con me, ovunque io vada questa verità – grido Haze -
Predicherò
che non vi fu caduta perché non vi era dove cadere, non vi fu
redenzione perché non vi fu caduta e nemmeno il giudizio per
mancanza delle due precedenti condizioni. Nulla ha importanza meno il
fatto che Gesù era un mentitore.
Un
ometto riunì le sue figliole e le le spinse di fretta dentro il
cinema, re ragazzi se ne andarono ma arrivarono altre persone e Haze
riprese daccapo quello che aveva detto. Anche questa gente se ne andò
e altra sopravvenne e lui ripeté il suo sermone per la terza volta.
Anche queste persone se ne andarono e non ne arrivarono più altre e
restò solo la donna che vendeva i biglietti dietro il vetro. Non
aveva mai smesso di fulminarlo con lo sguardo senza che lui se ne
rendesse conto. Portava occhiali con diamanti falsi sulle stanghette
e i capelli ammucchiati a salciccia intorno al capo. Schiacciò la
bocca contro uno dei fori dello sportello e gridò:
- guardi che se lei non ha una chiesa dove predicare, non vedo perché debba venire a farlo qui davanti a questo cinema.
- La mia chiesa è la chiesa senza Cristo e se non vi è Cristo non vi è nessuna ragione per predicare in un posto fisso.
- Guardi, disse la signora, se non se ne va subito da davanti a questo cinema chiamerò la polizia!
- È pieno di cinema davanti ai quali predicare. …
Quella
stessa sera predicò davanti a tre altri cinema.
trad genseki
martedì, gennaio 24, 2012
Toute
règle de vie qui serait uniquement fondée sur une théorie
philosophique et des principes abstraits serait téméraire : je ne
puis différer d’agir jusqu’à ce que l’évidence ait paru, et
toute évidence qui brille à l’esprit est partielle.
Une
pure connaissance ne suffit jamais à nous mouvoir parce qu’elle ne
nous saisit pas tout entiers : en tout acte, il y a un acte de foi.
Blondel
Ogni regola di vita che si fondasse esclusivamente su una teoria filosofica o su principii astratti sarebbe temeraria: non posso procrastinare l'azione fino a che si sia manifestata l'evidenza, e, inoltre, ogni evidenza che illumini lo spirito è parziale.
La pura conoscenza non è ma sufficiente a muovere i nostri atti: in oggni atto vi è un atto di fede
trad genseki
domenica, gennaio 22, 2012
Leggero
Leggero
come la svolta ad una pagina
Tra
pascolo e frangia di betulle
Come
lo scoiattolo che osserva il beduino
a
prudente distanza tra i bagolari
Come
la corsa dei ciottoli dal versante
Al
torrente che caccia innanzi
L'ombra
furente delle ultime nevi.
Noi
restiamo nascosti dietro gli specchi
Invece,
dove poco a poco si accumulano
Le
foglie morte, i ricordi, le elitre perdute
Da
tanti ronzii, da prima che i rettili
Saettassero
lingue vermiglie
E
un vecchio dagli alluci pensili
Si
mettesse a suonare il violino a testa in giù
Tra
i rami del brachichito.
Leggero
come il caffé del mattino
Mentre
l'ultimo governo illegittimo bombarda
I
binari
E
la stazione si alza verso la spiaggia
Dove
i gusci delle fregate affondano
Nel
mare asperrimo di vino.
Leggero
sarà per tutti con un lieve sorriso.
genseki
Illuminazione e mercato
Rileggendo il libretto di Thaddeus Golas, che risulta essere sconosciuto in Italia ma che pare aver goduto di un discreto succeso negli USA, negli ani settanta, prima che la letteratura meditativa, illuminativa, gnostica, e acquariana diventasse un genere niosamente reiterativo, mi è capitato di riflettere su come questo tipo di testi, nel momento del loro sorgere, nel momento della loro origine possedessero una umiliante capacità di seduzione di cui i loro attuali epigoni, sfuocati, sono invece totalmente privi.
Chi mai si lascerebbe sedurre davvero dai manualetti di Giacobbe o di Celestino? Invece Golas, come Leary, si che seducevano.
Castaneda merita un discorso a parte anche se i suoi epigoni maya e toltechi sono davvero pallide melense banalità senza neppure un ricordo della sua capacità di affabulazione.
La forza di seduzione del testo di Golas, come di altri è la stessa di un supermercato nel periodo di Natale.
Quello che Golas chiama illuminazione altro non è che la percezione intuitiva dell'universo delle merci come totalità autarchica.
L'illuminazione è lo spazio che garantisce la possibilità di godere dell'universo della merce simultaneamente e in modo iterativo.
La merce è merce solo per il desiderio, il desiderio è figlio della scarsità. L'orizzonte dell'illuminazione di quegli anni è l'illusione della possibilità di un desiderio che si riproduca nell'abbondanza, che sorga dalla sazietà, un desiderio che sia realizzato nel momento stesso del suo sorgere. Anzi un desiderio che sia originariamente anche la sua realizzazione. In modo tale che fin dal principio non si abbia nulla da desiderare perché tutto quello che si può desiderare è già in nostro possesso ma senza che per questo il desiderio venga meno.
L'illuminazione è come un supermercato di cui si abbia la sicurezza di aver comprato tutte le mercj godendo infinitamente dell'atto di comprarle.
Uno degli aspetti più ironici del testo di Golas, oltre quello di situarsi in un mercato atemporale, sta nel fatto che la pretesa di esporre un insegamento eterno si realizza in un linguaggio che in pochi lustri è diventato opaco.
Mi riferisco qui al passepartout costituito dalla parola “vibrazione”. Tutto quanto è sempre in vibrazione, le vibrazioni possono essere positive o negative, la vibrazione spiega tutto, ogni questione può essere ricondotta alla vibrazione senza che mai si spieghi che cosa sia una vibrazione.
Credo che questa buffa idiosincrasia vibratoria sia dovuta al sistema educativo americano del tempo che probabilmente enfatizzava il conoscimento scientifico e al suo interno quello della regina delle scienze di allora: la Fisica. In fisica “vibrazione” ha un senso. In metafisica non, non ha nessun senso, ma svolge la funzione di dare alla metafisica un'illusione del prestigio di cui gode la fisica. “Tutti gli essseri vibrano” ci insegnava Golas. E questo ci produceva come un solletico, un prurito piacevole. Adesso nessuno potrebbe più capire che cosa diavolo vogia dire questa frase. Adesso le scienza di riferimento sono altre, sono neurologiche e genetiche e tutta la retorica dell'illuminazione ha riconvertito i suoi utensili introducendo reti neuronali e mappe anch'esse neuronali e catene di Dna ,Adn e altre scientificherie.
Resta la nostalgia di questa illuminazione vibrante, come dell'immaginario del comandante Kirk in cui il senso del progresso si concentra nel momento il cui lui e il sig. Spok, il vulcaniano si fermano un istante esitando davanti a una porta trasparente che con un lieve fruscio si aprirà da sola. Finalmente.
genseki
La prossimitá della follia
L'incapacità di riconoscere la follia, non ha proprio nulla di singolare, e oserei dire, che è piuttosto prossima a essere la norma, non si tratta di un fenomeno relativo a individui isolati, ma a intere nazioni che, come la storia ben lo insegna, spesso, a causa di tale influenza (...), si lasciarono condurre verso l'abisso dalla strana capacità di persuasione che possiede la logica apparentemente senza difetti del delirio, sebbene in essa tutto sia in sé contraddizione.
Juan José Saer
da "Le nubi"
trad. genseki
venerdì, gennaio 20, 2012
La posizione della finitudine
In che cosa consiste situarsi in modo corretto nella coscienza compiutamente posseduta della propria finitudine?
In primo luogo va detto qualche cosa a proposito di questa finitudine in relazione con il noi o con l'io di cui costituisce il limite.
La finitudine non è esattamente la morte. Perché anche in una prospettiva cristiana o induista i resurrezione o di reincarnazione quello che risulta cancellata è la morte ma non la finitudine, posto che sia la reincarnazione sia la resurrezione sono innegabilmente discontinuità che si articolano in fine e principio.
Pensare la propria finitudine è un esercizio ben arduo posto che, in realtà quello che siamo stati educati a fare è cercare in tutti i modi di considerarla superata, di stabilirci nel terreno sicuro della durata, sul suolo stabile dell'eternità.
Siamo stati educati a credere in valori che non periscono, a lottare per fini eterni, a stabilire principi immutabili. A pregare Dio.
Tutte cose, queste, assolutamente incompatibili con la nostra lamentevole finitezza.
Questo vale per coloro che hanno ricevuto un'educazione religiosa come per coloro che sono stati tirati su nell'ateismo, nell'agnosticismo, nell'epicureismo o nell'indifferenza.
Pensare la propria finitudine a partire dalla propria finitudine significa inevitabilmente pensare a partire da un dove che ha da essere un quivi e che non può essere mai uno dei tanti altrove. Un quivi definito nel senso strettissimo della sua infima spazialità, mettiamo che sia non più di un tatami, non può certo essere un quivi maggiore di un tatami!
Vi sono due modi principali di stare nel quivi, due tra molti. Uno è quello di radicarsi nel quivi come se si dovesse resistere ai venti pugnaci dell'altrove e come se il quivi fosse superiore all'altrove; l'altro è quello di considerare il quivi uno dei possibili altrove, cioè un caso particolare dell'altrove che per la coscienza della finitudine ci contiene come un quivi e non come un ovunque.
La coscienza finita è coscienza di stare sempre qui. Non perché quivi siano contenuti tutti gli altrove ma perché quivi è il solo altrove possibile per una coscienza finita.
Bisogna che il quivi della coscienza finita non è la negazione dell'altrove, è la forma dell'altrove dal punto di vista della finitudine. Insomma un tatami. La vita quotidiana nelle condizioni attuali, quasi ci obbliga a situarci nell'altrove.
genseki
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