domenica, gennaio 30, 2011

Al margine dell'abetaia

Era tutto un trascorrere di lupi sotto i cavi
Al margine dell'abetaia
Quando la tua ora si faceva acqua profonda
La mia pazienza asta e fuscello
Ti toglievi gli scarponi ogni volta
Che seduta scorgevi un grumo di malva
La pulmonaria assorbiva gli ululati
Nella mia gola il groppo di non baciarti.
Poi fu uno scudisciare di fianchi, larici
Strisciante l'odore della pelle gridava
Il tuo ricordo
Agli spettri dei rododendri.

genseki

Scoriosozzo

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Odessa

Ad Odessa ti aspettavo all'aereoporto
Ansioso di vederti spuntare con l'impermeabile giallo
Il tichettio sotto le braccia e la valigetta
Di metallo sferico
ma era in una latteria che reclinavo la testa
Una di quelle della mia infanzia
Con cannella e ardesia
a profumare il crepuscolo
E un sogno di giacinti stridenti
Le mosche le friggeva quella lampada azzura
E fu così che non seppi abbandonare i tuoi occhi
Ad altre ali, ad altri coltelli
A fendere il volo e la polpa
Poi furono solo labbra e abbracci
Il profumo acre di terital
Il tuo dolore che mi sprigionava
Come un nodo, un virgulto di muscoli
L'impermeabile giaceva davanti al caminetto
Come nei migliori film di una volta
La coperta era anch'essa in bianco e nero
Come la busta di vaniglia del lattaio.

genseki

Roque Dalton


Bolañismi

Soñé que estaba soñando y que en los túneles de los sueños encontraba el sueño de Roque Dalton: el sueño de los valientes que murieron por una quimera de mierda.

Sognai che stavo sognando e che nei tunnel del sogno incontravo il sogno di Roque Dalton: il sogno dei valorosi che morirono per una chimera di merda.

Roberto Bolaño
Trad. genseki

Roque Dalton

Alta ora di notte

Quando mi saprai morto tu non dire il mio nome
Perchè si fermerebbero e la morte e il riposo.

La tua voee, campana di tutti e cinque i sensi
Sarà il pallido faro che la mia nebbia cerca.

Quando mi saprai morto dimmi sillabe strane
Pronuncia pane, fiore, ape, lacrima e tormenta.

Non lasciare che le tue labbra trovino le mie undici lettere,
Ora ho sonno, ho amato e ho vinto il silenzio.

No, non dire il mio nome quando mi saprai morto
Dalla terra più oscura mi chiamerebbe la tua voce.

No, non dire il mio nome, non lo dire, per favore
Quando mi saprai morto tu non dire il mio nome.

27/01/11
14:38:09

Il mare

Ci sono grandi pietre nella tua tempestosa oscurità
Grandi pietre con le loro date lavate dalla tua ombra
Perchè persino il sole mangia della tua ombra

Scricchiola nel freddo congedandosi dall'aria
Che non osa penetrare in te.

O mare in cui i disperati possono dormire
Cullati da impassibili esplosioni
Alfabeto di vertigine paisage diluito che aggrediscono i muri
I gabbiani, la spuma dei pesci sono la tua primavera
La furia è una piramide verde
Una resurrezione del fuoco più acuto il tuo clima
La tua miglior traccia sarebbe una chiocciola
Che cammina con passi di bambino nel deserto.

Siempre amai i villaggi dissimili
Apparentemente rubati dalle mani del mare
Citfadine presso la sabbia
Porto scandalosi nel'elbrezza del salnitro
Casali rabbrividenti tra la nebbia piena di coralli
Grandi citàa titanice di fronte alle tempeste umiliate
Borghi di pescatori ciechi sotto un faro di olio
Fabbriche in agguato tra gli atolli con un largo coltello
Valapraiso come una grande cascata sospesa
Manta Punàa porti dell'Ecuador negatori delle foglie
Buenaventura aromatica come un gran porto sudicio
Panamàa con gli occhi (punzados?) dalla depravazione
Cartagena sempre in attesa dei pirati
Affamata
Wilemstadt naufraga nei domini del petrolio
Tenerife e la sua dolce coppa di vino
Barcellona che sbadiglia tra banche e carabinieri
Napoli bellamente tumefatta
Genova Leningrado Sochi La Guaira Buenos Aires
Montevideo come una margherita
Puerto Limon Corinto
Acajutla in una lenta spiaggia della mia patria
Dove tuti si guardano nello specchio pesante solcato dai delfini
Scostando come rapida sciabila
Le spighe infinite di smeraldo.


Ora di cenere

Finisce settembre. E' l'ora giusta per dirti
Quanto difficile è stato non morire.

Questa sera per esempio
Ho nelle mani grige
Libri belli che non so comprendere,
Non potrei cantare sebbene abbia smesso di piovere
E non ho ragione di ricordare
Il primo cane che amai da bambini.

Da quando ieri te en andasti
Persino la musica si è fatta umida e fredda.
Quando morirò
Solo ricorderanno il mio giubilo mattutino e palpabile,
La mia bandiera senza diritto a stancarsi,
La concreta verità che distribuii dal fuoco,
Il pugno che resi unanime
Con il clamore di pietra che pretese la speranza.

Fa freddo senza di te, Quando morrò
Diranno con buone intenzioni
Che non seppi piangere
Piove di nuovo.
Mai come oggi hanno tardato tanto le sette meno un cuarto.

O voglia di ridere
O di uccidermi.

*

Trad. genseki

Luis Cernuda

Luis Cernuda

Dove vive l'oblio

Dove vive l'oblio
In quei vasti giardini senza aurora
Dove io solo sia
Memoria di una pietra sepolta tra le ortiche
Sopra la quale il vento alla sua insonnia sfugge

Dove il mio nome lasci
Tra le braccia dei secoli il corpo che designa,
E non vi sia più nessun desiderio.

In quella gran regione ove l'angelo terribile dell'amore,
Non celi come acciaio
Nel mio petto la sua ala,
Sorridendo pieno di grazia aerea mentre cresce il tormento.

Là dove infine abbia termine l'affanno che esige un padrone ad immagine sua
Sottomettendo la propria a un'altra vita
Senza altro orizzonte che quello d'altri occhi fronte a fronte.

Dove pene e fortuna siano soltanto un nome,
Cielo e terra nativi attorno ad un ricordo,
Dove senza saperlo io mi ritrovi libero
Dissolto nella nebbia, assenza,
Un'assenza leggera come carne di bimbo

Laggiù, laggiù lontano
Dove vive l'oblio.

IV

Io fui

Colonna ardente, luna di primavera
mare dorato, occhi grandi.

Cercai quel che pensavo
Pensai come nel languido sogno dell'alba,
Quel che il desio dipinge nei giorni adolescenti.

Cantai, salii,
Un di fui luce,
In fiamma trascinato.

Come un colpo di vento

Che l'ombra va disfando
Nel nero caddi,
Nel mondo mai sazio

Son stato.

V

Voglio con afanno sonnolento
Della morte più lieve godere
Tra i boschi ed i mari di rugiada
In aria dissolto che trascorre e ignora

La morte voglio averla tra le mani
Rapido frutto colore di cenere
Fragile qual corno
Di luce quando nasce l'inverno
Voglio poterne bere la lontana amaezza:
Voglio ascoltarne il sogno dal rumore di arpa
Mentre sento diffondersi il freddo nelle vene
Perchè soltanto il freddo mi potrà consolare.

Morro' d'un desiderio
Se sottil desiderio vale morte;
Di me stesso privato vivere di desiderio
Senza mai risvegliarmi, senza ricordi
Lassù, lassù perduto nel freddo della luna.

*

VI

Il mare è un oblio
Una canzone, un labbro
Il mare è un amante
Che risponde al desio

È come un usignolo
Le sue acque son piume
Impulsi che si alzano
Fino alle fredde stelle

Accarezza con sogni
Che schiudono la morte
Che son lune accessibili
Son la vita più alta.
Sopra le spade oscure
Van le onde godendo.

*

trad genseki

Punto per punto

Punto per punto corrispondeva
Il tracciato del tuo candore con lo zenith
Con il calore vuoto del rame con le sue mani adunche
Quando afferravano lo specchio
Per maledire la lebbra degli occhi, la speranza
Delle labbra e tuttte quante le possibili preghiere:
Invoca il concavo risuonare su se stessa
della costernazione, quando anche il cielo
manca al respiro – gridava
E l'accoglievi aprendo tutti i pori
Alla pioggerellina rinfrescante della disperazione.

genseki
 
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La mano cerca il cenno

La tua voce cercava la parola come
La mano cerca il cenno, l'occhio il sottinteso
Come l'ala smarrita cerca la caduta
E il volo il rigore retto del mezzogiorno
La tua voce cercava la parola
Come il bagliore cerca l'elissi
Come qualsiasi sfera il punto e a capo
La tua voce si cercava nella parola
Come Achille cercava una tartaruga
Che accettasse la competizione
Come la trama cerca il dialogo
Il sentiero le orme l'erba del te il tepore del burro
La tua voce si cercava sempre a una soglia
Su di un limite sostando presso il verbo
Infinitamente vicina al suo svelarsi
Nella caducitá del proprio senso.

genseki

Agua Mojada

Guardala come si divincola
Come cerca di sfuggire alla storia
Di rientrare a tentoni nello sguardo
Da cui era uscita in forma di certezza
In quello spazio tra corpo e consapevolezza
In cui ogni corpo appare come oscenamente triste
Per volersi separare dalla sua genericitá
Eddai! Guarda come si contorce, tutta bagnata
porta qua quegli stracci, le orecchie, i tasselli
Porta qua, svelto prima che piova
Anzi, guarda che sta giá piovendo come
Quando eri bambino ad Ormea e la pioggia
Si porta via la neve sporca, la neve che non è piú bianca ma è sporca
E la pioggia se la porta via la porta via nei tombini
Sotto terra la neve bianca ma sporca sotto la terra nera
Piange e la pioggia cade sulla pioggia
Strato di pioggia su strato di pioggia
E lo sguardo cade sullo sguardo
Strato di sguardo su strato di sguardo
E la storia cade sulla storia strato a strato di storia
Fino a coprire lo sguardo della sua ignominia
E inutilmente si divincola si scuote scampana
Strilla come acqua su acqua la storia
La storia si scioglie nel tempo

genseki

Carne Manzottin

Il Duca detto anche lo Spadaro

Si dice, nelle piole dei borghi prossimi, che a Scoriosozzo qualcuno pur visse - , sussurró il comissario Fabro appoggiandosi rumorosamente alla spalliera della vecchia sedia - un tal Buca o Duca detto Spadaro, di lui poco si sa, se non che vegetava e ingrassava accanto alla stufa inebetito dalla televisione. Si dice che en tenesse accesa piú d'una contemporaneamente, en possedeva, pare, varie decine, e scendesse alla pianura in contate occasioni con una vecchia carretta dal bagagliaio pieno di scatolette di carne manzottin. Tutti nella valle e nella pianura hanno visto qualche volta un catorcio sudicio pieno di scatolette di carne manzottin. Sembra che la carne manzottin non la abbia mai tirata fuori dal bagagliaio. Perché teneva il bagagliaio zeppo di scatole di carne manzottin? Lermita, dica sinceramente, lei ha mai aperto nella sua vita una scatola di carne manzottin, en ha mai gustato il contenuto? - Comissario che cosa vuole da me? Risposi in un tono accentuato di stizza annoiata. - Non la prenda cosí caro Lermita, soltanto voglio che condivida con me questo esperimento – e, dopo aver goffamente frugato nelle tascone della deformata giacca di fustagno giallino che un tempo era forse stata arancione, gonfiate da una intera collezione di grandi mandilli stropicciati che dovevano aver raccolto e seccato intere secchiate di sudore commissarile, en trasse una scatoletta di carne manzottin, infilando l'indice nell'apposito anello con la cautela e il rispetto con cui il giovane sposo infila l'anello nuziale al dito della snella fanciulla davanti all'altare adornato di gigli, anche se in questo caso la manovra era all'inverso giacché si trattava di infilare l'anello nel dito e non il dito dell'anello di modo che non potevo fare a meno di pensare ad un oscena parodia del sacramento, inscenata con sfacciatagine blasfema dal comissario Fabro, per inveterato liberopensantismo o per studiare quelche mia reazione per qualche sua misteriosa ragione, aprí il contenitore metallico, e con l'altra mano rovesció il suo contenuto rosa e gelatinoso in un piattino celeste che il solerte cameriere, a un suo cenno imperioso gli aveva testé recato. I frammenti di carne rosa sfumavano nel grigio torbido della gelatina che verso l'esterno del cilindro, di cui aveva assunto per compressione la forma, andavano acquistando una tonalitá giallina, filamenti sopravissuti ad una soprannaturale macelleria in una nebbia solidificata, tutto il cieco orrore della realtá mi strinse la gola in una morsa ferrea, soffocavo, l'insensatezza impenetrabile dell'essere tremava come un cuore sfiancato negli ultimi battiti rosa dei filamenti che si dibattevano nella loro gelatina; Fabro trasse dal viluppo dei mandilli il suo opinello con cui divise esattamente in due la massa che ai miei occhi pareva palpitante, per un attimo pensai che i frammenti di carne trasformati in pseudopodi schizzassero verso i miei occhi e mi penetrassero nel cervello per succhiarmi quello che mi restava di autocoscienza – Che cosa le succede Lermita? - La voce di Fabro mi liberó da quell'incubo, i filamenti rientrarono nella gelatina e i miei occhi nelle loro orbite. Fabro mi stava offrendo nel piattino azzurro una metá della carne, l'altra meta la stava giá rumorosamente masticando lui, vincendo il ribrezzo con uno sforzo sovrumano la inghiottii anch'io a bocconcini. Perché il Duca Spadaro girava per la valle con il bagagliaio pieno di scatole di carne manzottin? Vi era un qualche legame tra Duca Spadaro e Dreiser Cazzaniga? La carne manzottin aveva qualche cosa a che fare con la morte di Dreiser Cazzaniga? Io en avevo mangiato un pezzo e non ero morto li per li. La carne manzottin era un segnale, un messaggio, una domanda? Dreiser Cazzaniga en conosceva la risposta e per questo doveva essere messo a tacere?
Tristano Lermita

Il Cadavere di Dreiser Cazzaniga a Scoriosozzo

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sabato, gennaio 22, 2011

Prima del grande urto

Avrei voluto averti conosciuta
Prima di addormentarmi nella macchina
Di addormentarmi davanti al palmizio
E il rombo poi e tutto quello sfacelo
E il gusto di bile nella bocca e di zinco
E le lacrime della carne come stille
Di rimorso quando ti caddero le forbici dal grembo
E i miei occhi si fecero porosi
Al potassio, al silicio del tuo ventre
Avrei voluto conoscerti prima del grande urto
Prima della voce roca prima della cassa toracica
Della fiera affamata, del pietrificarsi della fiamma nel focolare
Tra stemmi de emblemi avrei voluto conoscerti
Elevando il tuo fiato ad orifiamma
I tuoi occhi a guizzo di tromba il tuo dolore
Come la volpe in fuga si sarebbe nascosto tra le felci
la mia polvere si sarebbe deposta
Sui tuoi scaffali, sui tuoi guanciali come nel sogno
Del gatto che dorme ora sul raso e ti conserva
per se e per me in possibile memoria.

genseki

Rimorsi

Per tanti anni ho pascolato i miei rimorsi
Alla falda dei tuoi capelli, dimentico
Che nel mondo c'erano ancora nuvole,
Che il ghiaccio continuava a fiorire dal granito
I miei rimorsi li ho nutriti di verbena,
Di rucola, di erba cipollina, ma erano i tuoi capelli
Il loro orizzonte, la tua chioma screpolata e lisa
Il suo odore di acquaragia e nei giorni di festa
Di pinosilvestrevidal.
Neppure il rimorso piú piccolo ho voluto
Lasciarlo preda dei denti, l'ho stretto al petto
Come un tumore, come un ratto lo ho coccolato
E intanto crescevano i tuoi capelli, fino ai larici
Fino al pino mugo gemevano nella brina
Come steli spezzati, gocciolavano appena
Spruzzati di notte a ricordarmi quanto fosse
Pieno, il nostro niente ardente di tanto dolore
E il rimorso un ricorso prudente di fronte
A tutto il male che ci univa nella comune abiezione
Di animali infermi di parola, di verbo infetti
E di voce corrosa.

genseki

Schoenberg, Pelleas und Melisande, Abbado, GMJO 1

Un'altra Melisande

Ancora su Melisanda si distende il pensiero
Avvinto dalla sua natura vegetale,
Dal suo pullulare e germogliare dal susurro
Che sono le sue parole, la memoria radicale
Non sa di luoghi la sua tensione è atopica
Si sviluppa sempre come dentro se stessa
Per questo e solo per questo la chioma, rossa,
O aranciata è mistica imitazione dell'acqua
Ovazione al multiple frullo di tanti uccelli
Tutti vorrebbero bere dai suoi capelli
Io vorrei bere dai suoi capelli
La conoscenza liquida dello sprofondare in verticale
Nel corpo terroso ehe ci modella.
Il vero abbraccio è abbraccio di acqua e terra
Il solo amplesso in cui tutto si trasforma
Nella prossimitá del senza forma.
O Melisanda che non hai dato frutto
Ma solo chioma e rami d'etere e cromo
Nei pozzi rabbrividiva in te l'estraneitá
Gelida dei cieli, delle loro metalliche distanze
Ma lo spazio era nulla al tuo narcotizzante germinare
Le tue parole ti ricoprivano come corteccia.

*
genseki

Melisande

Cazorla

La tua voce

No, la tua voce non la trovi nella poesia
Non risuona nel gioco delle vibranti
Liquida come il guizzo della lingua
Nel sogno torrenziale del bacio,
Di quel bacio, o di quel petalo
La tua voce non si spezza qui in inflessioni
Di edera e di felce elastiche come il passo
Di una mattina elegante correndo in un parco alla moda
Tra scoiattoli e tepore non raschia l'intonaco
Non aderisce alla pietra come la lucertola agostana
Nel chiaroscuro del patio, non brilla nel fondo del pozzo
Come la corona di Melisanda
Non affoga avvolgendo come la cascata dei suoi capelli
Melisanda appartiene al mondo vegetale,
Esprime il desiderio della clorofilla
La tua voce furono forse le spine che la prefigurararono
O il luppolo scabroso e adesivo, ma certo sotto la sua pelle
Vellutata da pomice e borotalco
É l'animale che si tende nel sua salto verso la morte
La tua voce si faceva di malva e violetta
Aprendosi al mio goffo silenzio
Come il bosco al ricordo del temporale
Ma a stento contiene i brividi lo strazio
Degli artigli, la convulsione gemella della preda e del predatore
La tua voce non risale dalla profonditá della poesia
Fino a farsi coscienza della parola ma si acquatta nella sua morte
Come un bianco felino in una tana,
Madida e felpata, come la tua lingua di un altro bacio
...

Scoriosozzo

Che cosa ci faceva Dreiser Cazzaniga nei boschi di Scoriosozzo, che cosa lo aveva spinto a recarsi alle pendici del Monte Mucrone, alle soglie alte e luminose della Melanopartene, che avvolta nei suoi sette mantelli rossi benediceva il dolore dei pellegrini accogliendoli uno a uno tra i pesanti panneggi per un tempo sempre molto breve ma che ai meschini pareva un'eternitá di muschiosa beatitudine? Era difficile rispondere anche e soprattuto ora che questa domanda non si poteva piú farla direttamente a lui. Il Commissario Fabro pensava che Dreiser Cazzaniga dovesse conoscere qualcuno nel paese di Scoriozozzo; la difficoltá, tuttavia, stava nel fatto che il pasello di Scoriozzozzo in realtá non esisteva, e non solo non esisteva, nemeno aveva abitanti, Scoriosozzo era solo il mortuario sogno massonico di una pallida e grassa borghesia pedemontana. Quello che avrebbe potuto sembrare un borgo pittoresco radicato solidamente nel tempo e nel granito grigio del costone era in realtá solo un incastro di villule ottocentesche dalle forme grottescamente iniziatiche, simboliche, egiziane, di quell'Egitto di cartapesta e tarocchi che tanto affascinava il grasso Schikaneder. Certo dopo piú di un secolo quei tristi manieri melodrammatici in cui il granito era impiegato per imitare la cartapesta e che poggiavano su creste e costoni anch'essi di granito avevano assunto un tale convinzione del loro ruolo nel paesaggio da far si che Scoriozozzo potesse apparire un borgo agli occhi del viandante e persino del villegiante se non fosse stato che non aveva abitanti, e se non aveva abitanti come poteva Dreiser Cazzaniga essere ospitato da uno di loro per essere poi assassinato? In realtá nella valle si diceva o meglio si mormorava che un abitante residesse in quel triste mondo sarastriano anche se solo pochi si azzardavano a pronunciare il suo nome: un tale Duca o Buca detto anche Tucano: grasso, grasso, grasso, con lo sguardo perso perennemente in una smorfia di meraviglia eravi che diceva averlo scorto intento a far provvista di legna sul Mucrone e su Serretto nell'iminenza dell'inverno rigido di Scoriozozzo. Mo dove viveva, nessuno pareva saperlo a volerlo rivelare. Comunque Tristano decise di seguire il lentissimo Fabro nella sua ricerca. Il borgo di Scoriosozzo non lo si poteva percorrere senza essere scossi da un certa inquietudine, le sue magioni altezzose rivelavano nel portamento che la loro origine non era nell'arroganza rapace e spensierata di una feroce aristocrazia alpina, adusa alla razzia e al gelo, ma nei costumi biedermeier di un opulenta e untuosa e tronfia e suina borghesia di pianura e della pianura piú stagnante del continente. Stagnante nel suo ottuso benessere, nella sua cultura cimiteriale, nei suo entusiasmi cadaverici, nella sua grossolana teosofia. Scoriosozzo non era un borgo era un sogno molesto che si era a tal punto aggrappato al granito e alle robuste radici dei faggi da aver acquistato le convincenti sembianze di una solida esistenza. Scoriosozzo lo faceva star male come una sonata di Schubert suonata dalla figlia scrofolosa di un industriale di pianura per i suoi compari di sfruttamento e stupro prima di andarsene tutti al bordello marocchino a sodomizzare le tredicenni, Non poteva sopportare di immaginare i salotti tivestiti di mogano in cui un tempo la luce proveniente da pomposi candelabri illuminava tremante i ritratti di antenati comprati al mercato dell'antiquariato a metri quadri.
Tristano Lermita

martedì, gennaio 18, 2011

A Melisanda

La voce

No, la tua voce non la trovi nella poesia
Non risuona nel gioco delle vibranti
Liquida come il guizzo della lingua
Nel sogno torrenziale del bacio,
Di quel bacio, o di quel petalo
La tua voce non si spezza qui in inflessioni
Di edera e di felce elastiche come il passo
Di una mattina elegante correndo in un parco alla moda
Tra scoiattoli e tepore non raschia l'intonaco
Non aderisce alla pietra come la lucertola agostana
Nel chiaroscuro del patio, non brilla nel fondo del pozzo
Come la corona di Melisanda
Non affoga avvolgendo come la cascata dei suoi capelli
Melisanda appartiene al mondo vegetale,
Esprime il desiderio della clorofilla
La tua voce furono forse le spine che la prefigurararono
O il luppolo scabroso e adesivo, ma certo sotto la sua pelle
Vellutata da pomice e borotalco
É l'animale che si tende nel suo salto verso la morte
La tua voce si faceva di malva e violetta
Aprendosi al mio goffo silenzio
Come il bosco al ricordo del temporale
Ma a stento contiene i brividi lo strazio
Degli artigli, la convulsione gemella della preda e del predatore
La tua voce non risale dalla profonditá della poesia
Fino a farsi coscienza della parola ma si acquatta nella sua morte
Come un bianco felino in una tana,
Madida e felpata, come la tua lingua di un altro bacio

Ventana

Confidenze al Comissario Fabro

Davanti a un bicchiere di Inferno e a un piatto rovente di polenta scunsa finí per riconoscere con il commissario Fabro che lui e Dreiser Cazzaniga avevano avuto molte conoscenze in comune. Si Jules Lapache lo aveva conosciuto anche lui, no, prima del suo sodalizio con Dreiser Cazzaniga, quando Jules Lapache aveva ancora la sua scorbutica centoventisette verde e il maglioncino azzurro a girocollo e forse lavorava ancora per la rateale Einaudi. Si fu al Barfranca che lo conobbe, pe via del progetto di una rivista a cui egli si diceva interessato, non non gli aveva mai comprato nessun libro, si, fu lui a dargli il nome di Dreiser Cazzaniga come un possibile cliente, Jules Lapache aveva giá tutti i denti marci, allora, ma questo non selo ricordava si ricordava solo il maglioncino a girocollo, Po Jules e Dreiser Cazzaniga cominciarono a rassomigliarsi ogn giorno di piú solo che Dreiser Cazzaniga andava in bicicletta con lo zaino e ogni tanto i capelli se li lavava. Il commissario Fabro continuava con le sue domande, come se non avesse niente di meglio da fare, mentre con le ditona grasse girava le pagine di una gazzetta dello sport sudicia e piena di cerchietti vinosi. No la sorella di Jules non l'aveva proprio mai vista, no quella con cui viveva non era la sorella! Jules Lapache non era un alcolizzato, non aveva ammazzato nessuno, non aveva un tesoro nascosto, faceva ringhiare le donne che incontrava come mastine, tutte, quasi tutte, con lui ringhiavano, non avevano paura di lui, verso di lui provavano qualche cosa che aveva punti in comune con la paura ma soprattutto con la voglia di dilaniare con i denti carni giá infette, di sporcarsi le labbra con sangue stagnante e di lecarsele poi e di ululare, dopo aver ringhiato il ringhio piú ndo e scabbioso che femmina del totem dello sciacallo avessa mai potuto ringhiare da quando la luna era verde e baciava sulla bocca, una per uno tutte le sue fedeli cacciatrici. Gli avrebbero morso volentieri gli stinchi rinsecchiti a stento ricoperti da qui calzettini rigidi e verdevinosi che dovevano puzzare deliziosamente. Ma lui non sembrava temerle, le affrontava con una voce soffice soffice e esibiva con loro il suo odio per la vita, che era un odio contadino, l'odio di una lucertola sul muro, un odio cresciuto nell'odore del verderame e del letame nella disperazione della masturbazione dietro la gabbia dei conigli. Si e Dreiser Cazzaniga non si accorgeva di andar rassomigliandosi, di tentare di imitarlo anche se lui le ragazze non le faceva ringhiare, anzi! E cosí si convertiva in un enigma, un enigma appassionato che attraeva odi impotenti, tanto impotenti da restare in gran parte inespressi. Dreiser Cazzaniga e Jules Lapache divennero enigma e paria del borgo e della provincia eppure con loro tutte le armi restavano spuntate, nulla avrebbe potuto ferirli. Dreiser Cazzaniga, allora si mangiava le unghie.
Commissario lei pensa che l'abbiano assassinato?

genseki

lunedì, gennaio 17, 2011

Breton su Achim von Arnim - Parte II

Bisogna anche notare come egli si tenne sempre lontano dai fratelli Schlegel. Un simile atteggiamento, che credo deliberato, implica, in questo momento da parte di Arnim, un'adesione senza riseve alle tesi di Fichte, nell'amplissima misura in cui, , oggetto delle piú costanti polemiche e delle piú vilente, esse costatemente difendono i diritti della Ragione e della Critica in quanto epsressioni della filosofia della Riforma e della Rivoluzione. Per togliere qualsiasi dubbio sulla chiarezza e la nettezza di questa adesione basterebbe portare una testimonianza del 1811, ovvero l'anno della pubblicazione di Isabelle d'Egitto e che proprio in quell'epoca acquisisce tutto il suo valore: “Per piú di un ascoltatore, studente o no, le conferenze di Fichte, come lo sotolinea Achim von Arnim, sostituivano quella che fu la religione della Chiesa”.
Cosí ecco come riesce a svilupparsi, non senza momenti di grande effervescenza e frequenti ritorni allo scrupolo, in uno dei cervelli meglio organizzati del principio del XIX secolo, e,non bisogna dimenticrlo, un cervello essenzialmente poetico, la notevole situazione in cui si trova lo spirito, conteso, allora in modo piú evidente che mai, tra le forze del progresso e quelle regressive. Un'alleanza che richiama l'attenzione e che nella storia è raramente cosciente di se stessa anche se la possiamo definire eterna tende a porre nello stesso campo i poeti, gli artisti e gli scenziati che sanno valutare il valore ell'iluminaione che si produce a grandi intervalli a traverso di loro e ammettere che vi è qualche cosa al di lá di essa, non fose altro che la notte.. Da qui a voler rendere ancora piú oscura la notte non vi è che un passo, come lo testimonia Schelling quando si mise in testa di attirare verso la sua folosofia l'approvazione dei romantici preconizzando un ritorno del misticismo e infeudando la scinza all'arte quando dichiaró che: “entrambe dovevano finalmente coincidere, quando a scienza avrá risolto il suo problema, e certo lo risolverá, come l'arte ha giá risolto per sempre il suo (sono io che lo sottolineo”.
Nell'altro campo, raggruppati attorno a Fichte come piú tardi lo saranno attorno a Hegel si radunavano i partigiani dell'illuminismo e tra di loro è essenziale riconosce, a partire a questo istante Achim von Arnim. Effettivamente è proprio questa congiuntura e questa soltanto che ci fa capire il rimorso di Brentano, verso la fine della sua vita, che si accusa, lui che doveva morire monaco, d'avere favorito il matrimonio di sua sorella con arnim: “Son io” - dice: “ che po condussi da Bettina e cosí la consegnai alla letteratura, ai filosofi, alla Giovin Germania; è colpa mia se ella non ha piú religione”. de è ancora questa congiuntura che ci spiega come l'opera di Arnim, la cui fantasia è la piú abbagliante della sua epoca, non incorre nel giudizio che si puó su gran parte della letteratura romantic tedesca e che si esprime a mio giudizio con un'autorevolezza incomparabile, in questa critica di Hegel a proposito di Enrico di Ofterdingen romanzo cosí nebuloso di Novalis: “Il giovane autore si è lasciato trascinare da una prima brillante invenzone, ma non si è reso conto di quanto una simile concezione sia difettosa, precisamente per essere irrealizzabile. Le figure incorporee e le situazioni vuote sfuggono sepre alla realtá in cui dovrebbero inserirsi, invece, se prtendessero di avere una qualche realtá”. Nulla di cosí arbitrario, vago, irrisolto in Arnim. sono ben sicuro, avendoli riletti molte volte, che nei racconti che seguono non è stato commesso il benché minim abuso di fiducia, salvo l'iniziativ che consiste nel mettere in circolazione e in relazione esseri liberati fin dove è possibile dalla convenzione di presentarsi nella loro essenza e comportamento com esseri vivi. Una volta acconsentito ad entrare in scena, questi esseri si comportano con una naturalezza e, si potrebbe dire, un coraggiodi cui non saprei trovare l'eqivalente nelle creazioni di qualche altro narratore. E dicendo questo, non penso solo a Hoffmann e a i suoi “diavoli” di paccotiglia, tra cui un sedicente golem venuto dopo quello di arnim e che solo en è una grossolana contraffazione, Sono davvero oggetti di perfetta illusione che spingono la civetteria fino a sembrar sottrarsi alla volontá dell'autore, in modo tale che costui, come se sfuggisse ad ogni contagio romantico, assume al loro lato l'aspetto di un osservatore impersonale.
Trad genseki

Georges Ribemont-Dessaignes

Vecchie fotografie

Fu in una vecchia foto che ti ritrovai
Con le mani gonfie appoggiate al comodino
E la gonnellina nera del lutto di un altro fratellino
Morto prima di piangere, un fiore secco
Nel libro da messa e i mandorli fioriti
Nel cassetto della biancheria, il padre
Era un ingegnere con tanto di baffi,
Odore di treno e di cuoio e gli occhi
Con un germano dentro che volava
Nel mattino di Novembre su quel fiume
Che finiva per disfarsi nella cittá vecchia
Ubriaco di tannino e lisciva, il fiume,
Non il padre che faceva saltare il granito
Con il solo tuono degli occhi che beveva il tuorlo
Da un forellino e puzzava di ozono, di grasso di foca
Come un calafato e tu pregavi per lui, nella foto
Lo immaginavi tra tutte quelle vele
Accanto alla madonna ovale, e le funi
E abbassavi gli occhi e ti guardavi le scarpe
Entravi in un'altra foto dove eri nuda
Con i riccioli neri, le mani appoggiate ad una colonnina dorica
E si vedeva che puzzavi come un'oca
Prima di essere decapitata e come un'oca eri bianca
E ti guardavi i piedi senza vederli
E tuo padre sul ponte regolava funi e vele
Perforava il mare con i suoi tunnel di ghiaccio
Entrava con un tuono in antartide
Piantava la sua picozza su un iceberg
Poi con una stampella entravi in un'altra foto
Ti gettavi sotto la ruota del treno
E la Vergine dal suo uovo azzurro
Ti fulminava con i suoi raggi azzzurri
E tu ti allontanavi dai binari con una gamba in mano
La gonnellina da scolaretta delle monache
Spruzzata di sangue e ti fermavi a parlare con le chiocciole
Del gusto del cavolfiore e della cucina azzurra della vergine
Poi entravi in un'altra foto
In una successione di specchi e la Vergine
Ti sorrideva mentre ti guardavi i piedi
Pelavi le carote lavavi le sottane gettavi mangime ai granchi
Era la Vergine del Gelo, gelosa del padre,
La Vergine delle grotte che spiava l'ingegnere
Che tendava tranelli alla sua dinamite
Era la Vergine Ossidata
Quella che vive nell'abisso di una cascata di specchi
La vedi appena dietro il tuo volto piú sfocato
Dove hai le lentiggini e i capelli rossi
E i capelli neri unti e luminosi nello specchio di bronzo
Acqua di stagno come gli occhi dell'assassino
Ti fissi i piedi, ti sfoglia come una rosa,
E getta ogni petalo in un'altra foto
Alla Vergine della Primavera.

*

Enrique Lihn

Di tutte le possibili disperazioni quella della morte deve essere...
Tra tutte le disperazioni possibili quella della morte sembra essere la peggiore
E con esse la paura della morte, testa o croce
Quando ormai si puó prevedere il giorno e l'ora
Vi è anche la sgradevole probabilitá che la paura della morte e la disperazione siano
Inseparabili come unghia e carne normalmente
Ricordo un amico di un'altra epoca che fuggiva di notte dalla sua casa e dall'ospedale
Con il salvancodotto che si concederebbe a un dannato nell'inferno
E piombava in casa di qualche amica che non corrispondeva al suo amore
de esigeva con gli argomenti propri della follia
Che lo accogliesse in casa come un ospite fisso
Mi sembra di vedere come alla fine di quste conversazioni impossibili
Era riportato alla sua tana dalla signora e dal suo coniuge
In silenzio asoluto, lui, lo gnomo dell'alba nella foresta nera
Di ritorno alla sua anticasa
O alll'aeroporto degli ospedali perché non perdesse il suo volo.

Fuori tempo
Il nostro entusiasmo infiammava quei giorni che scorrono
Tra moltitudini di giorni eguali.
La nostra debolezze codificava in essi
la nostra ultima speranza.
Pensavamo e il tempo che non avrebbe prezzo
Se en andava poveramente
E questi, sono, insomma, gli anni che verranno.

Proprio ora avremmo risolto tutto
Avevamo tutta la vita davanti.
La cosa migliore da fare era non aver fretta.

*

Se si deve scrivere correttamente poesiaNon basta sentirsi venir meno nel giardino
Sotto il peso combinato dell'anima o quel che l'è
E del celebre crepuscolo o quel che l'è.
Il cuore è povero di vocabolario.
Il suo labirinto: un gioco per ritardati
In cui fa ridere vederlo muoversi come un bue
Un lettore integrale di romanzi a fascicoli.
Fin dal momento in piglia il violino
Nemmeno fosse il valzer triste di Sibelius
Resta nella sala che va riempiendosi di tango.

Salo le dovute eccezioni le poetesse uruguayane
Confondono ancora la poesia con il ballo
In una morbosa sala da gioco,
Oppure la confondono con il sesso o la confondono con la morte.

Se si debe scrivere correttamente poesia
Bisogna comunque prendersela con calma.
Prima di tutto: sedersi a maturare.
L'odio prematuro per la letteratura
Puó servire per non passare da buliccio nell'esercito
Ma proprio Rimbaud
Che diede prova del suo odio fu topo di bibloteca,
E la sua gloriosa nausea venne da tanto rosicare.

Si gioca a scacchi
Con le parole per ululare.
Equilibrio instabile di inchiostro e sangue
Che devi mantenere da un verso all'altro
Sotto pena de romperti le scatole dell'anima.
Morte, follia e sogno son altrettanti pezzi
Di avorio o di corno o giu di li;
L'importante è spostarli nel giardino a quadretti
In modo che il pedone che balla con la regina
Non gli perdoni il minor passo falso.

Coloro che insistono nel chiamare le cose con il loro nome
Come se fossero chiare e semplicissime
Non fanno che coprirle di ornamenti.
Non le esprimono, girano intorno al dizionario,
Non usano il linguaggio,
Le chiamano per nome e loro rispondono ai loro nomi
ma si spogliano in luoghi oscuri.
Discorsi, orazioni, giochi da dopocena,
Tutte le cosucce che ci permettono di tirare avanti.

Se devi scrivere correttamente poesia
Non sarebbe male abbassare un po' il tono
Senza per questo cadere in un silenzio monolitico
Né decidersi per il mugugno.
È qualche cosa di simile a un pesce ciò che speriamo di pescare
Un tocco di vita, rapido, che si confonde con l'ombra
E non l'ombra vera e propria e neppure l'intero Leviatano.
È qualche cosa che vale la pena ricordare
Per una qualche ragione simile al nulla
Visto che non si tratta del nulla e neppure di tutto il Leviatano,
Non è precisamente una scarpa o una dentiera.

Tristano Lermita

Incontro con Dreiser Cazzaniga

Ricordava di aver incontrato Dreiser Cazzaniga nel corso delle sue passeggiate novembrine, con la testa in fiamme e Carducci nel cuore. La sua percezione dell'autunno era profondamente carducciana per via della poesia imparata a memoria d'autunno, alle elementari e per il fatto che per la via che egli percorreva per andare a scuola davvero respirava l'aspro odore dei mosti e se non vi erano spiedi vi erano cacciatori di cinghiali, sugli usci, che non rimiravano il cielo ma si rimiravano le scarpe piene di fango, Insomma l'autunno lo viveva in un universo parallelo che chiamava Carducci, E fu in autunno che incontró Dreiser Cazzaniga sulla stradina di Santa Libera, prima che decidessero di asfaltarla, stradina che menava al mare attraverso un lunghissimo itinerario tra alte querce rosse. Dreiser Cazzaniga avanzava col passo di un ciccione che è profondamente convinto di essere magro. In generale si muoveva e gesticolava come qualcuno che fosse di colpo stato precipitato in un altro corpo e non se en fosse ancora reso conto, Dai suoi occhi tranquilli e acquosi sembrava guardare il mondo come se fossero intensi e fiammegianti, il sorriso dolce che modellava la sua bocca pareva che nascondesse una smorfia invisibile di annoiato disprezzo, le dita pallide e lunghisime le muoveva come se fossero tozze e brunite dal fuoco del lavoro e della lotta. La lunga barba castana e i capelli che scendevano formando abbozzi di anelli fino al collo sfiniti e unti sotto il rigido cappello nero gli conferivano un profilo vagamente giudaico. Scrutava pigramente il bosco in cerca di funghi, reggeva con la mano destra una copia dell'Orlando Furioso di Garzanti. Non sapeva chi fosse en come si chiamasse, venne a conoscenza del suo nome nel caffé del borgo mentre comprava un biglietto della corriera che scende verso il mare e trangugiava un caffé amaro e colloso. Lo rivide altra volte, anche in cittá, con i seguaci di Mastro Arrigo, con qualche prostituta ucraina biondissima e stupida, mentre entrava in una panetteria a comprare la focaccia. Dreiser Cazzaniga non aveva per lui nessun interesse e nulla faceva presagire che fosse destinato, proprio lui a incontrarne il cadavere in quel bosco di carpini epilettici alle pendici del monte mucrone con la testa appoggiata a un tronco coperto da uno spesso strato di Trametes Versicolor. Era Dicembre, Il monte Rosa lontano era solo un'idea traingolare, come era finito lassú quel corpo coperto da una giacca grunge, col basco ancora ficcato sulla testa calva e un paio di scarponi da muratore di cui no gli ea sfugitto dal piede? Restó a fissare il cadavere e si percepí di colpo come un leggero segugio giallo intento a fiutare le ascelle di quel morto. Poi si ricordó di Nastagio degli Onesti, di Botticelli, una donna nuda correva nel bosco in uno schianto secco di rami. Quando riaprí gli occhi e ritrovó la calma si accorse che il Commissario Fabro gli aveva appoggiato una mano sulla spalla.

I GRANDI DEL TEATRO - Salvo Randone "La conversione dell'innominato".

La tuta

La tuta, la sua parte superiore l'aveva comprata in autunno nell'umidissima Piazza dell'Aviatore, ora tutti lo avevano dimenticato, certo l'Aviatore non aveva piú discendenti, o questi si erano dispersi dimentichi della loro stirpe. Eppure era stata gran festa con la banda tutta ben lucidata e il maestro Orlando a scuotere pigramente la bacchetta come se la banda fosse stata di un altro e il cugino Tchenzo, quello che era rimasto sempre giovane e che provava il suono dei freni delle locomotive a soffiare nel clarinetto che tutti credevano fosse il diminutivo di Clarino e il volo cerimonioso dei piccioni tra i tigli dorati sulla piazza della stazione e poi al ristorante con il Borgomastro, i cani, i monelli, i marinaretti e le comitive in bicletta. Tutto era stato dimenticato, in Piazza dell'Aviatore ci avevo comprato la tuta che presto divenne un umile talismano, una tuta da poche palanche, beige, e nera aveva il potere come tutti gli altri talismani che aveva raccolto come orfani del caso di conferire all'attimo la solennitá di un promessa che sarebbe stata mantenuta. L'aveva comprata in un negozio albanese che si chiamava KOLA MIT HAT. Parole che evocarono su due piedi un animale mitologico una specie di incartapecorita tarasca da guardaroba. In un misto di hispano-germano-albionico quel nome gli apparve come dotato incontrovertibilmente del seguente significato: la coda incontra il cappello, la coda con la testa (in un'altra possibile versione). Il serpente Ourobouro insomma, anche enza palindromo. Un talismano, un enigma, un animale mitologico bastavano a renderlo sicuro che nonostante tutto, nonostante la miseria l'abiezione e il ridicolo la vita doveva avere un senso, magari non serio e pomposo, magari secco e spelacchiato e un poco ammuffitto ma sempre un senso. La tuta la indossava da allora quando cercava dentro di se la povertá delle foglie di autunno.

Contro i pensieri neri

Contro i pensieri neri

Pensieri
Non neri pensieri
La loro relazione paradigmatica con la morte è una facile risorsa
Una cattiva metafora
I pensieri non piangono
Non compatiscono i loro oggetti
Nemmeno possono essere pensati come ausiliari della ragione
(Fourier non aveva poi torto quando annunciava la scienza della follía)
L'espropriato osserva che, nella prospettiva della morte, le cose
Forzate a occupare uno spazio limitato piuttosto che a fluire in un
Tempo amorfo suppostamente illimitato
Si ordinano come in un quadro di Mantegna
Mai prima si era visto cosí, al centro della scena
Come un santo con un leone ai suoi piedi
Non sono mai stato un santo e non addomesticai mai un leone
L'importante è il centro del quadro
Come lo vedo, come lo vedono
Nella prospettiva dell'equidistanza
il fatto di essere senza che questo sia un motivo di orgoglio
(Che orgoglio puó mai avere colui che sta per morire?)
Il centro di un piccolo sistema planetario
Al quale, in onore della chiarezza, manca una quarta dimensione

Il tempo, il punto cieco della prospettiva.

Enrique Lihn
Trad genseki

La porta e il portatore

Barzakh, vi si entra seguendo, magari un portatore della chiave, io non en ho mai incontrati, di portatori di chiavi tranne forse quella splendida figliola finlandese che coccolava un gatto tra i due seni perfetti in una pizzzeria di Via Meravigli a Milano. Non la ho seguita peró. La siciliana amara di Bra che voleva che io gli restituissi la copia del quotidiano che mi aveva prestato, ma non una qualsiasi copia di quel quotidiano, proprio quella che mi aveva prestato, Io mentivo compulsivamente allora, e cercavo di entrare nel Mondo dei Significati attarverso le porte al fondo delle case, degli appartamenti, delle villette, delle camere di albergo. Ogni luogo abitabile, allora mi pareva la porta aperta sulla meraviglia di una vita possibile, si aprivano davanti a me inesauribili vite possibili e la pura vita possibile era per me una finestra aperta su un cortile triste, su un grande albero sporco, su una via poco frequentata a guardare la pioggia cadere per sempre un mattino di riposo ma non di festa, un mattino di sciopero o di alluvione o di incipiente guerra civile, insomma un mattino senza lavoro ma feriale, alla finestra che piove. Poi queste porte si sono chiuse, adesso sono scomparse e cerco dentro di me la meraviglia: percheggio il furgone sotto un albero, al fresco, in periferia, ragazzi zingari bruciano piramide di pneumatici e poi vi girano in torno con le moto che urlano pú del sole. Chiudo gli occhi e cerco la porta o il portatore nella paura che sale dentro di me e che come un'onda si solleva dentro di me e con sé mi porta oltre la soglia di Barzakh a Rue Fontaine 41

Enrique Lihn

Nel 1999, tornato dal Venezuela sognai che mi portavano alla casa dove viveva, allora, Enrique Lihn, in un paese che avrebbe potuto essere il Cile e in una cittá che avrebbe potuto essere Santiago, se pensaimo che il Cile e Santiago per un certo periodo furono simili all'inferno e che questa somiglianza, in qualche profonditá della cittá reale e della cittá immaginaria rimarrá

per sempre. Certo io sapevo che Enrique Lihn era già morto, tuttavia, quando mi invitarono a fare la sua conoscenza non mi opposi. Foprse pensai in uno scherzo di quelli che erano con me, tutti cileni, o forse in un miracole. Probabiolmente non pensai un bel niente, o non mi resi ben conto di quello che avevano detto.
...
Al principio lo ricobbi a stento, la sua faccia non era quella che appare nelle foto dei suoi libri, era dimagrito e ringiovanito, era piú bello, i suoi occhi erano migliori che quelli in biaco e nero della quarta di copertina. In relatá Lihn non sembrava Lihn, ormai quanto piuttosto uno di quegli attori di Hollywood di serie B che appaiono nei film che vanno subito in TV o che non passano mai nelle sale europee e entrano immediatamente nei videoclub. Comunque anche se non somigilia a se stesso Lihn era Lihn, non vi era alcun dubbio.

Roberto Bolaño
Incontro con Enrique Lihn
Trad genseki

Enrique Lihn


Enrique Lihn

Ora davvero tu e io siamo piú lontani uno dall'altro
Che due stelle in galassie differenti.
Nessun astronomo mai riuscirá a vederci insieme
Nel suo vertiginoso campo visuale
Né il fotografo di cartagena davanti alla sua Polaroid
Cosí fu per sette anni infiniti
Le altre immagini sono nubi di memoria
Da questa e da quelle se ne è andata la vita.

Drive in

Sullo schermo si legge: è solo per te
La proiezione comincerebbe se finalmente ti adormentassi
Se non fosse perché, a volte, per fortuna, la perdi
Vai al cinema da solo
Sei solo sullo schermo
I tuoi incontri con la star
Sarano pure fatali ma non aggiungono
Il suo nome alla povertá del cast:
Sei tu che reciti tutte le parti.
Magari, sará l'ultima volta che lavoreremo insieme
L'angoscia che ti sveglia suona falsa
Rinunzi ad annotare nel tuo quaderno dei sogni
Questa cosa da nulla che riempirebbe cento pagine
L'analisi che alla fine
Sarebbe un'operazione di routine.

Buona notte Achille

Finalmente ce l'abbiamo fatta a prenderti nel tallone
La morte che fuggi
Correrá senza scomporsi accanto a te.
Buona notte, Achille

Sto per attraversare la barriera

Sto per attraversare la barriera
Dello specchio per vedere
Ció che non si puó vedere:
Come sarebbe il mondo
Se copiasse lo specchio
La realtá non al rovescio
Colma infine del suo nulla.

Siccome erano anni che mi detestavi

Sicome erano anni che mi detestavi
Perché a tuo insindacabile giudizio ero stato
Cattivo coniuge d'una amica tua
Mi scegliesti per farmi dir di tuo marito
Cose che ripetesti avendole inventate
Come se io le avesi dette di lui, tra amici comuni
In una casa precisa
“Un perfetto mediocre”
Volesti infliggergli questa ferita nel costato
Celebro qui tutta la precisione
Della femmine perversitá
Per fare ammenda dei miei eccessi in lode e per la gloria
Delle donne
Mi piacerrebe ascoltare la tua verione dei fatti un giorno o l'altro
Ma, naturalmente, dopo la morte.

Come se il sogno fosse scritto in strofe regolari

Come se il sogno fosse scritto in strofe regolari
Ogni risveglio notturno significa
Che il corpo si riabitua alla sua idea fissa: il nemico
Monta la guardia dentro di lui
Senza mai chiudere un occhio
Signore e padrone della cittadella conquistata.

Enrique Lihn
Trad genseki

Rue Fontaine 42


Rue Fontaine 41

Rue Fontaine 41

Che è il nome adeguato per un nuovo blog o un nuovo diario o entrambe le cose, ancora non lo so, Rue Fontaine è da intendersi come l'indice, la localizazione geografica, e storica, in una certa misura del Barzakh. Una porta del Barzakh, insomma. E questo vuol dire che in realtá il mio modo di pensare mostra una continuitá che mi sorprende. La sorpresa dipende, credo, dal fatto che io mi sforzo di stare piú attento alle discontinuitá e alle variazioni che alla continuitá. l'anima, (che oggi si suole chiamare mente) è una successione di avvenimenti discreti e non continui, la continuitá è un'illusione. Questo equivale a dire che se si nega la continuitá dell'anima si finisce per riaffermarla come illusione, ovvero, una continuitá vi è e questa è la coninuitá dell'illusione che vi sia una continuitá, mentre la realtá è che i pensieri sorgono come bolle nell'acqua della marmitta in modo discreto, senza logica, senza relazioni e cosí come sono sorti ricompaiono e con i pensieri anche l'anima è sorta come una discontinutá e scoppierá come una bollicina confondendosi nell'acqua del tutto. Ora che ci penso mi pare che anche nel sorgere discreto dei pensieri ci sia una continuitá, la continuitá del loro stesso apparire: i pensieri e gli altri eventi che occorrono nell'anima, occorrono, appunto in modo continuo, non si possono mai arrestare. Sembra quindi che l'anima sia dotata di due ripi di continuitá, una la continuitá del'illusione e l'altra la continuitá della produzione.
Comunque alla soglia della vecchiaia comincio ad afferarmi come un naufrago ai tronchi marci di acqua salata alle occorrenze di continuitá. Volevo godermela questa mia vecchiaia cecando i semi a partire dai rami su cui le foglie giá hanno acquistato il colore del rame, avevo fatto, naturalemente, i conti senza il dolore e la debolezza che ora minacciano la mia capacitá di godere di qualsiasi cosa e meno ancora della vecchiaia. Cerco le origini delle mie convinzioni piú profonde, dei gesti e delle decisioni che hanno condizionato la mia vita e che la condizionano. La vecchiaia (incipiente) è come un altipiano. (Ovvero come l'illusione di un altipiano, sembra un altipiano perché è incipiente, poi giungerá a sembrare persino una parete, e credo che finira per apparire come uno strapiombo notturno con il trampolino dell'ultimo salto) da quassú si vedono tutti i sentieri che abbiamo percorso per arrivare fin quassú. (verso i ventanni pensavo che avrebbero finito per delineare una forma, un'immagine, una parola, che fosse il senso della vita, del percorso “Die Linien des Lebens sind verschieden”... ora temo che non sará cosí bello e nitido) e le loro intersezioni. Ho notato che le origini sono spesso un brano che lessi e dimenticai completamente, una poesia, una parola a volte, che non ricordavo ssolutamente piú e che si sono sviluppati come semi appunto in ramificati edifizi arborei. Io parto dalla fogliolina giallina lassú sul ramo tremolante e scendo nel tempo e nello spazio fino a trovare il seme che ha generato tutto questo e quando lo trovo sono sorpreso dalla casualitá di tutto il processo.