mercoledì, dicembre 22, 2010

Georges Ribemont-Dessaignes


Memoria

Considerato, oggi, il passato mi appare come la faccia visibile della luna, con tutto quello che vi si voglia vedere di fantasmagorico e di impreciso. Luci, ombre, figure, La veritá, o quella cosa che si è abituati a chiamare veritá, proprio quella, io non la conosco, la dimentico, non la guardo, non so che cosa sia. Eppure io mo sento capacissimo di scrivere qualche cosa che si potrebbe chiamare un romanzo, una narrazione in cui non appaia assolutamente nessun essere del passato, nessun avvenimento accaduto, ma nel quale i fatti descritti da me e gli esseri che avró fatto agire saranno piú comparabili a ció che esistette che la loro fotografia fedelmente conservata nei ricordi e nei documenti...
Naturalmente tratteró di avvenimenti e faró delle dichiarazioni. Tuttavia non li considererño altro che vecchi vestiti, piú o meno amati di cui ci si ricorsda con una certa emozione, di viaggi compiuti, foto di un album di famiglia, parleró delle cose vissute con il sentimento di farmio capire.
Georges Ribemont-Dessaignes
Avant Dada

trad. genseki

martedì, dicembre 21, 2010

Preludio delle origini

Da cosa sei nato o poeta? Dal tempo e dallo spazio,
Senza principio né fine,
Senza padre e senza madre
Sorgente nel giardino delle origini.
Qualcuno chiede qual è la sua nascita?
Dall'acqua che sgorga dalla prima sorgente.
Oh fontana della memoria, fontana del gran centro della terra
Anche tu nascesti, tu che scorri sui ciottoli bianchi del ricordo,
Di ció che era senza essere, prima del sapere dell'esistenza?
Eccoti voluta arrotolata come una vipera
Sviluppata nella marea amica al sole e alla luna
E presto sfuggente alla mano che si bagna
Al piede che osa
Marciare sull'acqua
Da chi sono nato? Forse dal vento,
Dal gran vento senza pace, senza dimora
Anch'egli nato dagli orizzonti che mai raggiungono
Né la mano adulatrice
Né il piede del viaggiatore che per calmarlo meglio
Maschera la sua marcia in danza e la sua danza in volo.
Dal gran vento con criniera di giumenta
Con dita di foglie morte,
Con grida d'uccello migratore
Dal sonno senza riposo all'ombra dei camini,
Dallo sguardo di fumo,
Dall'amore crudele dei soli estivi
Nelle valli piú ampie,
Informato del sangue degli omicidi e delle lacrime dei lutti
Su pietre, polvere e sudore.
Forse sei nato dalla notte o dal fuoco?
È vero, ho visto le greggi transumanti
Dormire in uno spazio di pacifiche tenebre,
Mentre negli angoli cupi dimenticati dagli uomini
Risplendeva l'infimo miracolo dei versi lucenti.
Davvero ho visto sulle panchine della solitudine
Sulla lenta deriva dello zodiaco,
Intrecciarsi le mani, fondersi gli aliti
Aprirsi i cuori da dove sgocciolava
Un pianto straziante e divino.
Davvero ho visto danzare il fuoco sulla punta dell'erba
Correre sulle colline e godere della fuga del mistero,
Vegliare come l'amore in preda al ricordo
Nell'atrio del silenzio
Attorto dalle delizie del suicidio e i deliri,
Scaturito dal mio respiro con la fiamma che lo divora
E con cui nutre la sua fame di troni, sangue e contrade
Fino a vomitare da solo le proprie ossa, la pomice e lo zolfo
E la cenere della sua potenza.
Davvero in qualche eden di noncuranza
Ho visto lucciole accendersi tra balsami notturni
Fuochi fatui di assenza e mancanza
Sogno noncurante di raggiungere con due strilli il silenzio.
Forse, peró nacqui dalla terra,
Come un'erba, un grillo, una pietra
Come un¡eco da tempo dimenticata in un pozzo
Che germina di colpo quando la linfa cresce
E svapora sospiro promesso alla rugiada,
Liana virtuale aspirata dalle stelle,
Fuori dal tuo ventre, peso del cuore, terra mia.
Eccomi in equilibrio tra due forze
Danzatore effimero
Per un eterno giorno
Per un amore eterno,
Gioiello leggero impermanente
Per la vita eterna
Per la morte eterna
Ammutolisca la domanda posta!
Fratelli, sono ma giammai non naqui.

Georges Ribemont-Dessaignes
Trad. genseki

Matthijs Vermeulen - Prélude des origines (1959)

sabato, dicembre 18, 2010

Olivier Messiaen - Desseins éternels

Tra i fiori degli ontani

Altri vivrá forse di mercoledi altre mattine
Io i miei mercoledi gli ho persi con l'inverno
E con la solitudine. mercoledi di mercato
Senza treni, mercoledi al caffé pensando
Al tuo stupore di vedermi nello specchio
Dove custodisci tutte le prospettive
Mercoldi di fusarie e di anemoni
Mercoledi tra tricoloma e muscaria
Mercoledi stringendo la tua crinolina
Domando i tuoi fianchi sul materasso di rame
Mercoledi fiutando benzina all'angolo del sicomoro
Mercoledi spiando i tuoi piedi
Desiderosi di tacco e cerniera
Mercoledi pisciando nel lavabo
D'una stanza nemica senza rami
Il melo alla finestra era solo un fantasma
Tu cantavi tra i fiori degli ontani.

genseki

Nel tuo fiume

Invano avevo cercato di guadarti
Coscienziosamente avvolgendomi i gins
Al di sopra la caviglia
Poi finivo sempre per inciampare e sommergermi in te
Nel tuo fiume
E andare in letargo come uno di quei caimani
Che avevano fatto indigestione di tartarughe
E non avevo abbastanza lacrime
Per confluire nel tuo fiume
Per esserti affluente del tuo corso torrentizio
Per fondermi nella tua corrente principale
Accarezzato dalle tue anguille
Avevo nausea invece, mi trascinavi,
Come un travicello per i tuoi mulinelli
Invano cercavo la pozza, lo stagno
Invano tendevo le mani ai rami degli ontani.
Ero grasso, maledizione, e nudo,
Ero la tua balena d'acqua dolce
Su di me si posavano anche gli aironi
Rosa e cinerini, non avevo mai avuto
La destrezza necessaria per farmi acqua
Cataratta delle tue angosce, cascata dei tuoi soprassalti
No poco a poco andavo evaporando
Tra le tife e i canneti nella carezza di quel sole
Che portava al pascolo tutte le sue nuvole.

genseki

gemini e apollo

Cosa fosse poi quel nostro discorrere da un equivoco all'altro
Quando in fondo quello che cercavo
Era solo tepore, luce di un giorno feriale
Minestra sorbita lentamente col cucchiaio
A radio spenta le ciabatte della vicina di ballatoio
Le tue labbra sapevano allora di zinco, le tue dita
O le tue dita intorno a tutti quei bicchieri
Come fuscelli tirolesi mi richiamavano
Alle estati alpine dell'infanzia
Quando ero grasso e felice e solo come una felce
E gemini e apollo riempivano il cielo notturno
Da dove sei venuta fuori, da quale mattino
Da quale sciopero dei tram o dei treni
Da quale dei tanti miei mercoledi all'alba
Fragranti di soltudine tra i bagolari?
La tuta del mercoledí era davvero rosa?
I tuoi seni odoravano di posacenere
Di tappo di bottiglia di birra dell'infanzia
I tuoi capelli stingevano sul sofá
Nell'umiditá richiamo per i merli.

genseki

Ontologia e caffé

Il caffé lo preferivi senza sale
L'ontologia dialettica
Scendevi le scale da anni nei miei sogni
E le tue ascelle erano il nido
O la tana tiepida del mio frugare
L'indivia nel tinello
L'odore di ammoniaco sul pianerottolo
Tutto quanto in una luce di sabato mattina
Vissuto al mercoledi, non pensavo nemmeno
A togliere i tuoi alluci dalle tasche del mio cappotto
Quando dovevo andare al Collegio Docenti
Gli accarezzavo mentre dormivo sul calorifero
Ma comprando il giornale mi dimenticavo il tuo nome
Il tuo indirizzo era quello di un altro portone
Se sventolavi lo facevi da un altro balcone
Il mio desiderio si perdeva tra le antenne
Poi ti incontravo in una nuova latteria
E era sempre una sorpresa vederti tra i ceci
E la mezzaluna fragrante della panissa
E non sapere come cominciare quel discorso
Che si era tane volte interrotto per sempre.

*
genseki

Nascita del canto

Poi sarebbero apparse anche le ali
Sole, sull'orizzonte come una fuga di pioppi
Nel crepuscolo del parabrezza
Come l'arco di un'arpa vulcanica inclinata sulla pianura
E noi due li a tremare
Con i palmi madidi delle mani
Con i pollici in astinenza e tutto quel rimorso di bottiglie
Sulla sporcizia dimenticata dei tavoli
Immonde nella loro diafana immensitá
Ci minacciavano fin nel ventre del bagagliaio
Dove ci stringemmo tra catene e ruote di scorta
Nel desiderio di un'altra nascita canora.

genseki

Honegger: Une Cantate de Noel (Christmas Cantata) (1/3)

Da altri vertici mossa, sibilando, fragorosa
Come lava che nel suo cammino sfrigolando soffoca
L'ascoltavo avanzare ma il nero, l'oscuro
Non era il manto, non l'avvolgente panneggio
Che rifulgeva notturno; l'ossame avariato
Che ticchettava nella sua voce e quell'odore di farina
Che finiva per disfare anche la speranza.
Non lasciavano spazio alla serenitá selvosa
Che percepivo salire dal muschio, dalla foglie di betulla
Gioielli sul velluto delicato degli aghi di pino.
Alle spalle, come l'alito dell'attesa, gialla
Come l'avorio dello sfinimento con passo arenoso,
Tra gli anemoni marciti delle primavere che mancammo
Scendeva come fuoco incerto serpeggiante tra trucioli,
Tra rovi, da vertici ove i Baal sanguinavano dai ventri
Gonfi e crudeli, la maledizione sfinita
Che evocammo sul nostro abbraccio
A sigillarne il patto infecondo come monete
Prestate l'una all'altra nel mutuo d'usura dei corpi.
Cosí ci avrebbe trovati come il morto diadema
Nella tomba dello scrigno vuoto tra le risatine dei sorci
E lo schiamazzare dei corvi pochi istanti prima
Che tutto il bosco crollasse e la realtá del male
Si svelasse nella sua nausea d'oceano.

genseki

Al confine, al silenzio

Era nel punto di intersezione del sogno
Che perforava la palma il centro di quella e altre reti
Staccionate, filo spinato
altri limiti e canalizzazioni come vene
Dello spazio inclinato, del manto, della pelle
Era nel punto in cui il sogno confina con il simbolo
Sotto quel lnguaggio frondoso, la brezza di trillanti ghirlande
E l'anima che il pollame lascia cadere nelle piume bianche
Che avanzava verso il proprio sogno
E che in esso avanzanza anche quel nulla
L'altro, il senza tempo, l'oscuro volto di luce assoluta
E non era che il suo corpo addormentato
Quello che carbonizzava le parole, che si assopiva nei suoi brividi
Che si faceva eterno nel panico e poi nell'alito
Piú fermo ancora convinto in se stesso posto
A guardia del suo concepirsi di fronte alla possibilitá
Al confine, al silenzio.

genseki

giovedì, dicembre 16, 2010

A bocca spenta

Chi potrebbe dormire con i piedi
Anche ravvolti nel camicione
Come fossero due baci qualsiasi?
I piedi lasciali fuori dal tuo sonno.
Nel mio posso accogliere anche loro
Con tutti gl altri pesci
A bocca spenta.

genseki

lunedì, dicembre 13, 2010

Le tue calze

Le tue calze stese sul balcone
Trionfavano dell’angolo del quinto piano
Ma il vero tepore era quello dentro
Il tinello, il latte, il sapone, lo zinco
Ti guardavo dormire senza piedi
E aspettavo il freddo del mattino
Per godere di un altro caffè
Della vista delle ortensie disseccate
Dal vetro del tram sognando arance
Su fino alla collina del cancro
Pensavo al tuo fianco stanco
Orizzonte del mio riposo.

genseki

Achim von Arnim


Breton su Arnim

Parte I

Breton su Achim von Arnim

All'epoca in cui il ventenne Achim von Arnim studiava fisica e matematica all'universitá di Goettingen si affrontano due concezioni scientifiche l'una delle quali assai recente, che lungi dal tendere ad avvicinarsi intraprendono l'una contro l'altra una lotta mortale. Nelle circostanze storiche in cui tale dibattito si svolge, per uno spirito agile e ardente come quello di Arnim non è possibile la neutralitá. Per renderlo comprensibile non mi resta che ripercorrere le peripezie a prima vista curiose del dramma mentale che allora si rappresentava sotto l'apparenza puramente intellettuale di imporre una scelta tra due metodi, quello sperimentale e quello speculativo che portano con sé la necessitá di scegliere tra due spiegazioni profondamente discordanti del mondo e della vita.
Non si insisterá mai troppo sul ruolo che la fisica ha svolto nelle preoccupazioni dei romantici. La ranocchia scorticata che, inaspettatament nel 1786, sul tavolo di Galvani, compie il movimento ben conosciuto, tenendo conto della straordinaria rivelazione che ha rappresentato per loro, dell'aiuto che ha loro donato nella percezione di un mondo nuovo, subito agghindato di mistiche grazie e dell'abitudine che essi acquisirono di mettere il loro cuore a nudo, proprio come il suo, ebbene, poeticamenente quella ranocchia potrebbe essere considerata il loro totem. Ora, quando nell'anno 1800 Arnim entra nel circolo universitario di Iena, è notevole che il suo genio lo attragga verso Ritter che, movendo dall'esperinza di Galvani giunge, con Volta, di cui ignorava le ricerche, a mettere in luce alcuni fenomeni suscettibili di confermare la scoperta del magnetismo animale. La figura di Ritter, effettivamente sembra la piú attraente del momento. Fisico, ma anche cabalista, teosofo e poeta, Ritter, come egli stesso narra nei suo “Frammenti” era afflitto da un tic bizzarro che si presentava come un folletto e che ricorda molto da vicino la “scrittura automatica” dei medium. Tale tic lo obblgava a interrompersi continuamente mentre scriveva e ad annotare sui margini le cose piú buffe. Questo surrealista ante litteram diviene dopo Mesmer il piú grande apologeta del sonno, grazie al quale, dice, “L'uomo ricade nell'organismo universale, è davvero onnipotente fisicamente, si muta in un mago”. Egli si concentra sul magnetismo e sul sonnambulismo. Scrive: “nel magnetismo animale si esce dall'ambito della coscienza volontaria per entrare in quello dell'attivitá automatica, ove di nuovo il corpo organico si comporta come una cosa inorganica e ci rivela cosí, contemporaneamente i segreti di due mondi”. Per farsi un'iea precisa delle sue idee e dell'estensione dei suoi interessi prendiamo in considerazione questa affermazione: “Molti dei miei frammenti non ho potuto pubblicarli, perché nella loro forma primitiva sarebbero apparsi troppo scabrosi, soprattutto uno, composto poche settimane prima del matrimonio dell'autore e che è di tale natura che sarebbe sembrato impossibile che con idee simili un uomo potesse pensare di sposarsi”. A quanto pare si trattava della storia dei rapporti sessuali attraverso i secoli, con, a modo di epilogo una descrizione della forma ideale di tali rapporti, fatta in modo tale che “nessun giudice, nemmeno il piú liberale sarebbe stato clemente con l'autore, nonostante il rigore della dimostrazione”. È significativo che Achim von Arnim, la cui prima opera è un “Abbozzo di una teoria dei fenomeni dell'elettricitá” fosse ospite abituale nella casa di campagna di Ritter a Belvedere presso Iena. È in questa casa che si organizza un “partito anti-schelling” e si attacca vivacemente la sua “Filosofia della Natura”. Ritter considerava il sistema di Schelling “un pezzo di fisica” e considerava il suo autore “incapace di essere un vero filosofo: un filosofo chimico, niente di piú che un filosofo-elettricista”. Alcuni autori menzionano, in questo periodo della vita di Arnim, l'esistenza di una relazione con Novalis. Pare, tuttavia, che si trattase solo di contatti occasionali dovuti ad un legame di riconoscenza che legava Ritter a Novalis che l'aveva scoperto e strappato alla sua condizione miserabile. Nonostante le sue frequenti e sospette incursioni nel mondo metafisico, tutto fa pensare che uno scienziato di gran classe come Ritter godesse, agli occhi di un giovane formato al rigore metodologico e di temperamento curioso come Arnim, di un maggior prestigio che un poeta mistico smarrito a un punto tale da rimproeverare a Fichte di non aver posto l'estasi alla base del suo sistema. In ogni modo la morte di Novalis nel 1801 rende la sua influenza possibile su Arnim temporalemente molto limitata. Sappiamo inoltre che Arnim, che subito si interesó ai lavori di Priestley e di Volta, e a quelli del fisico umorista Lichtemberg, e il cui protestantesimo era sensibilmente kantiano, non intrattenne nessuna relazione personale con Schelling. Siccome fu tra i primi a condannare la su “Filosofia della natura”, non poté, necessariamente seguire il suo autore attraverso i capricci della sua evoluzione e neppure, a maggior ragione accodarsi quando l'opportunismo, che per meglio sedurre Schelling aveva preso la forma di caroline Schlegel, gli dettó la conversione alle idee piú nebulose di Ritter e di Jacob Boehme che impregnavano il neocatolicesimo di allora.