La prima volta che apprendemmo che i nostri amici venivano macellati ci fu un grido d’orrore. Poi ne vennero massacrati cento.
Ma quando ne rimasero uccisi mille e il macello non finiva, si estese una coperta di silenzio. Quando il male arriva come la pioggia, nessuno urla: alt!
Quando i crimini si ammucchiano diventano invisibili.
Quando le sofferenze diventano insopportabili, le grida non si sentono più.
Anche le grida cadono, come pioggia d’estate.
Bertolt Brecht
sabato, gennaio 30, 2010
Gypsy holocaust Auschwitz song Latcho Drom
Dreiser Cazzaniga e la meraviglia
Eppure la meraviglia si trova intessuta a tutta la sua vicenda vitale. La meraviglia per la neve che sempre ritorna e che sembra cambiare il mondo per sempre. Poi se en va si scioglie e sembra che non ci sia mai stata. La meraviglia per la camminata di una ragazza sul marciapiedi davanti al bar in cui sta comprando il biglietto del treno e tante altre meraviglie di tipo minimalista come quelle di Amélie o del primo sorso di birra, insomma.
In realtá anche piú meravigliosa è la meraviglia oscura, la meraviglia per la testardaggine dei malvagi, per esempio, per la loro astuzia paziente, per la noncuranza dei violenti, per la viltá dei vinti, per la propria viltá.
La meraviglia oscura ebbe su Dreiser Cazzaniga un potere forse maggiore dell'altra. Questa è una affermazione dubbia perché effettivamente Dreiser fu sempre semplicemente schiacciato, annientato dalla meraviglia della natura. La meraviglia che sempre lo attendeva all'entrata di un sentiero nel bosco, alla scoperta di una radura, all'apparizione di una nuova sfumatuta dell'autunno.
Meraviglia e vergogna furono i due poli dell'anima rinsecchita di Dreiser Cazzaniga, almeno fino a quando non scoprí il sarcasmo e la frenesia dell'umorismo.
Un giorno la mamma comunicó solennemente al piccolo Dreiser Cazzaniga che il tempo era venuto per lui di scendere a giocare al patio con gli altri mocciosi e matotti di Briggio. Dreiser non sapeva che cosa fosse il patio, dalla finesta della cucina vedeva gli abeti sui fanchi dei monti che separavano Briggio dalla cittá che un grand'uomo batezzó Pastrufazio sventolare come manti d'avventura e rabbrividí di verde.
Il patio invece era un terreno tra i condomini recentemente innalzati, pieno di detriti metallici, mucchi di sabbia, pozze e scheletri di furgoni militari ianchi della lontana guerra dei padri rossi.
Accoccolato nella sabbia in un circolo col branco dei matotti Dreiser si sentí sereno, sicuro, concentrato a muovere un piccolo camion su strade immaginarie quando un moccioso scuro scuro chiamato Roberto gli gridó:
-ragno, ragno, sembra un ragno con quelle bianche gambette secche secche!
Dreiser non rispose la meraviglia gli colava in gola. Sorsi amari furono quelli. Perché, perché? Pensava e gli doleva il futuro troppo lungo e piano davanti alla sue mani incapaci di depredare.
a cura di genseki
venerdì, gennaio 29, 2010
Alamogordo
Le tue lacrime profumavano di miele
Come alcuni gelsomini sono latte
Le scostavi con una mano nuda
Come fossero cortina di pupilla
Entrava allora l'umido del lupo
Il roco alito del dirupo ventoso
E tante tante rose di caffé, sventate
Come fanciulle col primo completino di flanella
L'orbita sua era caverna al nostro tremare
Allo stringerci nei panni freschi dei tremuli
Pioppi
L'orizzonte era una sequenza di errori
Ritmati dai filari dei cactus.
genseki
giovedì, gennaio 28, 2010
Un amore di Dreiser Cazzaniga
Dreiser Cazzaniga passeggiava abbracciato a Stefi, la strizzava ma non la baciava, Stefi gli raccontava le pratiche sadomaso alle quali il fidanzato parmense era solito sottometterla nel fine settimana. Dreiser Cazzaniga non la vide mai nuda. Un volta lo invitó a dormire con lei nella sua casa di San Babila. Dreiser dormí sul divano lei gli versava il te in un bicchiere verde di quelli infrangibili avvolta in una camicia ibizenca dalle mille pieghe.
La mattina dopo Stefi gli raccontó che lo aveva sognato mentre entrava nella sua camera e le infliggeva larghe e profonde ferite slabbrate con un coltello da frutta arrugginito.
Dreiser Cazzaniga non la rivide mai piú.
genseki
Dialettica della memoria
Il “Giorno della memoria” è l'istituzionalizzazione della celebrazione rituale dell'unicitá e dell'eccezionalitá di quello che oggi viene comunemente chiamato “Olocausto”.
Il nazionalsocialismo tedesco segregó gli ebrei europei, li separó dalla comunitá umana li mise a parte come unici come eccezionali e giustificó in questo modo la necessitá del loro sterminio.
Proclamare oggi l'unicitá e l'eccezionalitá dello sterminio degli ebrei europei è assumere il punto di vista dei loro carnefici e consolidarlo.
Significa perpetuarlo attraverso la sua apparente negazione.
I nazisti commisero il genocidio perché considerarono gli ebrei a parte dell'umanitá, perché negarono il loro appartenere alla specie umana.
Proclamare l'unicitá dello sterminio degli ebrei relativamente a tutti gli altri stermini e genocidi che ritmano la millenaria preistoria umana è accettare questa loro separazione questa loro segregazione, significa fare proprio il punto di vista dei carnefici.
Lo sguardo con cui la vittima si guarda si confonde con quello con cui la guarda il suo carnefice.
Quello che si esecra è lo sterminio, ma si accetta la separatezza che en è la condizione teorica.
La negazione del nazismo sarebbe la negazione della separatezza, della segregazione sarebbe l'affermazione della comune dolente dignitá di tutte le vittime in quanto vittime e in quanto umane.
Affermare la natura unica e straordinaria dello sterminio significa accettare la logica che lo ha prodotto, perpetuarlo e quindi creare le condizioni per l'avvento e la giustificazioni di altri stermini, di altro orrore.
In questo senso la memoria è almento di odio sempre nuovo, condizione di possibilitá di altro orrore.
La perpetuazione della memoria non è la negazione dell'olocausto ne è la cattiva sintesi dialettica.
genseki
mercoledì, gennaio 27, 2010
Eduard Bagrickij (1895-1934)
*
Egli era considerato come la figura principale del "Romanticismo Rivoluzionario Sovietico" e si lodava soprattutto il suo indistruttibile ottimismo sovietico nonostante la salute molto compromessa e il suo impiego dei temi clasici della poesia popolare ucraina e di quella russa. In effettii nella sua poesia sono forti gli influssi di Robert Burns e del poeta nazionale ucraino Taras Shevchenko ma anche quelli dei Poeti Maledetti, dei parnassiani e dei romantici tedeschi.
Viktor Shklovskii scrisse:
Il poeta contemla l mondo attraverso lo stroboscopio del suo cuore...
Bagrickij morí a trentasette anni. I suoi capelli erano tutti grigi. Centocinquanta scalini separavano la sua stanza dal mondo. Adorava il sole, il sud, l'anguria, gli uccelli, il mare, la prmavera e tra lui e il mondo c'erano centocinquanta scalini.
Nella sua stanza c'era un pesce; il pesce nuotava in acqua azzurra. Il pese nell'acqua azzurra fu l0ultimo frammento di vita che poté vedere dal suo giaciglio.
Eduard Bagrickij (1895-1934)
L'ultima notte
Il fagiano esplose come un fuoco d'artificio
I pallini strapparono gli aghi dalle foglie.
L'uccello piomb'cometa di penne,
In uno scompiglio di albe primaverili.
L'Arciduca tornó a casa.
Si spoglió. Bevve del vino.
Il setter morbido gli si stese
Ai piedi, come una sfinge.
La pistola con cui fu ucciso
(Non ne ricordo il tipo)
Giaceva ancora dall'armaiolo
Fra una canna da pesca e un coltello.
Il futuro assasino sonnecchiava,
La testa reclinata
Sul duro pugno giovinetto
Coperto di bruno pelo.
A Odessa i castagni si vestivano di fumo
E quando scendeva la sera, il mare,
Ansando, si volgeva sul suo asse,
Simile a una ruota.
La mia finestra dava nel giardino
E nel crepuscolo, tra il fogliame,
Becchi di gas s'alzavano turchini
Sopra le insegne delle birrerie.
E su questa luce effevervescente
Rumoreggiando con un milione d'ali
Volavano gli stornelli a sfracellarsi
Contro i vtri e contro i cavi.
Primavera gl spingeva dalle rocce nere
Con la sferza ei venti di mare.
Uscii...
Dietro la porta mi si chiuse...
E la notte circondandomi
D'un moto d'ali, fiori e stelle,
Sorse in tutti gli angoli.
Oltrepasai le piccole case ebree.
Udivo il terribile ronfiare
Dei carrettieri stesi nei carri,
E nelle finestre si vedeva
Il sabato in parrrucca porporina
Che andava reggendo una candela.
Oltrepassai le piccole case ebree
Uscii al brillio delle rotaie
Al deposito tranviario si struggeva
Il lampione, circondato dalla grande primavera.
Avevo solo diciassette anni
E per questo certo la notte
Turbinava e respirava in me
E mi camminnava accanto.
Ero il suo specchio, il suo sosia,
Ero un secondo universo
I pianeti mi penetravano
Da parte a parte, come un bichier d'acqua,
E mi pareva che una luce leggera
Stillasse dai pori simile a sudore.
Oltrepassai il deposito tranviaruo
Dietro, imponderabile come il fumo
La via asfaltata, turbinando, volava
Ad occidente verso le onde del mare.
E d'un tratto udii un suono prolungato:
Sul mondo volava una tromba,
Languendo di passione. E io dissi
"Ecco le prime gru!"
Sulla polvere, sulla mia giovinezza
Passava echeggiando quella tromba,
E le stelle si gettavano da parte,
Con un palpito all'urto delle larghe ali.
...
trad. V. Strada
martedì, gennaio 26, 2010
Assente
Quando ti abbraccio stringo la tua assenza
Come tra i denti si asciuga lunga fame
Quando gli abeti si sfasciano a sciami
Mentre mi sfuggi respiro il tuo tepore
Viva presenza del tuo corpo in viaggio
Nelle contrade di granito e ghiaccio
Dove l'alloro è un sogno di metallo
E si stinge tra gli urti delle piume
La catastrofe oscura delle ciglia
Ti stringo assente come fossi pane
Per saziare la fame dei torrenti
Dorso d'anguilla lucida ti sciolgo
Perche mi sfugga all'orlo della bocca
Tutta la fresca estraneitá di un corpo
Che guizza e slitta dal mio deisderio.
genseki
lunedì, gennaio 25, 2010
Oltre
In cui l'animale alla soglia di se stesso
Sgorgava infine nel suo atto, nella negazione
Come sgorga il guanto dalle tua mano
E assume la casualitá della sua forma
Custodia del balenare tagliente
Delle tue unghie vere:
Il gatto dal nespolo transitava nel balzo
Per ricadere poi oltre se stesso
Con un cuore sanguinante e brandelli
Tra le fauci di un altro,
Mentre le tue unghie fredde
Azzurre ghigliottine delle pupille
Sorgevano incontro alla luna di settembre.
genseki
domenica, gennaio 24, 2010
La Bandiera Rossa
Nelle gallerie piú profonde del mio cuore ritroveró sempre l'andirivieni di quele innumerevoli lngue di fuoco alcune delle quali s attardavano a lambire uno stupendo fiore carbonizzato. Le nuove generazioni stentano a raffigurarsi uno spettacolo come quello di allora. In seno al proletariato non si erano ancora manifestati i dissidi di ogni tipo che hanno finito per lacerarlo.
Certo attorno alle bandiere nere le devastazioni fisiche erano piú sensibili, ma la passione aveva veramente traforato certi occhi lasciandovi dei punti indimenticabili di incandescenza, ra come se la fiamma fosse passata su tutti quegli uomini bruciandoli un po' di piú o un po' di meno...
André Breton
Da. "Arcano 17"
Antonio Porta
Lettera a Nina Lorenzini
21.12.1977
sabato, gennaio 23, 2010
Era un aprirsi
Di grandi foglie al fendere la ghiglia
L'impassibile palude della stanchezza
Soltanto un movimento di ventaglio
Negava il tempo e ne faceva perle
Una o due perle per ciascuna coppa
Da adesso a poi quindi da poi a prima
Era qualcosa come un dispiegarsi
Frullare forse schioccare da calice a calice
Dove il rumore si fondeva in luce
Liquida nelle bolle momentanee
Sfilare il tempo dalla guaina del desiderio
Era soltanto schiudersi di petali
Neri come campane di Bretagna
Quando il temporale gettava gli anni e i mesi
A manciate come stracci consunti
Sulle scogliere dove finiva il mondo
In un ansito asmatico di sputi.
genseki
Un circolo di circoli
Enciclopedia delle scienze filosofiche
Introduzione
Paragrafo 15
trad. B. Croce
venerdì, gennaio 22, 2010
Giocavamo alla luna
Giocavamo alla luna sulla lama delle colline
La luna che non c'era già piú la luna era nera
Scorreva la luna sulla tua schiena come scorre la luce
La luna al palmo della mia mano non osavi succhiarla
Eppure fu proprio la luna che ti accese lo sguardo
Quando ardeva la malaria come altre costellazioni
E ti consumava il mio fuoco come una perla
Sbucata da un vecchio guanto nell'armadio di nonna
Fino a rotolare tra i riccioli di formaggio
Le capriole delle scintille nel vecchio camino di Ippolito
Il paiolo della polenta che un poeta dialettale
Avrebbe invocato come la luna che si disfa nel feltro
Che tarme e falene sfarinano luna di febbraio
Luna spenta come paraffina con l'impronta
Dei nostri pollici unti.
genseki
giovedì, gennaio 21, 2010
Neve
Dalle orme dai voli spezzati nervature semi
Prima che tutte le ali fossero pietre
Lassú dove infine capovolto
Il cielo lasciava cadere i suoi corvi
Nel pozzo di strati infiniti del grigio
Corvi come stracci sbattuti qua e lá dal loro grido
Dal gracchiare che invano si sforzava
Di aprirsi in un segno rosso inesploso
O almeno di spezzarsi dolorosamente
In un cielo dai riflessi di cobalto
Il cobalto dell'avvento no! Il rosso
Non sgocciolava dalle colonne scistose
Che sorreggevano le volte vertiginosamente immobili
Dei grigi sovrapposti e la pioggia ancora non cadeva
A unire con i suoi fili i colori al loro significato
No! Non c'erano colori. C'era neve
Non c'erano significati negli schiocchi nelle orme
Dei passeri nelle righe delle ghiande come note
Sul pentagramma della radura
Un rintocco di rame sarebbe stato gelo
A rendere allora tutto piú giallo
Come occhio nell'uovo come uovo sognando
L'occhio pupilla di tuorlo
Le campane invece cigolarono grige
Come il bronzo nere come le aste dei campanili
Mentre il bianco pallido del sole
Soffiava sulla neve il suo alito di forfora
Sollevando in turbine spettrale
Frammenti di ali di farfalle screpolate dal gelo
Piume di albatros scacciate dalle antiche poesie
Caratteri dell'Olivetti lettera 32
Polvere di pneumatici fiori secchi d'ontano
Che furono dita delicatamente rose dal primo gelo
Di novembre
La neve fu il lenzuolo della scrittura
Il sudario del significato
La criniera gloriosa della terra
Ogni orma ogni traccia fu prova d'amore
genseki
mercoledì, gennaio 20, 2010
Jacmel
Viveva in una città
Che era una leggenda
Sulle coste del Mar dei Caraibi.
Chi lo voleva poteva
Trasformarsi in qualsiasi cosa
Un albero, per esempio,
Che cammina e beve del Rum,
Oppure un bue che suona l’organo
In chiesa alla domenica,
Un leone che fa becchi
Tutti i notai della città.
Lui, una sera della sua adolescenza,
Divenne un cavallo da corsa
Lo videro attraversare al galoppo Jacmel
Nitriva e invitava la gente
A venire a correre con lui nella strada.
Le porte e le finestre, però, restavano ben chiuse.
Poi, all’improvviso una ragazza è corsa fuori
Da una casa di Piazza d’Armi:
Era una delle più belle della città.
In camicia da notte
e sorrideva all’equadolescente
Quando egli venne accanto a lei
La ragazza si tolse la camicia
E balzò sullla sua schiena: lui prese a galoppare
Andò al galoppo senza fine nella notte
Facendo molte volte il giro di Jacmel.
Sentiva Adriana tutta nuda sulla sua schiena
Come il cielo notturno profuma di stoffa
Come la terra profuma dell’erba del mattino
Fiutava il suo sapore di ragazza.
Al galoppo, al galoppo nella notte
Sulla schiena l’astro di Jacmel
Sulla schiena tutta la gioia
Tutto il dolore di quella città.
E la paura e l’odio
sulla schiena
Al galoppo al galoppo nella notte
Coi baci
E tutti i sogni di Jacmel sulla schiena.
Al mattino andarono al mare
Dove si rinfrescarono a lungo,
Poi fu la volta del fiume
Per lavarsi il corpo dal sale.
Più tardi la fece scendere davanti a casa
Sotto gli alberi sbalorditi della piazza.
Quando riprese la sua forma di ragazzo
Aveva i fianchi coperti di sangue,
Delle fitte atroci alla spalle,
E tanto male al cuoio capelluto,
Restò a letto per due settimane
A guardare la sua adolescenza fuggire
Con la più bella ragazza della sua vita.
René Depestre
trad. genseki
Ateliers di Poesia
di Ernesto Cardenal
*
*
*
Io stesso scrissi alcune regole per coloro che partecipavano agli ateliers:
1. Non cercare d scrivere con ritmi regolari o con rime;
2. Preferisci le parole piú concrete alle piú astratte;
3. Inserire nomi propri di persone e di luoghi
4. Preferire le immagini che penetrano attraverso i sensi;
5. Usare il linguaggio parlato e non quello lettario;
6. Abbreviare al massimo.
Ernesto Cardenal
La parola
1942
Il Novecento apparirá in avvenire come una specie di incubo verbale, di cacofonia delirante. Epoca in cui le parole si logoravano piú rapidamente che in qualsiasi altro secolo della storia, epoca della grande protituzione della parola, di quella parola che avrebbe dovuto essere la misura del vero.
domenica, gennaio 10, 2010
Coltelli
Ciascuno parlava soltanto con il suo coltello
Ciascuno parlava con un solo coltello
Barba Germano ne aveva uno frabosano
Zita la maremmana si masturbava
Con un coltello di pattada
Entrambi cavalcavano i loro coltelli
Come fossero cavalli con un coltello
Tra i denti
Non c'erano fratelli, solo coltelli
Michelaccio manteneva sei coltelli
Mangiavano con i coltelli
Dormivano sul filo del coltello
Si rasavano a punto a coltello
L'amore lo facevano a coltellate
Le loro biciclette erano coltelli
A coltellate fendevano le curve
I raggi delle ruote erano coltelli
Che accoltelavano la luce delle strade
Pedalavano con piedi a coltello
Spingendo sui coltelli dei pedali
Ci lanciavano occhiatacce da coltello
Ma Io e Rosaria continuavamo
A spezzare il nostro pane con le dita
E a mangiarlo inzuppato nel latte
Poi ci rendemmo conto che non avremmo
Più potuto continuare a vivere nella Valle
Che il fiume divideva come un coltello
Il clima si faceva troppo teso, tagliente, da coltello
Lasciammo il Borgo allora
Con le nostre quattro cose nello zaino
Al crepuscolo partimmo
Poco prima che cominciasse a grandinare a coltelli
genseki
Morsi
Pietre solari tatuate di lichene
Antiche come i tuoi occhi tatuati dalla ritrosia
Tra la barba dei pini piú vecchi
Si scorgevano giá i primi segni dei morsi
Le tracce dolorose dei denti:
Erano passati di qua: e mordevano
Mordevano il bosco come fosse anguria
Nel vento soffocante dell'estate
Si, mordevano il bosco con denti taglienti
E bacche mordevano e sassi sentieri palmizi
Vi entravano con lo zainetto e il mangiadischi
Li occhiali dell'azione cattolica, il fazzoletto al collo
Il maglione annodato alle anche
E cominciavano a mordere la corteccia
Le impronte dei denti si imprimevano nitide
Nella polpa pastosa delle betulle
Mordevano le sorgenti, i rigagnoli
I piú sottili fili d'acqua
Lasciando tracce, fili di bava sanguinosa
Che leccavano i ciottoli e le radici
Come tante linguette lascive
Nelle morsicature lasciate sulle pietre
Gia crescevano i figli del sole
I luminosi licheni
E mordevano, mordevano i raggi di luce
Che a fatica penetravano le grandi chiome
Fino a conciarli simili a fusilli
Noi, continuavamo a salire
E ora udivamo distintamente il suono dei morsi
Forse erano li proprio sulla vetta morsicando
Morsi secchi o glutinosi di saliva
Schiocchi, scoppi, trilli di morsi
Cigolii di morsi, fremiti frulli di morsi
Proprio alle radici delle orecchie
Poi un corvo si levó in volo
Con un grido prontamente morso
E li intravedemmo
Mordevano
Mordevano
Mordevano
Da morsi erano nati a morsi cresciuti
Educati a mordere crudelmente petto
E capezzoli morsi furono da morditori
piú rabbiosi mordevano con tanta
Assoluta dedizione
Che anche in me si sveglió brama di mordere
Il tuo sguardo che mi accarezzava
Forse anche tu volevi mordere la mia voce?
Volevamo morderci l'un l'altra i nostri baci?
No!
Noi non sapevamo mordere. Oddio!
Si, forse rosicchiare, di certo leccare e baciare
Ma loro continuavano a mordere
Incitandosi l'uno con l'altro si accingevano
A mordere il vento del temporale
E l'ultimo lembo d'azzurro.
genseki
sabato, gennaio 09, 2010
Hegel e l'Islam
Hegel
Filosofia dello Spirito
Trad genseki
venerdì, gennaio 08, 2010
Michelemmà
Mi pare che l'attribuzione a Salvator Rosa sia da scartarsi a prima vista proprio per la natura frammentaria del testo che contrasta con il resto della sua opera barrocca e estremamente articolata.
Ad una prima lettura sembra di essere di fronte ad una specie di testo surrealista: qualche cosa come poesia automatica o un Cadavere Squisito. Prodotti di un inconscio collettivo di piú generazioni. Sembrerebbe come se una generazione successiva abbia aggiunto alcune linee al testo della precedente ignorando o cancellando una parte di esso. Molti testi della tradizione popolare potrebbero forse essere interpretati con maggior successo se fossero considerati dei Cadaveri Squisiti certo questo è particolarmente adeguato.
Una delle prime fallacie delle interpretazioni internazionali del testo mi pare l'insistenza nel considerare “Michelemmà” come il soggetto di “nata miez'o mare”.
Sempre che il lemma “Michelemmà” sia un sostantivo o un nome proprio e non la storpiatura di una onomatopea ritmica certamente è un maschile e non vi è concordanza con il verbo.
La convinzione che “Michelemmà” sia un soggetto è servita per dare al testo una coesione sul piano della logica che propbabilmente non possiede e probabilmente non la possiede per la ragione che si tratta appunto di una specie di Cadavere Squisito.
Tra i frammenti di figure e le figure vere e proprie che costituuiscono la canzone mi pare che uno sia quello delle Dea Vergine che sorge dal mare, precisamente dal mare di un'arcipelago, presso un'Isola Cipro o Ischia come si puó intuire nel locativo “scarola” che per alcuni va letto “Ischiarola”.
La presenza dei Turchi è il ricordo di fatti certamente piú storici e piú recenti. Il Turco è ovunque nel mediterraneo cristiano presente nel folkolore.
La vergine sorta dal mare è guerriera. Non vi è chi la vince. Ed è figlia di un Dio Supremo, un legislatore del cosmo: il “Notare”.
Poi di nuovo ricorre il tema ciprigno con i due versi: “
"E mpieto porta na...
Stella Diana"
La particolare arcaicitá dell'immagine di questa Vergine Guerriera dea dell'amore è che essa è contemporanemente una dea della morte:
“Pe fa morí ll'amante
A duje a duje”
Gli amanti, evidentemente, non sono gli amanti della Dea, certo non quelli di Michelemmà come pretendono le esegesi piú afrettate. Evidentemene il fatto che muoiano a due due ci fa capire che sono appunto coppie di amanti. Il morire puó essere inteso come una metafora sessuale o iniziatica. Non ci sono elementi che possano far decidere in unsenso o nell'altro.
Michelemmà è come un affresco frammentato della mitologia unitaria mediterannea giunto fino a noi quasi al limite dell'intellegibilitá ma ancora ricco di suggestioni.
genseki
Michelemmà
E' nata miez'o mare
Michelemmà
e Michelemmà
e' nata miez'o mare
Michelemmà e Michelemmà
oje na scarola
oje na scarola
Li turche se nce vanno
Michelemmà
Michelemmà
a reposare
Chi pe la cimma e chi
Michelemmà
Michelemmà
pe lo streppone
Visto a chi là vence
Michelemmà
co sta figliola
Sta figliola ch'e figlia
Michelemmà
Michelemmà
oje de Notare
E mpietto porta na ...
Michelemmà
Michelemmà
Stella Diana
Pe fa mori' ll'amante
Michelemmà
Michelemmà
A duje a duje
Pe fa mori' li amanti
a duje a duje
Dita e lumi
Come acqua si dirama in tanti rivoli
Frondosa s'apre allora la visione
Come fresca corolla nelle tenebre
Il vento che la sfiora scoppia in voli
In scintille di voli in frulli cardiaci
E tutto s'accartoccia in una sistole
E sale brucia fino ad ossa e cenere
Il tuo sguardo si apre come dita
S'aprono azzurre da mani serrate
Scaturiscono dal palmo e poi si irradiano
In fiocchi in piume fumo ed altre nuvole
Le mani aperte mai non si dissanguano
Coi suoi cristalli le accarezza il vento.
genseki
giovedì, gennaio 07, 2010
Dai miei occhi ai tuoi occhi
Questo lume riflesso come da una fonte
Scaturisce raggio dopo raggio
L'oscuritá che va da luce a luce
E scorre illuminando il tempo
Gocce di tempo si condensano ai limiti
Lacrimano sui tuoi zigomi stremati
Delineano scivolando in curve linee
Il profilo dei frutti e del fiorire
Come fosse carezza sul nitore
Della madida pelle della notte
Poi tutto è perla stretta in un istante
Nel tuo palmo serrato, nella conca
Delle pupille dove rumoreggia
Fluente luce a raggomitolarsi
Dal mio sguardo al tuo sguardo si condensa
L'oscuritá che pur luce non nega
Anzi l'afferma come fosse un occhio.
mercoledì, gennaio 06, 2010
Dialettica e poesia
L'essere e il nulla son lo stesso, - questa proposizione è imperfetta.
L'accento, infatti, viene posto di preerenza su “lo stesso”, come accade in genere nek giudizio, in quanto che solo il predicato è quello che vi enuncia che cosa il soggetto è. Il senso sembra quindi essere che la differenza venga negata; mentre invece si presenta anch'essa inmediatamente nella proposizione. La proposizione, infatti, esprime tutte e due le determinazioni, l'essere e il nulla e le contiene come diverse. - Non si puó insieme intendere che si debba astrarre dalle due determinazioni e tener ferma soltanto l'unitá. Questo senso si darebbe a vedere come unilaterale, poiché quello da cui si dovrebbe astrarre, si trova poi nondimeno nella proposizione, cioé vi è esplicitamente nominato. - In quanto ora la proposizione: essere e nulla è lo stesso, eprime l'identitá di queste determinazioni, ma nel fatto le contiene tutte e due come diverse, questa proposizione si contraddice in se stessa e si risolve. Se ora teniamo fermo questo vediamo che è posta qui una proposizione la quale considerata piú in particolare, ha il movimento di sparire di per se stessa. Accade quindi in codesta proposizione stessa quello che ha da divenire il suo contenito proprio, vale a dire il divenire.
La proposizione contiene dunque il risultato, è in se stessa il risultato. Ma la circostanza sui cui occorre qui attirare l'attenzione è il difetto che qui il risultato non é espresso esso stesso, nella proposizione, è una riflessione esterna, quella che ve lo riconosce.
A questo proposito si debe far qui subito da principio l'osservazione che la proposizione in forma di giudizio non é atta ad esprimere le veritá speculative.
Hegel
Logica
Questo brano della Logica hegeliana è un vero e proprio “mode d'emploi” del linguaggio hegeliano, una guida breve alla comprensione in un dettato che sembra sempre sfiorare l'incomprensibilità assoluta.
In questo senso appare in piena luce la mala fede di quanti insistono sulla oscuritá del testo hegeliano per negare la sua legittimitá speculativa.
Hegel ci da le chiavi per entrare nel suo castello e per percorrerne le sale. si tratta soltanto di usarle correttamente. Usarle correttamente è, poi, in fondo, una questione di pazienza. Una pazienza quasi infinita, questo si. Leggere Hegel è qualche cosa di molto prossimo a leggere un testo in cinese di cui si debbano apprendere uno dopo l'altro tutti i caretteri che lo compongono.
Sembra che la dimensione lineare del linguaggio, cioè la sua bidimensionalitá necessaria sia quello che lo rende inadeguato alla speculazione.
La dialettica pare aver bisogno di un linguaggio tridimensionale o pluridimensionale.
Che forma potrebbe prendere un linguaggio simile? È possibile pensare di costruirne uno? Che cosa significa avvicinarsi a un linguaggio pluridimensionale?
Si tratta di qualche cosa come un linguaggio a piú livelli in cui ogni livello sia contemporaneamente presente ad ogni altro e sua colto dalla mente con un movimento unico.
Si potrebbe pensare, ad esempio ad un linguaggio grafico con una serie gerarchica di tratti sovrasegmentali.
Un approccio di questo tipo peró non permette di immaginare un linguaggio le cui proposizioni abbiano graficamente, sintatticamente, morfologicamente “il movimento di sparire di per se stessa”.
Certamente stimolante è considerare questo testo di Hegel come una proposta di poetica.
Leggerlo come una serie di regole per la poesia. Una poesia che renda sensibile, evidente il movimento dialettico della realtá. Una poesia che sia sempre un passo al di la di se stessa e in cui qualsiasi cosa venga detta sia detta sempre solo come silenzio a venire.
genseki
martedì, gennaio 05, 2010
Dreiser Cazzaniga e l'umorismo
- Italiano sette con dodici” “Matematica sei con dieci”, “Fisica sei con nove”, “Topografia sette con venti” ….”Un nuovo ordine monastico!” esordì Dreiser Cazzaniga anziché dettare il voto di francese seguito dalle assenze”. La professoressa di matematica scoppiò in una risata inarrestabile mentre il Prof. Pezzetto dopo aver ringhiato rumorosamente incassò ulteriormente il cranio all’interno delle spalle ingobbite.
Dreiser assegnava ai suoi alunni il voto ottenuto attraverso la media istintiva, in valore assoluto mai minore di sei, mentre per le assenze effettuava un calcolo più complicato: la parte intera della media armonica delle assenze di tutte le materie che precedevano la sua. Ovviamente effettuava questi calcoli mentalmente e da quando calcolava le assenze in questo modo, anziché contare quelle segnate sul registro, il direttore Nespolino non faceva più pieghe sulla sua faccia castagnosa…
Di fronte il collega Dreiser il Collegio degli esercenti (pescivendole, macellai, droghieri ed altri commercianti dell’Istituto Tecnico Commerciale Stantuffi) era sempre nettamente diviso in due. Sessantratre l’avrebbero fatto uccidere o anche ucciso con le loro mani. Tre eroine dei fumetti invece lo amavano senza riserve e s’illuminavano d’immenso al solo vederlo. -
Shirakumo
Non ci sono molte tracce, negli scartafacci disordinati che abbiamo ereditato dal compianto Dreiser, che ci aiutino a identificare le tre dame. Pensiamo di che una potesse essere Doña Clarita Falta, anche se al tempo cui si riferisce la testimonianza di Shirakumo era abbastanza piú vecchia di Dreiser Cazzaniga, viveva con un vecchio pastore sardo che aveva salvato dal canile e era occupata in incomprensibili operazioni di autodistruzione. Era cinerea non legnosa, piuttosto cinerea si esprime al suo riguardo il nostro Dreiser Cazzaniga.
Forse l'altra era l'anima latina di Doña G. de León y Barbados pallida gaviota del Caribe e di Solentiname come la invoca Dreiser in un frammento di una poesia perduta a questa bella dama dedicata.
D'altre non abbiamo contezza e saremmo grati a shirakumo se volesse avanzare anch'ella una sua certamente acuta interpretazione.
L'ironia e l'umorismo tagliente sovente espresso attraverso sciarade e calembours a bruciapelo non era in Dreiser Cazzaniga indizio certo di letizia e spensieratezza ma di dolore e di amarezza.
Quanto pú soffriva tanto piú si faceva acuta la sua vena comica e rapidi i suoi malabarismi verbali fino a che una rabbia aspra e bruciante lo urticava impietosamente.
Lo stesso avveniva nei momenti di amarezza che erano frequenti in quel periodo.
L'umorismo era per Dreiser la suprema protesta contro l'insensatezza della vita e del cosmo.
Non era, peró, mai distruttivo il dolente umorismo di Dreiser Cazzaniga voleva piuttosto rompere il cosmo, infrangere lo specchio del linguaggio per poi rimontarli in un altro modo per essere sicuro che comunque non sarebbe mai stato piú assurdo di quello che si conveniva di chiamare reale e nella speranza che potesse essere perfino piú lieto, chissá!
Cosí finiva per fasi odiare da quasi tutti i molti che alla povera realtá si aggrappavano con fiducia per non essere travolti dalla loro notte interiore.
Era uno dei grandi peccati, non il solo, ma di certo uno dei piú grandi peccati contro la compassione di cui Dreiser Cazzaniga si dilettó per lunghi animi a macchiare quello strofinaccio liso della sua anima e di cui amaramente si pentí nella vecchiezza.
genseki
lunedì, gennaio 04, 2010
Torri
L'abbandono lascivo delle torri
Fasciate nelle piume della nebbia
Nel cobalto d'oblio delle nubi
Nel mutevole volto dei venti
Dominanti riflesse, modellate, chiamava
A sé lontane nevi
Come lo Sciamano chiama la lucertola
Con i suoi movimenti scivolosi
Con i passi di sussurro e seta, la coda
Vibrante alle onde piú sottili
Della malinconia. Torri, torrette
Saracene, barbacane sole nel tempo
Nel trascorrere di vigne e orzo
Nespole, castagne, frullo di fagiani
Nel disperdersi dell'odore del mosto
E del catrame
Torri lascivi spalti nel lenzuolo del tempo
Come carne concessa della storia
Carne diletta abbandonata oppressa
Torri togate di nebbia ottobrine
Nell'abbaglio della neve
Torri lascive a me avare di abbracci
Nel fuoco della memoria braci
Dell'incendio dei rovi
*
I borghi? Dormienti nelle pianure
Presi nel sonno inespiabile del mare
Onda dopo onda eppur chiusi tra fronde
Tra le chiome degli olmi degli ippocastani
I borghi? Ottusi, bianchi tra il fieno
Sferzati dall'odore acre delle colline
Dalla bianchezza del sole sulla piazza
Ruminando storia e passi zoccoli fustagno
Pneumatici cattedrale tacchi a spillo
Tacchi sottili come il conformismo
I borghi bianchi pascolano nella pianura
Assolati assordati assediati dal vento rosso
Delle colline dall'odore delle trecce
Delle lentiggini contadine
Dalle sirene delle fabbriche di mattoni
Che inchiodano la notte senza stelle.
genseki