venerdì, ottobre 06, 2023
La fine di una civiltà
lunedì, settembre 18, 2023
Tradotto dal silenzio
Joë Bousquet
Trad. Pietro
Attraverso la percezione di un oggetto, un oggetto qualsiasi, sento come una specie di pregiudizio causato al mio pensiero. Il mondo in cui vivo è oppresso dal peso della luce, quella luce nella quale non posso penetrare senza che tutti i pensieri che sono in me divengano trasparenti e inesistenti come spettri. Questo mondo è grottesco, ed è necessario che porti in volto la sua assurdità, giacché, senza conoscerne un altro, posso giudicarlo imperfetto. Non si può stare nell’orribile luce, sotto la pioggia esecrabile dei raggi, e se qualcuno così prevenuto come lo sono io, continua a dimorarvi, è perché non sa bene in che modo afferrare la notte.
Vi è una notte nella notte.
Vi sono sere in cui mi sento sfiorato da una specie di malinconia, una insensibilità triste. Mi sento inferiore, allora, degno di una mediocrità a cui verifica che la mia vita si conforma. Mi sento separato dal mondo per un’idea che mi faccio della sua bellezza. Non soffro ma gusto e penso il mio silenzio come se fosse l’espressione perfettamente appropriata del mio nulla interiore.
Sono disgustato dall’Io perché so che ha la realtà di questo mondo nelle mani. Odio questo “Io” che, invece di formarmi, me determina. Infatti è l’unità di tutti i miei istanti ña mi abbandona in mezzo ad essi, e tende a darmi come essere il mio pensiero, ovvero ciò che mi pone di fronte al mondo esterno e fuori di lui.
Tutti i miei istanti in un solo istante!… Temo, ormai, che la mia pena diri quanto me. Il mio vero essere mi caccia davanti a sé. Ah! Bisognerebbe avere per esistenza reale l’essere astratto di questa unità. Non bisognerebbe che tale unità di tutti i miei istanti avesse per figura nell’universo materiale questo corpo assurdo al quale sono legato. Questa unità da un frutto, ahimè!
lunedì, settembre 11, 2023
Preludio
Patrice de la Tour du Pin
Trad Pietro
A A. -H. de B”
Tutti i paesi che non hanno più leggende
Sono condannati a morire di freddo.
Lungi nell’animo, si distendono le solitudini
Sotto il sole morto dell’amore di sé.
All’alba si scorgono crescere nel torpore
Della palude, i banchi immensi di nebbia
Che usano i poeti, impotenti,
Per rendere vaghi il dolore e la paura.
Occorre respirarli quando si innalzano
E godere di questo brivido sconosciuto
Che appena si scopre nei sogni,
Nei paradisi che a volte si intravedono;
Solo i mediocri, gli addomesticati
Non comprenderanno la loro amarezza:
Non odono, perduti nella bruma,
Il grido selvaggio degli uccelli braccati.
Era il paese degli angeli selvaggi,
Quelli che non poterono nutrirsi d’amore;
Come tutte le bestie di passaggio,
Seguivano i venti sempre cangianti;
Salivano, talvolta, verso i cuori eletti,
Molto al di sopra della banalità della terra,
Ma sentivano battere nelle loro arterie
Il rimpianto dei cieli che non avrebbero rivisto!
Allora abbandonavano le altitudini
Spinto da orgoglio e da codardia
Li si sorprende nelle nostre solitudini
Solo di rado; hanno lasciato tutto.
La loro leggenda è morta nei bassi fondi.
Li si vede errare negli occhi delle donne,
E in quei bambini che attraversano l’anima,
Alla fine di Settembre, come vagabondi.
Alcuni, tuttavia si aggirano nell’ombra
Non devono restare molto lontani;
So che si bagnano nelle notti oscure
Perché i loro svaghi non abbiano testimoni.
Ma cosí straziante emerge il loro grido
Che sembra spezzare tutti i petti,
E si perde alle cime dello spirito
Come un lontano richiamo di caccia.
Lo udranno spaventati i casolari,
La sera dopo gli svaghi della carne;
Si spargerà sulla landa il lamento
D’una bestia sgozzata in pieno inverno;
O questo grido di paura nell’ombra intensa
Che bruscamente sorprende gli stagni,
Quando si avvicinano i passi degli inseguitori
E fan sgorgare l’acqua nel silenzio.
Sara cosí desolante sulla pianura
Che balzeranno i cuori dei passanti;
Si fermeranno per riprendere fiato
E dire: ecco il canto di un innocente!
La chiamata trascorsa, risuoneranno
Gli echi fino al centro dei midolli
E seguiranno il suo volo come un suono di corno,
Verso l’abisso trasparente delle stelle!
Tu saprai che non è il freddo
Che scatena un grido simile a quest’ora;
Meno lamentevole sarà la tua paura,
Tu conosci le febbri interiori,
I desideri che bruciano fino a contorcervi
Il ventre in due, in uno spasmo impotente;
E direi che il grido dell’innocente,
È il richiamo di una belva che vorrebbe mordere…
*
Vieni a sputare sui morti oscuri
Il disprezzo delle gioie comuni;
L’anima elevata e lo spirito puro
Si nutrono di rancore.
Se è proprio la povertà
Che permette l’elezione
Rigetta questa bestemmia
Che non da soddisfazione.
Perché resteranno più forti
D’ogni ingiuria che rimonti,
E questa pietà dei morti
Non sará mai vergogna.
*
Amico mio segreto, che io visiti
Questo giardino per i morti di cui conosci
Il silenzio
O evochi a bassa voce la tua presenza,
Nel più tenero di un cuore
Che non volesti lasciare,
Non vi vedo una grande differenza.
Avevo raccolto questi fiori per la morte di un eroe,
La sua tomba sarà ricoperta di anemoni,
Fioritura del vento e dello spirito
Non disturberà, tranne me, il tuo riposo,
Poiché tutti gli altri ti abbandonano.
Il tuo riposo? Sotto un cielo alto, straziato dai lampi,
Sempre solitario nelle ore di tempesta,
Spinto di risacca in risacca, e la testa
Presa nel morso negro dei mondi bramati,
E sempre da questo lato della festa…
Mi fai venir voglia di essere più difficile…
Tuttavia non ho fatto vela verso le isole,
All’avventura verso le zone morte del mare;
Ho paura, tuttavia, di tornare accanto a te,
Di istruire i bambini con parole nascoste
E formule infuse d¡ombra che li gelano…
I miei discepoli cercheranno altri altari,
Ceracre il senso del mondo nel mezzo delle erbe
Profumati, sulle alture spazzate dal cielo…
Oppure, le notti d’inverno, trascinando sulla mia scia,
Su di un declivio di un bianco indescrivibile,
I compagni in file serrate come animali,
Io insegnerò loro la disciplina della Quête
In questa scivola dove saremo veri cercatori
Di saggezza, una grande mandria di anime inquiete.
Spiegherò loro la bellezza dei loro ruoli,
Ma quando uno sentirá la mia mano sulla sua spalla,
Risponderà come risposi anch’io:
“Se mi hai scelto per la mia intelligenza,
Sarò io quello che si tanto atteso
Per secoli e secoli in silenzio.
mercoledì, agosto 23, 2023
La locanda
Era di passaggio e questo lo sapeva
Nel tempo che passava per trattenere ciò che passa
Ma chi mai potè cogliere quello che non passava?
Quello che contemplava non era nello spazio,
Eppure davanti a lui, vi era tutto lo spazio.
Il letto dell’Eterno riempiva l’effimero,
Dimorandovi senza posa ma senza stabilirsi,
Lo raggiungeva, infine, e vedeva, emanata
Da corrente contraria di luce fatale
Chiarità del santuario ove il Santo abitava,
Finché dall’insopportabile non fosse gravato
E neppure ridotto al balbettio del dolore,
Potrebbe sul bordo del corso inesauribile
Costruir la locanda sognata, offrire il vitto
Ai viandanti perduti tra la nebbia e il timore?
Fissare ogni ragione di chiarita di grazia
Per fondar la sua casa sulla tremula sabbia,
Ma stabile e sigillata dall’Eterno che passa
Per sprofondare, infine, al giungendo la sua ora
Pian piano nell’Eterno senza nessuna angoscia.
Patrice di La Tour du Pin, Terza commedia, Piccolo teatro crepuscolare [1964], in ,Poèmes choisis id., pp. 166-167.
Trad Pietro