mercoledì, ottobre 26, 2011

Xavier Zubiri



Xavier Zubiri

Durante tutta la mia vita ho conosciuto solo una emozione che mi ha commosso, l'emozione della problematicitá pura.

Fin da giovane provavo dolore nel vedere come tutto si trasforma in problema. (...) Questo dolore, tuttavia, non era in sé doloroso. (...) Era piuttosto la fonte, in fondo e fino ad ora l'unica vera fonte, di autentica gioia.
Mi volli afferrare positivamente a questo carattere problematico dellèsistenza.

Lettera a Heidegger
trad genseki

sabato, ottobre 22, 2011

Puntarron

Nuove poesie di genseki

La pioggia ha lavato gli ultimi ciuffi
Delle speranze e delle illusioni.
Ora lo vediamo l'albero è proprio un albero
La luce un groviglio di vermi
Eppure la lepre che fugge ha un profumo
Pungente di incendio il suo alito affumicato
Ricorda la tua pelle rosa o la carne
E la nostra povera morte è questo accettare
La fatica di digiunare dalle apparenze
Di una gloria mai sopita.

*

Anche il sonno è soltanto vapore
Dormendo accanto al focolare
Quando tante perle si scheggiano
Sulle vetrate dell'apparire
Qualcuno ci lasciò qualche falange
Cercando di potare l'ombra
Tutto quello che seccava lo trascinava il vento
Nessuno ci soccorse quando decidemmo
Di svegliarci.

*

Entrare nella musica era come entrare nel bosco
Entrambe le selve ci avrebbero salvato
La musica era tutta dorata, come un liquore
Come un autunno nella sua armilla
Ora sappiamo che restare accoccolati
Sul pavimento di terracotta
Non ci permette di decifrare l'ombra
Come il ricamo dell'avventura
Lo scrosciare verdastro della gronda
Si confonde con la sfilata sfuocata
dei gatti delle loro code e i baffi e tante stelle
Nel bosco e nella musica è tutto il nostro morire.

lunedì, settembre 12, 2011

Avanguardia e narrazione

Parte I


Negli anni cinquanta e sessanta i teorici del "Nouveau Roman" affermavano con veemenza che il romanzo era l'unica arte che, nel corso del XX secolo, non aveva portato a compimento la propria rivoluzione avanguardista, a differenza delle arti plastiche, della musica e della poesia che la stavano sviluppando da tre quarti di secolo. Se il cubismo, il dodecafonismo, il surrealismo e altre scuole degli anni dieci, venti e trenta avevano, al loro apparire, suscitato scandalo, anatemi e polemiche, ma n ormai erano state accolte nel limbo sereno in cui gli andirivieni del gusto finiscono per collocare i classici. Al contrario, tuttavia, nel 1973, Jean Ricardou, in un suo libro sul "Nouveau Roman" scriveva: "Siamo ormai alle edizioni complete, ai premi letterari, ai grandi quotidiani, all'Universitá, sicuramente il "Nouveau Roman" ha potuto imporre alcune caratteri della sua attivitá, ma l'accoglienza che ha ottenuto presso gli ambienti culturali sembra singolarmente concessa controvoglia". Oggi, trent'anni dopo, si può comprovare come questa resistenza sia ancora viva e che, nonostante una ricezione parialmente positiva nelle istanze culturale ufficiali come l'edizione della Pléiade di Nathalie Sarraute e il Premio Nobel a Claude Simon che puó essere interpretato come un riconoscimento a tutta la scuola, il rifiuto, in molti casi, continua ad essere cocciuto e violento.

Perché tanto furore? Varie possono esserne le cause, la piú evidente è che la complessitá di un'opera d'arte che la allontana dall'abitudine, non solo sconcerta, ma a volte, quando non si ha la preparazione per affrontarla, delude e offende. La ricezione tumultuosa delle novitá, a volte radicali, che sono una costante nella storia delle avanguardie, suole essere composta di razionalizzazione ma anche di risentimento. Nel caso del "Nouveau Roman" questo persistente ripudioincuriosisce posto che ha cessato da tempo di essere una novitá e ha il suo posto nella letteratura francese.

Un rifiuto cosí ottuso deve avere qualche causa che sarebbe interessante indagare e che non dipende dal carattere singolare del "Nouveau Roman" ma, piuttosto dalla funzione che la societá attribuisce al genere narrativo.

Si sa che la poesia lirica godette sempre di uno statuto piú libero della poesia epica perché la lirica atta esprimera la personalitá e l'intimitá del poeta poteva permettersi (dal punto di vista del pubblico, assolutamente non da quello dei poeti!) una maggiore irresponsabilitá dell'epica che spesso era utilizzata per eprimere il punto di vista di una intera societá. Quando, a partire dalla prima metá del secolo XIX la poesia si scriverá anche in prosa, l'uso che i poeti faranno di questo nuovo strumento finirá per dare un contributo decisivo alle avanguardie, proprio come, quando il genere epico adottó la prosa dando luogo al nuovo genere del romanzo, si produssero contemporaneamente, nei molti tentativi di ques'arte singolare, fenomeni contradditori e persino conflittuali.
La rappresentativitá sociale ereditata dall'epica sembra obbligare il romanzo a privilegiare la linearitá, l'azione, la trasparenza ( nel senso che Sartre da a questa parola come quello di un linguaggio non utilizzato nella sua opaca materialitá come nella poesia, bensí come un intermediario invisibile tra il lettore e il signficato). Anche se l'epica, a partire per lo meno da Don Chisciotte, ha cessato di essere preminente nell'evoluzione delle forme narrative ( e si potrebbe anche dire che il racconto in occidente evolve verso una retorica anti-epica), i procedimenti che veicolavano i suoi valori sociali e letterari continuano ad essere onnipresentied è evidente che l'esercizio di ogni narrativa valida ha consistito nell'opporsi ad essi. È questa opposizione che spiega la ricezione conflittuale di ogni opera narrativa dalla seconda metá del XIX secolo.

Juan José Saer

Trad genseki

venerdì, settembre 09, 2011

Drop Box

José Ortega y Gasset

La filosofia del pieno mezzogiorno di Ortega y Gasset impedisce alla nottola di levarsi in volo.


Preferisco concepire la filosofia come un fluido succedersi di luce e di ombra, nella radura, anche a mezzogiorno, la luce del sole filtra tremula tra le fronde si tinge di sfumature di verde e ocra, oppure è nebbia leggera del mattino che sfuma i contorni dei concetti e ci rimanda al loro discreto svelarsi come velati.


genseki




L'uomo vive abitualemente sommerso nella sua vita, come un naufrago nel suo mare, trascinato istante dopo istante dal torbido torrente del suo destino, vive, cioè. in uno stato di sonnambulismo interrotto soltanto da lampi intermittenti di luciditá nel corso dei quali scopre confusamente come è strano il fatto di vivere, allo stesso modo in cui il fumlmine, in un battito diciglia, rivela le anse profonde della nera nube dal cui seno scaturí. Aveva proprio ragione Calderón, e in un senso piú banale e terra terra di quanto pensasse: la vita è sogno come è sogno ogni realtá che non abbraccia se stessa, che non prende pieno possesso di sé,che resta dentro di sé e non riesce a fuoruscire da sé posizionandso sopra di sé. In questo sono eguali l'incolto el'uomodi scienza; anche il fisico èun sonnambulo e non solo nella vita quotidiana ma anche quando fa fisica sonnambulizza. La fisica è un sogno. Un sogno matematico.La sola possibilitá che l'uomo possiede per svegliarsi, per ricordare e vivere in pienaluciditá consiste precisamente nel filosafare.Insomma, la nostra vita o è sonnambulismo o filosofia. Lo dico chiaro come avvertenza preliminare: La filosofia non èun sogno - è insonnia - attenzione infinita,volontá di perpetuo mezzogiorno esasperata vocazione alla veglia e alla luciditá.

Ortega y Gasset
La ragione storica


Trad genseki

giovedì, luglio 07, 2011

La radura

Alla radura si giungeva
Seguendo i solchi paralleli
Tracciati dalle ruote dei carri
Furono queste le tracce ultime
Da pochi ancora ricordate
Che permettevano di entrare nel mondo
Perché nella radura il mondo parlava
Il linguaggio delle cose si esprimeva
In forma visibile e udibile
Come un pullulare di ronzio e scintilla
Di voli luminosi, batttiti d'elitra diamantina
Scrosciare lieve di piume viscido sibilare
Inerme dei ciotoli. Il linguaggio si faceva intensità
Significato libero dalla prigionia della relazione
Dalle catene del dare e dell'avere.
Entrava nella radura come in un tempio
Si sarebbe tolte le scarpe e le calze
Ma i suoi piedi avevano vergogna di lui
Tremando ubriaco di rose canine e ranuncoli.

La cittá

La città

La città si apriva come un urlo cavo
Sulla sommità della scala immensa
Se guardavo in alto era vertigine
Dissolversi sotto le ciglia di ogni sogno
Cercavo rifugio in tutti gli angoli
Nelle edicole ritagliate negli antichi muri
Nelle finestre che velavano appena il pudore delle candele
Ma i focomelici minacciavano,
I mendichi, la bottega dove vendevano le trippe
Lavate nel latte, bianche come le cuffie delle suore
Tornavo al borgo come in una bara di vetro
Le luci degli altri fari erano anime psicopompe
L'urlo della città mi aveva lavato tutto vuoto
Eppure non fu il borgo fu la radura
Che mi donò infine le parole e la pazienza.

Moteagudos y otoños

Il borgo II

Non era il borgo coscienza
Infine scoperta delle relazioni
Piuttosto misura dell'estraneità
Di chi osservava e sapeva osservare
La rumorosa fermentazione della pianura
Dei prati prima della fienagione
Del grano prima del rossore del papavero
E in tutto questo riconosceva le stelle
E alzava lo sguardo come in altri tempi
Alla volta celeste vaste fronti
Volgevano il loro stupore
Il borgo erano vecchie vene
Grige percorse dalle diramazioni del muschio
Ricami di salnitro
Ogni tanto un albero di cachi scoppiava rosso
Fradicio trai denti
I cani randagi allora pullulavano
Nelle osterie il vino puzzava di fenolo
Sulla costa in fondo alla radura
Espero delineava pianure di cobalto
Nel borgo battevano i denti le febbri e le fami
Arturo beffardo un giorno mi prese per mano
Non osavo alzare lo sguardo alla mia fronte
Nella radura riposai i piedi accanto alle orecchie
I fauni arrostivano le castagne trincavano barbera
Arturo era un bugiardo e un monello
Ma anch'io mi lavavo poco
Fuggivo dove nessuna carne potesse turbare il mio freddo.

febbraio 2009

Il borgo

Non aveva parole il borgo
Perso nella forma della sua distanza
Trasfigurato in acqua e in estranea trasparenza
Affondava nella sola palude
Da cui il sole
Non avrebbe potuto redimerlo.
Erano nebbie, fiori di castagno,
Rune sciolte, canti di levrieri nell'alba del biancospino
Una casa di pietra
Fuliggine.
Il borgo si apriva oltre la finestra
Sovente una tenda di pioggia
Garantiva la permanenza di questo limbo
Il suo odore di muschio
La morte, però, si sa, è sempre più forte
Della pioggia, delle macchie di umido,
Delle travi sconnesse del soffitto
Dei fantasmi degli interrutori a forma di chiave.
Così non smettiamo di scorrere
Dentro e fuori da noi stessi
Dimentichi di ogni patria o borgo
Che non sia radura.




**

gendronniere

Memoria

Succede che nella memoria restino fissate, in modo invariabile le distanze temporali come si rivelarono all'immaginazione per la prima volta. Il trascorrere del tempo, poi, non ha il potere di aggiungere o ti togliere niente. Si tratta di distanze temporali vissute nella mente come immagini, non come dati, o misure, anni, decenni secoli. Il fenomeno è più forte quando la distanza è remota quel tanto che basta perché nel momento della sua rivelazione fossero ancora vive persone che potevano testimoniarne l'estensione.
È difficile descrivere in termini astratti questa curiosa irregolarità prospettica nella percezione del tempo nella memoria, la si può meglio intuire attraverso un esempio.
Per me la distanza che mi separa dal 1920 è sempre quella che percepii come sensazione quando qualcuno mi raccontò un episodio relativo a quella data cui io potei dare, per la prima volta una forma rappresentativa concreta. Se questo avvenne, poniamo nel 1960 la distanza che intercorre, nella mia memoria tra me e il 1920 è e resta sempre di quarant'anni. Anche se adesso gli anni sono novanta e per un fanciullo di oggi la distanza dal 1960, anno della mia rivelazione dell'esitenza concreta del 1920 è più o meno della stesso ordine. Quest'ultima considerazione non cessa mai di stupirmi. Nel mondo della memoria le distanze temporali obbediscono a leggi diverse da quelle del mondo dell'esperienza. Vale la pena esplorare
genseki

Fenomeni della memoria

Succede che nella memoria restino fissate, in modo invariabile le distanze temporali come si rivelarono all'immaginazione per la prima volta. Il trascorrere del tempo, poi, non ha il potere di aggiungere o ti togliere niente. Si tratta di distanze temporali vissute nella mente come immagini, non come dati, o misure, anni, decenni secoli. Il fenomeno è più forte quando la distanza è remota quel tanto che basta perché nel momento della sua rivelazione fossero ancora vive persone che potevano testimoniarne l'estensione.
È difficile descrivere in termini astratti questa curiosa irregolarità prospettica nella percezione del tempo nella memoria, la si può meglio intuire attraverso un esempio.
Per me la distanza che mi separa dal 1920 è sempre quella che percepii come sensazione quando qualcuno mi raccontò un episodio relativo a quella data cui io potei dare, per la prima volta una forma rappresentativa concreta. Se questo avvenne, poniamo nel 1960 la distanza che intercorre, nella mia memoria tra me e il 1920 è e resta sempre di quarant'anni. Anche se adesso gli anni sono novanta e per un fanciullo di oggi la distanza dal 1960, anno della mia rivelazione dell'esitenza concreta del 1920 è più o meno della stesso ordine. Quest'ultima considerazione non cessa mai di stupirmi. Nel mondo della memoria le distanze temporali obbediscono a leggi diverse da quelle del mondo dell'esperienza. Vale la pena esplorarle.
03/07/11

Dawkins contro Dio

Considerazioni sull'esistenza di Dio

La negazione del'esistenza di Dio, nella forma in cui è esposta e propagandata dalle associazioni di atei e agnostici che si ispirano a Dawkins affronta un primo ostacolo del tutto insormontabile, un ostacolo semantico, sembrerebbe, per cui è indubitabile che esiste un significante DIO con una costellazione, uno sviluppo, una estesione di significati. L'esistenza del concetto di Dio non può essere ragionevomente negata.
Non si tratta quindi da parte degli atei di negare l'esistenza del concetto di Dio, quanto piuttosto di affermare la volontà di distruggere questo concetto, di cancellarlo.
A questo livello gli atei non sono coloro che negano Dio, essi sono, più correttamente coloro che vogliono distruggere il concetto di Dio.
L'affermazione: “Dio non esiste” può essere razionalmente sostenuta su molti piani ma non sul piano semantico, sul piano del segno, sul piano del significato e neppure su quello del concetto. È evidente a tutti che esiste un segno dio con la sua copia di significato e sigificante, esiste un concetto di dio. Come negarlo? Negarlo non si può, si deve distruggerlo. Ora, se si distrugge il segno dio, o il concetto, tutto il sistema dei significati e dei concetti debe essere completamente riorganizzato. Come dicevano i vecchi strutturalisti, un sistema è, appunto una rete di elementi in relazione di interdipendenza oppositiva. Se un elemento della rete si toglie, tutte le relazioni della rete vanno ridefinite, o si ridefiniscono automaticamente. È un po' quella famosa transvalutazione di tutti i valori del Zarathustra.
L'ateismo, comunque non può essere negazione, è obbligato a essere distruzione e poi riforma, ridefinizione.
Certo, è facile obiettare che questo ragionamento è tutto interno al linguaggio e al pensiero e che quello che gli atei vogliono fare è dimostrare è che nella realtà non vi è nessun dio, che Dio non ha un'esistenza reale fuori dal pensiero e dal linguaggio e che la necesità di abolire il segno e il concetto di dio dal linguaggio e dal pensiero altro non è che adeguare il linguaggio e il pensiero alla realtà.
Questa obiezione ha il difetto di considerare il pensiero e il linguaggio come elementi che non appartengono alla realtà. Eppure, il pensiero e il linguaggio una qualche realtà sembrano proprio averla. Un realtà tanto reale che è in grado spesso di modificare il reale.
L'ateismo sarebbe allora una negazione dell'esistenza di Dio al di fuori del pensiero e del linguaggio.
Fu detto ai tempi della grande filosofia che dio è una creazione degli uomini, se è una creazione degli uomini in forma di segno o di concetto non è possibile che non esista. Un prodotto è qualche cosa che esiste in seguito ad una azione,una attività.
genseki

lunedì, giugno 27, 2011

Il Tungsteno

Parte II


Di César Vallejo


Pochi giorni dopo videro lo stesso sora aiutare una ragazza a lavare il grano.
Poi si offrì per portare la punta di una fune negli smottamenti. Piú tardi, quando si cominciò a caricare il minerale e a trasportarlo alla officina di analisi, proprio quel sora spingeva il carretto. Il commerciante Marino, caporale di manodopera, gli disse un bel giorno:

- Vedo che anche tu stai lavorando. Bene, cholito, bene. Vuoi che ti aiui? Quanto vuoi?

Il sora non ci capiva niente in questo linguaggio di “aiuti” e di “quanto vuoi”. Voleva solo darsi da fare per passare il tempo, nient'altro. Perché i sora proprio non potevano starsene tranquilli, andavano e venivano allegri, con le vene gonfie e i muscoli tesi nell'azione, al pascolo, alla semina, a sarchiare a caccia di vigogne e lama guanacoe selvatici, scalando rocce e precipizi, in un lavoro incessante e a prima vista, disinteressato. Mancava loro completamente il senso dell'utilitá. Senza calcolare e senza preoccuparsi del risultato economico delle loro azioni, sembravano vivere la vita come un gioco espansivo e generoso. Dimostravano una tale fiducia negli altri che in certi momenti facevano pena, non conoscevano lo scambio commerciale e quindi capitava di assistere a scene divertenti a questo proposito:

- Vendimi un lama per fare carne affumicata.

L'animale era consegnato, senza che lo si pagasse e senza che il pagamento fosse nemmeno reclamato. A volte in cambio davano loro una o due monete che accettavano per poi ridarle subito al primo venuto alla minima richiesta.

*

Una volta stabilitasi nella zona la gente della miniera, impiegati e operai cominciarono a pensare a circondarsi di cose necessarie alla vita, a parte di quelle che facevano venire da fuori, che si potevano trovare in loco, come animali da soma, lama per la carne, cereali e altro ancora. Tuttavia bisognava portare avanti un lavoro paziente di esplorazione e poi dissodare le terre incolte, per convertirle in campi da arare ben fertili. Il primo ad operare sulla terra con l'intenzione, non solo di ottenere prodotti per la propria sussistenza, ma anche di arricchirsi a base di allevamento e di coltivazione, fu il proprietario del bazar e caporale esclusivo che, a questo fine, formò una societá segreta con l'ingegner Rubio e l'agronomo Benites. Marino prese su di sé la gestione di questa societá, dato che lui dal bazar poteva dedicarsi all'affare con facilità e con vantaggi particolari. Inoltre Marino aveva uno straordinario istinto commerciale. Grasso e piccolino, furbo e molto avaro, il commerciante sapeva coinvolgere la gente nei suoi affari come una volpe con le galline. Al contrario Baldomero Rubio era un tipo tranquillo, nonostante la sua alta statura e il fatto di essere un po' curvo di spalle, il che conferiva alla sua persona uno stupefacente aspetto di avvoltoio sul punto di aggredire un agnello. In quanto a Leónidas Benites non era altro che un timidissimo studente della facoltá di ingegneria de Lima, debole e bigotto, qualitá del tutto inutili e persino controproducenti in materia commericale.
José Marino mise gli occhi, fin dal primo istante, sui terreni, già seminati dei Sora e decise di appropriarene. Dovette però vedersela con Machuca, Baldazari e altri che anche loro si misero a spogliare i sora dei loro beni, e alla fine fu lui, Marino che vinse la pugna. Due armi gli permisero il successo: il bazar e il suo eccezionale cinismo.
I sora erano sedotti dalle cose, ben strane per le loro menti rozze e selvagge, che vedevano nel bazar: flanella colorata, bottiglie pittoresche, pacchetti multicolori, fiammifferi, caramelle, “baldes” brillanti, vasi trasparenti. José Marino fece il resto con la sua malizia da usuraio.


- Vendimi il pascolo delle oche al lato della tua capanna – disse loro un giorno nel bazar, approffitando della fascinazione che esercitavano le sue merci sui sora.


- Cosa dici, taita?
- Dico che mi dia il terreno dove tieni le oche e in cambio io ti darò quello che vuoi del mio negozio.

- Va bene, taita!


La vendita, o meglio il baratto, fu stipulata. A cambio del valore del terreno delle oche José Marino diede al sora una piccola caraffa di vetro azzurro con fiori rossi.
- Attento che la rompi! - disse paterno Marino.
Poi mostrò al sora come doveva portarla, con grande delicatezza, per non romperla. L'indio, accompagnato da altri due sora, portò l'oggetto fino alla sua capanna, a passettini come una cosa sacra. Percorsero la distanza, che era circa di un kilometro, in due ore e mezza. La gente usciva a guardarli e moriva dal ridere. Il sora non si era reso conto del fatto che l'operazione non fosse equa. Tutto quello che sapeva era che Marino voleva il suo terreno e così lo cedette. L'altra parte dell'operazione, la cessione della caraffa, era per il sora del tutto separata e indipendente dalla prima, per lui Marino aveva ceduto l'oggetto per il semplice fatto che la caraffa era piaciuta a lui, al sora.
Con questo metodo il commerciante continuò ad appropriarsi dei terreni coltivabili dei sora, che essi continuavano a cedere in cambio di piccoli oggetti pittoreschi de bazar con la maggiore innocenza possibile come bambini che non sanno quello che stanno facendo. I sora, mentre da un lato si lasciavano espropriare delle loro terre e dei loro armenti da Marino, Machucha, Baldazari e dagli altri impiegati della “Mining Society” non cessavano, dall'altro di lottare con la vasta natura vergine, assaltando i versanti e le valli, le selve e le pareti per arare e seminare e cercando nuovi animali da addomesticare e allevare. Il fatto di essere spogliati delle loro proprietà non sembrava causare loro il minimo danno. Anzi offriva loro occasione per essere ancora più espansivi e dinamici, visto che la loro congenita mobilitá trovava un impiego allegro e utile. La coscienza economica dei sora era molto semplice: finché potevano lavorare in qualche posto e in qualche modo per vivere, il resto non aveva importanza. Solo il giorno che fosse venuto loro a mancare dove e come lavorare per sopravvivere, solo allora avrebbero aperto gli occhi e si sarebbero opposti ai loro sfruttatori con una resistenza sicuramente accanita. La loro lotta con i minatori sarebbe allora stata per la vita o per la morte. Sarebbe mai giunto quel giorno? Per il momento i sora vivevano in una specie di ritirata davanti all'invasione, astuta e irresistibile di Marino e degli altri.
I braccianti, da parte loro condannavano i furti ai sora, con compasione.

- Che sfacciatagine! - Esclamavano facendosi il segno della croce – Togliere loro i campi e persino le baracche! Sbatterli fuori dalle loro proprietà! Che furto!


Alcuni operai osservavano:


- Sono i sora che fanno male. Sono stupidi, se pagano loro il giusto prezzo, va bene; se no, va bene lo stesso. Se chiedono loro le scarpe ridono come fosse uno scherzo e le cedono subito, son bestie, son scemi! Peggio per loro! Che vadano al diavolo!


I braccianti consideravano i sora come fossero matti o fuori dalla realtà. Una vecchietta, madre di un carbonaio, tirò un sora per la giacchetta, borbottando rabbiosa:

Pezzo di animale! Perché regali le tue cose? Non ti costano lavoro? Che fai? Ti metti a ridere? Ma guardalo! Si mette a ridere?...

La vecchietta era rossa per l'ira, e quasi lo prende per le oreccchie. Il sora per tutta risposta, le portò un mucchio di olluco, che la vecchietta rifiutò dicendo:

- ma non te l'ho detto per farmi regalare qualche cosa. Riprenditi i tuoi olluco. Poi le venne un rimorso improvviso come avesse accettato olluco, e guardò il sora con tenerezza e compassione.
Un'altra volta, la moglie di un cavatore di pietra si mise a piangere, vedendoli tanto indifesi e incapaci di calcolo e malizia. Aveva comprato alcuni zucchini e invece del prezzo pattuito aveva detto , all'ultimo momento mettendo in mano a uno di loro quattro reali:

- Ecco quattro reali. Non ho altro. Va bene?
- Va bene mamma . Disse il sora

trad genseki