venerdì, dicembre 10, 2010
mercoledì, dicembre 08, 2010
Nei giardini di Adone
Nei giardini di Adone coltivo vane parole
Effimere come teneri piselli -
Che il gelo di febbraio non permette,
E il timido bramito di rampicanti
Invano alzano al luminoso melo -
Prosperare fino al pallido verde
Che riassume l’orto nella sua delicata
Finita tessitura sonora, fuga e contrappunto
Tra sperma e clorofilla
Persino la lavanda geme il suo profumo
Nel giocondo canestro pronta
A morire avendo appena il tempo
Di rammemorare l’amido e la zampogna.
genseki
Effimere come teneri piselli -
Che il gelo di febbraio non permette,
E il timido bramito di rampicanti
Invano alzano al luminoso melo -
Prosperare fino al pallido verde
Che riassume l’orto nella sua delicata
Finita tessitura sonora, fuga e contrappunto
Tra sperma e clorofilla
Persino la lavanda geme il suo profumo
Nel giocondo canestro pronta
A morire avendo appena il tempo
Di rammemorare l’amido e la zampogna.
genseki
sabato, dicembre 04, 2010
La voce
È la parola che alberga la voce
La mia parola rifugio al tuo discorso
Al canto forse, ti modula la bocca
La tua parola suscita il mio fiato
Non lascia dimorare la mia lingua
La parola è rifugio della voce, canestro
Ove riposa in frequente sussulto
Fragranza è la voce nella spazio del dire
Nella morta parola sovrana voce sparge
Polline e strilli demenza e campane
Fino a che tutto il suono sia incarnato.
La mia parola rifugio al tuo discorso
Al canto forse, ti modula la bocca
La tua parola suscita il mio fiato
Non lascia dimorare la mia lingua
La parola è rifugio della voce, canestro
Ove riposa in frequente sussulto
Fragranza è la voce nella spazio del dire
Nella morta parola sovrana voce sparge
Polline e strilli demenza e campane
Fino a che tutto il suono sia incarnato.
La paura
Era d’asfalto
Era d’asfalto la lingua bianca
La lingua della paura
E il prato era oltre quel nastro
Quel bianco che lecca cento metri di denti
Ê pane la mia paura, è mollica
Tu sei il suo latte
Gocciola tepore con roco fiato
Scaldato al rosso degli scogli
Era d’asfalto la paura
Quella bianca sul prato
Quella che confonde i pioppi con le gocce
Con un asfodelo in mano
Davanti al parabrezza hai aperto
La porta della paura
Nel tripudio sconcio di mille denti.
Era d’asfalto la lingua bianca
La lingua della paura
E il prato era oltre quel nastro
Quel bianco che lecca cento metri di denti
Ê pane la mia paura, è mollica
Tu sei il suo latte
Gocciola tepore con roco fiato
Scaldato al rosso degli scogli
Era d’asfalto la paura
Quella bianca sul prato
Quella che confonde i pioppi con le gocce
Con un asfodelo in mano
Davanti al parabrezza hai aperto
La porta della paura
Nel tripudio sconcio di mille denti.
venerdì, dicembre 03, 2010
I giardinio d'Adone
Fioriscono nei giardini d’Adone
Sillabe, corolle di senso , effimere
In vimini e coccio
Versi maschere rime e tanti altri petali
Soavi al tatto, al credere; fuori
Incede alta foresta col ritmo del Vero
Brucia corona di specchi ogni chioma
E parla solo chi brucia
E cenere consola.
Raccogli viandante nel palmo della mano
Le reliquie di questo incendio
Che fu occhio e cuore
E sangue feconderá il tuo giardino
Fino alla prossima resurrezione.
Nessuno che sia saggio
Protegge la parola, la sua dal fuoco
Lascia che dilegui in altra bocca
D’altri ancora tormento e sospetto
Fioriscono ancora nei giardini d’Adone
Rime e parole, giá cavo il respiro si fa fiamma
D’altri petali, d’altre carezze e cenere
Ove sospetto ora foresta ora morte.
Sillabe, corolle di senso , effimere
In vimini e coccio
Versi maschere rime e tanti altri petali
Soavi al tatto, al credere; fuori
Incede alta foresta col ritmo del Vero
Brucia corona di specchi ogni chioma
E parla solo chi brucia
E cenere consola.
Raccogli viandante nel palmo della mano
Le reliquie di questo incendio
Che fu occhio e cuore
E sangue feconderá il tuo giardino
Fino alla prossima resurrezione.
Nessuno che sia saggio
Protegge la parola, la sua dal fuoco
Lascia che dilegui in altra bocca
D’altri ancora tormento e sospetto
Fioriscono ancora nei giardini d’Adone
Rime e parole, giá cavo il respiro si fa fiamma
D’altri petali, d’altre carezze e cenere
Ove sospetto ora foresta ora morte.
Lo sciamano di Briggio
Anche Briggio come alquanto altri barrios valligiani possdeva il proprio sciamano, colui che era incaricato di tramandare le gesta ella stirpe e la continuitá delle tradizioni e della parlata. Lo sciamano del barrio di Briggio aveva un nom benedetto, dorato: era infatti chiamato Abbondio, Abbondio Agatupolo e tutti nelle stradine strette e scivolose, cui l’umiditá quasi perenne conferiva odore di muffa, muschio e bollitura di cavol con mosto solevano designarlo con rispetto, o a volte con mal disimulata stizza Mastro Abbondio. Di origine forse levantina giunse nel barrio come calafato e fattosi ginnasiarca si elevó poco a poco con le sole sue forze fino alla prestigiosa carica di sciamano che nessuno per lunghissimi anni pensó mai di contendergli. No, mai fu sfidato Mastro Abbondio. Di modesta statura e carnagione scura aveva la fronte scolpita da tre profonde rughe che si accentuavano quando assumeva il fiero cipiglio con cui era solito presentarsi in pubblico nelle occasioni ufficiali e nelle festivitá e proprio nel centro delle tre rughe come un punto di intersezione un pronunciata prominenza callosa, come una specie di piccolo corno.
Si fissó nella memoria del giovin Dreiser Cazzaniga, tale prominenza, come marchio del sapere e della cultura a tal segno che quando giá era uno studioso, onesto adolescente non poteva figurarsi Cicerone, Patone o Aristotele stesso senza una pronuncatissima protuberanza frontale come unicorni, insomma del Parnaso. Voce aveva roca e carnosa per lo smodato uso di nicotina che ingiallivagli altresí le falangi dell’indice e del medio della mano destra. Gran parte della sua vita era dedicata alla stesura di una monumentale “Historia Barrii Briggi” grazie a una cospicua documentazione messagli a disposizione dal fratello, persona grigia e da tutti ignorata nonostante i somigliassero come due gocce d’acqua, forse proprio pe l’assenza del corno di Mastro Abbondio. Della sua maggiore fatica soleva egli dare pubbliche letture in molto contate occasioni, sfogliava allora davanti agli attoniti briggesi immensi fasci di scartafacci, borbottando con voce roca che si confondeva nel fruscio pergamenaceo senza mai iincontrare quelloche cercava. Queste letture non erano lette perché non trovava mai quello che aveva intenzione di leggere. Alla sua morte non fu possibile trovare traccia dell’opera sua maggiore, nemmeno poche righe che si potessero ad essa attibuire. Tra colpi di tosse e arzigogoli delle mani egli riusciva, tuttavia di comunicare ai briggesi la tesi principale che aveva scoperto e dimostrato. I briggesi erano originari di Trebisonda, in Asia Minore ed erano giunti nell’umido barriio chiamati da un rdine monastico del luogo per la loro perizia artigianale nella produione di oggetti sferici, biglie, perle, pelote e palle. Adduceva come prova di questa teoria il fatto che nella parlata briggesi si trovassero elementi celtici. Il fatto che a Trebisonda non vi fossero celti e che anzi un proverbio di Cappadocia citato da Bessarone suonasse: “Raro come un celta in Trebisonda” non turbava i briggesi che non sapevano chi fosse Bessarione e non avevano mai udito parlare di Cappadocia. L’ordine monastico poi aveva la sua sede in Marsiglia ed era stato fondato molti secoli dopo l’esodo preteso dei briggesi da Trebisonda secondo lo stesso mastro Abbondio; neppure questa contraddizione aveva peró il potere di scuotere la ferma fede che gli abitanti del barrio riponevano nel loro sciamano, vuoi percé non la notavano, vuoi perché il fatto di potersi fregiare di tale esotica provenienza gli faceva sentire superiori agl altri villani che appartenevano al luogo dove erano spuntati come funghi dall’umido sottobosco.
Soleva Mastro Abondio abbellire il suo discorso con citazioni in antiche, illustri lingue straniere e soprattutto in castigliano. Grande e amara fu la sopresa del giovin Dreiser Cazzaniga quando, avendo appreso egli il castigliano, dovette rendersi conto del fatto che le citazioni di Mastro Abbondio non solo non erano in castigliano ma in uno scorretto gagliego, ma che nemmeno il loro significao coincideva con quello che Mastro Abbodio gli attribuiva. La figura dello Sciamano cadde fragorosamente nella mente di Dreiser Cazzaniga laciando il suolo cosparso di cocci taglienti. Per lunghi anni Dreiser Cazzaniga irrise e rabbiosamente denigró Mastro Abbondio e l’opera sua e solo dopo che vari lustri accumularono sulle sua spalle dolore e delusioni comprese che Matro Abbondio aveva svolto nel Barrio una nobile e amara funzione, non per le sue conoscenze e per la sua cultura, ché non possedeva né le une né l’altra, ma per aver saputo scolpire nelle anime dei giovani briggesi il rispetto per il sapere e l’amore per la propria terra e la propria stirpe facendo in modo che si sentissero parte di una vicenda che superava le loro vite individuali e affondava nei secoli, che si sentissero un popolo, pochi anni prima che la televisione finisse pre traformarli definitivamente in una plebe stracciona dipendente dall’annona.
Si fissó nella memoria del giovin Dreiser Cazzaniga, tale prominenza, come marchio del sapere e della cultura a tal segno che quando giá era uno studioso, onesto adolescente non poteva figurarsi Cicerone, Patone o Aristotele stesso senza una pronuncatissima protuberanza frontale come unicorni, insomma del Parnaso. Voce aveva roca e carnosa per lo smodato uso di nicotina che ingiallivagli altresí le falangi dell’indice e del medio della mano destra. Gran parte della sua vita era dedicata alla stesura di una monumentale “Historia Barrii Briggi” grazie a una cospicua documentazione messagli a disposizione dal fratello, persona grigia e da tutti ignorata nonostante i somigliassero come due gocce d’acqua, forse proprio pe l’assenza del corno di Mastro Abbondio. Della sua maggiore fatica soleva egli dare pubbliche letture in molto contate occasioni, sfogliava allora davanti agli attoniti briggesi immensi fasci di scartafacci, borbottando con voce roca che si confondeva nel fruscio pergamenaceo senza mai iincontrare quelloche cercava. Queste letture non erano lette perché non trovava mai quello che aveva intenzione di leggere. Alla sua morte non fu possibile trovare traccia dell’opera sua maggiore, nemmeno poche righe che si potessero ad essa attibuire. Tra colpi di tosse e arzigogoli delle mani egli riusciva, tuttavia di comunicare ai briggesi la tesi principale che aveva scoperto e dimostrato. I briggesi erano originari di Trebisonda, in Asia Minore ed erano giunti nell’umido barriio chiamati da un rdine monastico del luogo per la loro perizia artigianale nella produione di oggetti sferici, biglie, perle, pelote e palle. Adduceva come prova di questa teoria il fatto che nella parlata briggesi si trovassero elementi celtici. Il fatto che a Trebisonda non vi fossero celti e che anzi un proverbio di Cappadocia citato da Bessarone suonasse: “Raro come un celta in Trebisonda” non turbava i briggesi che non sapevano chi fosse Bessarione e non avevano mai udito parlare di Cappadocia. L’ordine monastico poi aveva la sua sede in Marsiglia ed era stato fondato molti secoli dopo l’esodo preteso dei briggesi da Trebisonda secondo lo stesso mastro Abbondio; neppure questa contraddizione aveva peró il potere di scuotere la ferma fede che gli abitanti del barrio riponevano nel loro sciamano, vuoi percé non la notavano, vuoi perché il fatto di potersi fregiare di tale esotica provenienza gli faceva sentire superiori agl altri villani che appartenevano al luogo dove erano spuntati come funghi dall’umido sottobosco.
Soleva Mastro Abondio abbellire il suo discorso con citazioni in antiche, illustri lingue straniere e soprattutto in castigliano. Grande e amara fu la sopresa del giovin Dreiser Cazzaniga quando, avendo appreso egli il castigliano, dovette rendersi conto del fatto che le citazioni di Mastro Abbondio non solo non erano in castigliano ma in uno scorretto gagliego, ma che nemmeno il loro significao coincideva con quello che Mastro Abbodio gli attribuiva. La figura dello Sciamano cadde fragorosamente nella mente di Dreiser Cazzaniga laciando il suolo cosparso di cocci taglienti. Per lunghi anni Dreiser Cazzaniga irrise e rabbiosamente denigró Mastro Abbondio e l’opera sua e solo dopo che vari lustri accumularono sulle sua spalle dolore e delusioni comprese che Matro Abbondio aveva svolto nel Barrio una nobile e amara funzione, non per le sue conoscenze e per la sua cultura, ché non possedeva né le une né l’altra, ma per aver saputo scolpire nelle anime dei giovani briggesi il rispetto per il sapere e l’amore per la propria terra e la propria stirpe facendo in modo che si sentissero parte di una vicenda che superava le loro vite individuali e affondava nei secoli, che si sentissero un popolo, pochi anni prima che la televisione finisse pre traformarli definitivamente in una plebe stracciona dipendente dall’annona.
venerdì, novembre 19, 2010
Per i tre grandi maestri del realismo drammatico del XVII secolo, Caravaggio, Rembrandt e Bernini, lo spechio è un'utensile quasi altrettanto importante del pennello, o lo scalpello. L'obiettivo consisteva nello scongelare l'espressione della passione, liberandola dalle restrizioni imposte dai modelli classici; nel dotare della maggiore autenticitá possibile la mobilitá naturale del volto e i gesti del corpo. E mentre si convertivano nei loro propri modelli per portare a compimento questo processo di animazione, scoprirono l'intensitá della propria identificazione con la storia che raccontavano. Autoritraendosi, gli artisti si trasformavano in attori e pubblico contemporaneamente, i produttori e consumatori della propria rappresentazione.
Simon Schama
Il potere dell'arte
Bernini
Simon Schama
Il potere dell'arte
Bernini
Memorie di Dreiser Cazzaniga
L'Africa di Dreiser Cazzaniga
Come avvenne che Dreiser Cazzaniga nel pieno della sua amara goventú finisse nel Cuore Tenebroso del'Africa Equatoriale? Neppure lui riuscí mai a chiarirselo bene. Per imitare Rambaldo? Per idealismo? Per paura? Per desiderio di avventtura? La sola cosa che Dreiser Cazzaniga mostró sempre di sapere con sicurezza fu che la decisione sciagurata la prese durante un'escursione con Beaumont in un mattino fragrante tra l'abetaia e il mare dell'adolescenza mentre presentiva la discesa del Dio ladro e medico di cui a quei tempi adorava le tracce lievi sui prati e l'arena: Hermes.
Poi la decisione la mantenne. L'Africa di Dreiser Cazzaniga fu una discesa iniziatica nelle viscere della sua pretenziosa ingenuitá. Lui, a volte la chiamava proprio stupiditá. Dreiser Cazzaniga era stato programmato per essere un perdente (lo abbiamo giá visto).
Il viaggio comincio nei Paesi bassi cattolici, Dreiser Cazzaniga ricorda di come fu portato quasi di peso dall'entusiasmo degli amici fino al'aereo. Era il primo aereo dela sua vita e non capí niente di quello che doveva fare per imbarcarsi. Se lo trovó fatto, lo fece, insomma senza poi potersi ricordare quello che aveva fatto. Poi fu una locanda aeroportuale piena di ubriachi calvi provenienti dalla poderosa isola di Albione che vomitavano e pisciavano per i corridoi e sugli ascensori. Piú morto che vivo, in una mattina di riflessi di cromo raggiunse il velivolo che doveva portarlo in Camerun. Del volo non ricordó mai pú nulla salvo lo scalo a Kano per problemi di stabilitá dovuti all'infuriare del vento Rosso, l'Harmattan. Restarono ore nell'aereoport che doveva essere rovente avvolti in una fiammegiante nebbia di sabbia rossa. Il suo casuale compagno di viaggio era un bulgaro che gli spiegava in una specie di inglese (Dreiser no capiva l'inglese) come per vincere la paura dell'Africa la cosa migliore fosse l'acquavite di ginepro di cui aveva una bottiglia in ogni tasca della sahariana. (Dreiser Cazzaniga anche se non capiva l'inglese capiva perfettamente quello che il bulgaro voleva dirgli in quello che egli credeva fosse inglese). Poi l'aereo decolló e dopo una serie infinita di vuoti d'aria finalmente atterró a Douala. Una nube di calore insopportabile e umido come quello del calderone di una antica tintoria colpí e avvolse il poverso Dreiser Cazzaniga mettendo al tappeto quel poco che restava del suo buon senso giá screpolato da ore e ore di ansia intervallate da raffiche di paura. Nel mezzo di una folla frenetica egli cominció a distribuire scellini, franchi, corone, talleri a qualsiasi sbirraccio gli si avvicinasse con fare minaccioso e si ritrovó senza bagaglio in una cella di fango secco dal suolo di fango pisciato in mezzo a topi e escrementi e altri insetti in qualche luogo attorno all'aeroporto di Douala. Dopo un tempo che non seppe mai calcolare nel ricordo la porta si aprí e un uomo entró gridando: “Dreiser! Dreiser!” Distribuendo pacche sulla spalle a tutti gli sbirracci e sorrisi e sigarette, fece cenn a Dreiser Cazzaniga di seguirlo. Dreiser Cazzaniga lo seguí. Era un gigante canuto dalla dentatura gialla e nera, portava una camicia che la settimana precedente aveva dovuto essere bianca, e una collana di denti di varie fiere anch'essi gialli e neri in mezzo ad altri feticci pelosi, stivali messicani, la fondina di una pistola in cui teneva le chiavi della macchina e il guinzaglio di uno dei suoi cani. Dreiser Cazzaniga entró nella sua macchina come si entra in un frigorifero, la barba gli si ricoprì si brina. Avrebbe trascorso i primi venti giorni in Africa tormentato da una violenta bronchite. L'interno della macchina era pieno di denti, conchiglie e feticci pelosi che pendevano sporchi da ogni gancio disponibile. Sui sedili giacevano abbandonati porno di Taiwan e film di Kungfu di Hongkong. Dreiser Cazzaniga si abbandonó alla spossatezza che precede la morte bianca mentre il veicolo si apriva il passo in un delirio di claxon e di mani tese che il Señor Zocco si affrettava a colmare di banconote stropicciate. La casa di Don Zocco era circondata da altissimi muri, cani rabbiosi, servi servili, siepi spinose. Dreiser Cazzaniga en varc'il cancello con il rombo rovente della febbre nelle tempie. Un servo in mutande trateneva a stento un cane dai denti coperti di una leggera bava rosa, Dreiser Cazzaniga non aveva piú forza per avere paura. La sua stanza gli fu mostrata e Don Zanco lo invitó a trascorrere la serata, se avesse voluto con i suoi invitati in piscina. Dreiser Cazzaniga declinó l'invito, ovviamente, Un motore di Boeing ronzava senza sosta nella sua testa, lo assordava lo spingeva a fumare una sigaretta dopo l'altra.
Solo. Cercava di dormire. Il motore non si spegneva, la notte era come un'immensa spugna caldissima e profumata, che ottundeva i sensi e lasciava solo il sussulto di sporadici palpiti di paura. Dreiser Cazzaniga cercó un po' di fresco guardando fuori dalla finestra. a finestra dava sulla piscina, nella piscina Don Zanco e i suoi amici saltavano tra gli spruzzi circondati da una decina di schiamazanti ragazzine nude. Sembravano trainati dalle punte dei loro sessi turgidi sui forti corpi spossati dal gin. Dreiser Cazzaniga rinunció a scendere in piscina, si rassegnó al motore del Boeing, si lasció cadere sul letto e cadde in un doloroso sopore. Poi il motore si spense, Dreiser Cazzaniga precipitó con terrore nel nulla del suo silenzio interno. Si riseveglió gridando nel silenzio azzurro della sua prima mattina africana, nell'illusione tanto dolce che i grandi alberi che incorniciavano il paesaggio che si vedeva dalla finestra fossero scaturiti di colpo dalla terra proprio nel corso di quella sola notte.
Come avvenne che Dreiser Cazzaniga nel pieno della sua amara goventú finisse nel Cuore Tenebroso del'Africa Equatoriale? Neppure lui riuscí mai a chiarirselo bene. Per imitare Rambaldo? Per idealismo? Per paura? Per desiderio di avventtura? La sola cosa che Dreiser Cazzaniga mostró sempre di sapere con sicurezza fu che la decisione sciagurata la prese durante un'escursione con Beaumont in un mattino fragrante tra l'abetaia e il mare dell'adolescenza mentre presentiva la discesa del Dio ladro e medico di cui a quei tempi adorava le tracce lievi sui prati e l'arena: Hermes.
Poi la decisione la mantenne. L'Africa di Dreiser Cazzaniga fu una discesa iniziatica nelle viscere della sua pretenziosa ingenuitá. Lui, a volte la chiamava proprio stupiditá. Dreiser Cazzaniga era stato programmato per essere un perdente (lo abbiamo giá visto).
Il viaggio comincio nei Paesi bassi cattolici, Dreiser Cazzaniga ricorda di come fu portato quasi di peso dall'entusiasmo degli amici fino al'aereo. Era il primo aereo dela sua vita e non capí niente di quello che doveva fare per imbarcarsi. Se lo trovó fatto, lo fece, insomma senza poi potersi ricordare quello che aveva fatto. Poi fu una locanda aeroportuale piena di ubriachi calvi provenienti dalla poderosa isola di Albione che vomitavano e pisciavano per i corridoi e sugli ascensori. Piú morto che vivo, in una mattina di riflessi di cromo raggiunse il velivolo che doveva portarlo in Camerun. Del volo non ricordó mai pú nulla salvo lo scalo a Kano per problemi di stabilitá dovuti all'infuriare del vento Rosso, l'Harmattan. Restarono ore nell'aereoport che doveva essere rovente avvolti in una fiammegiante nebbia di sabbia rossa. Il suo casuale compagno di viaggio era un bulgaro che gli spiegava in una specie di inglese (Dreiser no capiva l'inglese) come per vincere la paura dell'Africa la cosa migliore fosse l'acquavite di ginepro di cui aveva una bottiglia in ogni tasca della sahariana. (Dreiser Cazzaniga anche se non capiva l'inglese capiva perfettamente quello che il bulgaro voleva dirgli in quello che egli credeva fosse inglese). Poi l'aereo decolló e dopo una serie infinita di vuoti d'aria finalmente atterró a Douala. Una nube di calore insopportabile e umido come quello del calderone di una antica tintoria colpí e avvolse il poverso Dreiser Cazzaniga mettendo al tappeto quel poco che restava del suo buon senso giá screpolato da ore e ore di ansia intervallate da raffiche di paura. Nel mezzo di una folla frenetica egli cominció a distribuire scellini, franchi, corone, talleri a qualsiasi sbirraccio gli si avvicinasse con fare minaccioso e si ritrovó senza bagaglio in una cella di fango secco dal suolo di fango pisciato in mezzo a topi e escrementi e altri insetti in qualche luogo attorno all'aeroporto di Douala. Dopo un tempo che non seppe mai calcolare nel ricordo la porta si aprí e un uomo entró gridando: “Dreiser! Dreiser!” Distribuendo pacche sulla spalle a tutti gli sbirracci e sorrisi e sigarette, fece cenn a Dreiser Cazzaniga di seguirlo. Dreiser Cazzaniga lo seguí. Era un gigante canuto dalla dentatura gialla e nera, portava una camicia che la settimana precedente aveva dovuto essere bianca, e una collana di denti di varie fiere anch'essi gialli e neri in mezzo ad altri feticci pelosi, stivali messicani, la fondina di una pistola in cui teneva le chiavi della macchina e il guinzaglio di uno dei suoi cani. Dreiser Cazzaniga entró nella sua macchina come si entra in un frigorifero, la barba gli si ricoprì si brina. Avrebbe trascorso i primi venti giorni in Africa tormentato da una violenta bronchite. L'interno della macchina era pieno di denti, conchiglie e feticci pelosi che pendevano sporchi da ogni gancio disponibile. Sui sedili giacevano abbandonati porno di Taiwan e film di Kungfu di Hongkong. Dreiser Cazzaniga si abbandonó alla spossatezza che precede la morte bianca mentre il veicolo si apriva il passo in un delirio di claxon e di mani tese che il Señor Zocco si affrettava a colmare di banconote stropicciate. La casa di Don Zocco era circondata da altissimi muri, cani rabbiosi, servi servili, siepi spinose. Dreiser Cazzaniga en varc'il cancello con il rombo rovente della febbre nelle tempie. Un servo in mutande trateneva a stento un cane dai denti coperti di una leggera bava rosa, Dreiser Cazzaniga non aveva piú forza per avere paura. La sua stanza gli fu mostrata e Don Zanco lo invitó a trascorrere la serata, se avesse voluto con i suoi invitati in piscina. Dreiser Cazzaniga declinó l'invito, ovviamente, Un motore di Boeing ronzava senza sosta nella sua testa, lo assordava lo spingeva a fumare una sigaretta dopo l'altra.
Solo. Cercava di dormire. Il motore non si spegneva, la notte era come un'immensa spugna caldissima e profumata, che ottundeva i sensi e lasciava solo il sussulto di sporadici palpiti di paura. Dreiser Cazzaniga cercó un po' di fresco guardando fuori dalla finestra. a finestra dava sulla piscina, nella piscina Don Zanco e i suoi amici saltavano tra gli spruzzi circondati da una decina di schiamazanti ragazzine nude. Sembravano trainati dalle punte dei loro sessi turgidi sui forti corpi spossati dal gin. Dreiser Cazzaniga rinunció a scendere in piscina, si rassegnó al motore del Boeing, si lasció cadere sul letto e cadde in un doloroso sopore. Poi il motore si spense, Dreiser Cazzaniga precipitó con terrore nel nulla del suo silenzio interno. Si riseveglió gridando nel silenzio azzurro della sua prima mattina africana, nell'illusione tanto dolce che i grandi alberi che incorniciavano il paesaggio che si vedeva dalla finestra fossero scaturiti di colpo dalla terra proprio nel corso di quella sola notte.
Il folle Melograno
In questi cortili bianchissimi dove spira il vento del sud
Sibilando per le stanze dalle ampie volte, ditemi: è il folle melograno
Che saltella nella luce spargendo la sua risata fruttuosa
Con ostinazioni e sussurri di vento? Diteni, è il folle melograno
Che freme in foglioline novelle con l'alba
Illuminando tutti i colori con un brivido di trionfo?
Quando nei campi ove si risvegliano nude le fanciulle
Mietono con bionde mani il trifoglio,
Percorrono i confini dei loro sogni, ditemi, è il folle melograno
Che insospettabilmente colloca nei suoi freddi panieri le luci
Con nomi traboccanti di gorgheggi? Ditemi,
È il folle melograno che combatte il coperchio di nuvole del mondo?
Il giorno che la gelosia adorna con sette tipi di piume
Abbbraciando l'eterno sole con migliaa di prismi
Accecanti, ditemi, è il folle melograno
Che afferra una criniera con cento frustate nella sua corsa
Mai afflitto mai brontolone? Ditemi, è il fole melograno
Che proclama a gran voce lo spuntare della nuova speranza?
Ditemi è il folle melograno che saluta da lontano
Agitando un fazzoletto di foglie di fuoco fresco
Un mare che sta per pertorire mille e una barca
Che onde che vano e vengono mille e una volta
Su spiagge inodore? Ditemi, è il folle meolgrano
Che fa scricchiolare le alte brigli nella trasparenza dell'etere?
In alto con grappolo glauco che s'incendia di festa
Arrogante, avventato, ditemi, è il folle melograno
Che fa scoppiare in luce nel bel mezzo del mondo i temporali del demonio?
Che estende da parte a parte la nuca di zafferano del giorno
Intrecciato con sparto? Ditemi, è il folle melograno
Che sbottona in fretta e furia la seta del giorno?
Sottoveste per il primo d'aprile e cicale a ferragosto
Ditemi, quegli che gioca, che infuria, che confonde,
Agitando come minacce le sue cattive ombre nere
Versando in grembo al sole uccelli inebrianti
Ditemi, colui che mette ali aperte al petto delle cose
Al petto dei nostri sogni piú profondi, è il folle melograno?
Odysseas Elytis
Orientamenti
Trad genseki
Sibilando per le stanze dalle ampie volte, ditemi: è il folle melograno
Che saltella nella luce spargendo la sua risata fruttuosa
Con ostinazioni e sussurri di vento? Diteni, è il folle melograno
Che freme in foglioline novelle con l'alba
Illuminando tutti i colori con un brivido di trionfo?
Quando nei campi ove si risvegliano nude le fanciulle
Mietono con bionde mani il trifoglio,
Percorrono i confini dei loro sogni, ditemi, è il folle melograno
Che insospettabilmente colloca nei suoi freddi panieri le luci
Con nomi traboccanti di gorgheggi? Ditemi,
È il folle melograno che combatte il coperchio di nuvole del mondo?
Il giorno che la gelosia adorna con sette tipi di piume
Abbbraciando l'eterno sole con migliaa di prismi
Accecanti, ditemi, è il folle melograno
Che afferra una criniera con cento frustate nella sua corsa
Mai afflitto mai brontolone? Ditemi, è il fole melograno
Che proclama a gran voce lo spuntare della nuova speranza?
Ditemi è il folle melograno che saluta da lontano
Agitando un fazzoletto di foglie di fuoco fresco
Un mare che sta per pertorire mille e una barca
Che onde che vano e vengono mille e una volta
Su spiagge inodore? Ditemi, è il folle meolgrano
Che fa scricchiolare le alte brigli nella trasparenza dell'etere?
In alto con grappolo glauco che s'incendia di festa
Arrogante, avventato, ditemi, è il folle melograno
Che fa scoppiare in luce nel bel mezzo del mondo i temporali del demonio?
Che estende da parte a parte la nuca di zafferano del giorno
Intrecciato con sparto? Ditemi, è il folle melograno
Che sbottona in fretta e furia la seta del giorno?
Sottoveste per il primo d'aprile e cicale a ferragosto
Ditemi, quegli che gioca, che infuria, che confonde,
Agitando come minacce le sue cattive ombre nere
Versando in grembo al sole uccelli inebrianti
Ditemi, colui che mette ali aperte al petto delle cose
Al petto dei nostri sogni piú profondi, è il folle melograno?
Odysseas Elytis
Orientamenti
Trad genseki
giovedì, novembre 18, 2010
Poesia dell'addio
Il sole sbriciola la sabbia bianca del cortile
Le palme agitano la criniera come un grido
È bene che tu beva il vino del disprezzo
Prima dell'addio
Non troverai un altro amico
Quando giungerai
Alle porte di Hûrqalya.
genseki
Le palme agitano la criniera come un grido
È bene che tu beva il vino del disprezzo
Prima dell'addio
Non troverai un altro amico
Quando giungerai
Alle porte di Hûrqalya.
genseki
Memorie di Dreiser Cazzaniga
Dreiser Cazzaniga e il macinino
Fin dalla piú tenera infanzia Dreiser Cazzaniga ebbe una percezione chiara di quelo che fosse l'immortalitá. Lui l'immortalitá la percepiva nelle cose, negli oggetti piú semplici che andava scoprendo in casa della Nonna Violante detta la Dama Azul. La casa della Dama Azul aveva due colori bellissimi, l'arancione della cucina e l'azzurro della stanzza da letto. Tutti i mobili dela cucina erano dipinti di un arancione solare e le gambe delle sedie e dei tavoli erano arancioni, il sole che entrava come a fiotti dalla finestra incorniciata di gerani esaltava il canto luminoso del colore, lo faceva esplodere negli occhi. La dama Azul, come era allora costume delle vecchie signore del Barrio aveva i capelli azzurri, e l'azzurro era l'altro colore della case, il colore che dominava nella stanza da letto freschissima in cui Dreiser Cazzaniga dormiva, leggeva e sognava. Dal soffitto pendeva una curiosa lampada che emanava una pallidissima luce azzurra che a Dreiser Cazzaniga faceva pensare alla morte. Non è che lui sapesse che cosa fosse la morte e che cosa avesse a che fare con quella fievole luce azzurra in cui ad osservala bene parevano predominare i toni verdi, un sottile verde cobalto, tuttavia le due immagini, la lucina e la morte era incatenate una all'altra. Molti anni dopo, la lucina azzurra avrebbe iluminato due grossi piedi pallidi e sporchi che spuntavano da una coperta troppo corta su di un letto troppo corto. Cosí sorgeva la morte agli occhi di Dreiser Cazzaniga, Gli oggetti della cucina immersi nela loro atmosfera di agrumi, invece, erano assolutamente immortali: erano immortali i piselli che egli aiutava a sgusciare traendol dal sacchetto di spessa carta marroncina, erano immortali gli stofinacci bianchi con l'impronta di qualche bruciatura, era immortale il macinino del caffe, era tutto di legno e quando si apriva il cassettino emanava un odore profondo che stordiva di piacere, era immortale il mortaio per fare il pesto di marmo grigio con le sue venuzze azzurre come i capelli della nonna Dama, era la grande radio di legno con le sue due pesanti porte di legno e tutte le colonnine che separavano gli altoparlanti, il vaso del basilico alla finestra la grattugia del parmigiano e quella ancora piú temibile del pecorino sardo che la nonna Dama Azul, la Violante benedetta ripuliva con infinita pazienza, con la lama di un colello per estrarne anche la piú piccola briciola di formaggio. Tutta questa meraviglia avvolgeva gli oggetti della cucina che sorgevano dal sempre, dall'evidenza, davanti a Dreiser Cazzaniga che li percepiva come meravigliosi proprio perché nel momente in ciu gli apparivano gli apparivano come rivelandosi sullo sfondo di una preeseistenza, un sempre che era l'evidenza stessa della loro permenenza. Dreiser Cazzaniga, bambino rabbrividiva di gratitudine per l'esistenza del mondo e per la sua indubitabile eternitá.
Fin dalla piú tenera infanzia Dreiser Cazzaniga ebbe una percezione chiara di quelo che fosse l'immortalitá. Lui l'immortalitá la percepiva nelle cose, negli oggetti piú semplici che andava scoprendo in casa della Nonna Violante detta la Dama Azul. La casa della Dama Azul aveva due colori bellissimi, l'arancione della cucina e l'azzurro della stanzza da letto. Tutti i mobili dela cucina erano dipinti di un arancione solare e le gambe delle sedie e dei tavoli erano arancioni, il sole che entrava come a fiotti dalla finestra incorniciata di gerani esaltava il canto luminoso del colore, lo faceva esplodere negli occhi. La dama Azul, come era allora costume delle vecchie signore del Barrio aveva i capelli azzurri, e l'azzurro era l'altro colore della case, il colore che dominava nella stanza da letto freschissima in cui Dreiser Cazzaniga dormiva, leggeva e sognava. Dal soffitto pendeva una curiosa lampada che emanava una pallidissima luce azzurra che a Dreiser Cazzaniga faceva pensare alla morte. Non è che lui sapesse che cosa fosse la morte e che cosa avesse a che fare con quella fievole luce azzurra in cui ad osservala bene parevano predominare i toni verdi, un sottile verde cobalto, tuttavia le due immagini, la lucina e la morte era incatenate una all'altra. Molti anni dopo, la lucina azzurra avrebbe iluminato due grossi piedi pallidi e sporchi che spuntavano da una coperta troppo corta su di un letto troppo corto. Cosí sorgeva la morte agli occhi di Dreiser Cazzaniga, Gli oggetti della cucina immersi nela loro atmosfera di agrumi, invece, erano assolutamente immortali: erano immortali i piselli che egli aiutava a sgusciare traendol dal sacchetto di spessa carta marroncina, erano immortali gli stofinacci bianchi con l'impronta di qualche bruciatura, era immortale il macinino del caffe, era tutto di legno e quando si apriva il cassettino emanava un odore profondo che stordiva di piacere, era immortale il mortaio per fare il pesto di marmo grigio con le sue venuzze azzurre come i capelli della nonna Dama, era la grande radio di legno con le sue due pesanti porte di legno e tutte le colonnine che separavano gli altoparlanti, il vaso del basilico alla finestra la grattugia del parmigiano e quella ancora piú temibile del pecorino sardo che la nonna Dama Azul, la Violante benedetta ripuliva con infinita pazienza, con la lama di un colello per estrarne anche la piú piccola briciola di formaggio. Tutta questa meraviglia avvolgeva gli oggetti della cucina che sorgevano dal sempre, dall'evidenza, davanti a Dreiser Cazzaniga che li percepiva come meravigliosi proprio perché nel momente in ciu gli apparivano gli apparivano come rivelandosi sullo sfondo di una preeseistenza, un sempre che era l'evidenza stessa della loro permenenza. Dreiser Cazzaniga, bambino rabbrividiva di gratitudine per l'esistenza del mondo e per la sua indubitabile eternitá.
L'eccentrico
L'eccentrico
Questa volta non avevo vie d'uscita
La cosa migliore era fare
Come tutti gli altri
La gente del villaggio non avrebbe capito
Nemmeno gli artisti della capitale,
D'altra parte, nessuno avrebbe capito
Lo sapevo bene.
Sarebbe stato beffardo, elegante,
Ma anche un tenero dono di speranza
Se non fossi stato sicuro che sarebbe passato inavvertito
Non restava piú nulla da esaminare,
Il tempo per la riflessione era trascorso.
Avevo stabilito il tempo e il luogo.
La veritá è che avevo già da qualche tempo
Deciso di cominciare ad invecchiare,
Per non dare troppo nell'occhio.
Qualche pelo bianco nella barba,
Passeggiare con il bastone, e tanti altri piccoli dettagli
Per rendere il tutto piú credibile.
Bastava già.
La decisione l'avevo presa. Sarei morto come tutti gli altri
Non avevo ancora deciso di che
Ma sarei morto, che diamine.
Proprio come mio nonne, il tempo dell'immortalitá
Non era ancora maturo, la societá non era pronta
Tutti erano tanto abiuati a morire
Tutti erano troppo abituati a morire,
Ci sarebbero volute generazioni per cambiare questa abitudine,
Questo costume tanto radicato
Se non fossi morto avrebbero
Finito per ammazzarmi
Sarei morto allora, da solo. Dovevo cercarmi un assasino
Su Facebucco o goggole.
O un'assasina che mi istillase goccia a goccia
Un veleno tiepido
Un estratto di anime marcite e peli madidi
Sarebbe stato un po' come fare l'amore.
Dovevo ricordarmi di controllare i trigliceridi
Chi rinuncerebbe a morire sano,
Senza cirrosi o colesterolo?
Prima di morire dovevo smettere di fumare
Fare lunghe passeggiate e rinunciare alla pancetta fritta
Sarei morto senza cancro perbacco
Ma sarei morto, Lo avevo deciso.
Non avevo altra scelta.
*
genseki
Questa volta non avevo vie d'uscita
La cosa migliore era fare
Come tutti gli altri
La gente del villaggio non avrebbe capito
Nemmeno gli artisti della capitale,
D'altra parte, nessuno avrebbe capito
Lo sapevo bene.
Sarebbe stato beffardo, elegante,
Ma anche un tenero dono di speranza
Se non fossi stato sicuro che sarebbe passato inavvertito
Non restava piú nulla da esaminare,
Il tempo per la riflessione era trascorso.
Avevo stabilito il tempo e il luogo.
La veritá è che avevo già da qualche tempo
Deciso di cominciare ad invecchiare,
Per non dare troppo nell'occhio.
Qualche pelo bianco nella barba,
Passeggiare con il bastone, e tanti altri piccoli dettagli
Per rendere il tutto piú credibile.
Bastava già.
La decisione l'avevo presa. Sarei morto come tutti gli altri
Non avevo ancora deciso di che
Ma sarei morto, che diamine.
Proprio come mio nonne, il tempo dell'immortalitá
Non era ancora maturo, la societá non era pronta
Tutti erano tanto abiuati a morire
Tutti erano troppo abituati a morire,
Ci sarebbero volute generazioni per cambiare questa abitudine,
Questo costume tanto radicato
Se non fossi morto avrebbero
Finito per ammazzarmi
Sarei morto allora, da solo. Dovevo cercarmi un assasino
Su Facebucco o goggole.
O un'assasina che mi istillase goccia a goccia
Un veleno tiepido
Un estratto di anime marcite e peli madidi
Sarebbe stato un po' come fare l'amore.
Dovevo ricordarmi di controllare i trigliceridi
Chi rinuncerebbe a morire sano,
Senza cirrosi o colesterolo?
Prima di morire dovevo smettere di fumare
Fare lunghe passeggiate e rinunciare alla pancetta fritta
Sarei morto senza cancro perbacco
Ma sarei morto, Lo avevo deciso.
Non avevo altra scelta.
*
genseki
Memorie di Dreiser Cazzaniga
La Gaviota di Solentiname
Gli amici di Dreiser Cazzaniga vivenano una doppia vita. Proprio tutti. Una era, appunto la loro vita. L'altra, meschina davvero, era quella che menavano nella scatola cranica di Dreiser Cazzaniga, sottomessi ai suoi bizzarri e cangianti paesaggi interiori. Condannati a lunghe e ripetitive conversazioni. A dire il vero questo destino Dreiser Cazzaniga non lo riservava solo agli amici, ma a parenti, amanti, nemici. Tutti condannati ad avere un doppio nella sua testa e a non poter saperlo.
Il piú condannato di tutti, comunque, era Dreiser Cazzaniga stesso. Egli non poteva, invero, godere, che so io, di una gita per le sierre autunnali che incoronavano dei loro fiammeggianti boschi e dei loro pascoli diamantini il barrio povero e infreddolito, senza dover convocare proprio a quella escursione uno dei suoi amici diletti. Si, certo uno dei tanti tenerissimi compagni che dovevano tradirlo, tutti o per l'abbraccio della Señora de las Aguas Verdes, o per un'avventura in compagnia di Jesús il Verde, una di quelle avventure che non hanno mai ritorno, o semplicemente pugnalarlo alle spalle con un pugnale intinto nel veleno, cosí, solo per vederlo contorcersi dal dolore.
Cosí Dreiser Cazzaniga peccatore cieco e meschinello abbandonato dalla Grazia era condannato a vivere qualsiasi esperienza estetica, amorosa, politica, o sportiva, soltando condividendola con questi doppi ignari. Erano i suoi prigionieri. Erano velieri in bottiglia. La sua mente era la bottiglia. Imprigionandoli, peró Dreiser Cazzaniga finiva per imprigionare soprattutto se stesso. Come vivere con una Dama Bunducchia nella testa che vi va sbavando tutto il parquet dell'anima con la sua bava di alcolista mentre voi le sputate addosso tutto il vostro furioso, inutile disprezo,? Come contemplare un dipinto di Paolo Veronese discutendone tutti i particolari con lo zio Cardinale, quasi catatonico e dallo sguardo a tratti misteriosamente indulgente, mentre gli si dimostrava con logica impeccabile quanto spregevole e straccione fosse il Profeta di Nazareth, per vederlo ridere soddisfatto, guardandosi le unghie pallide sulla veste rossissima macchiata di ragú? Era piú terribile essere la bottiglia che il veliero o il piccione che vi era restato imprigionato. Dreiser Cazzaniga viveva solo se poteva porre tra se e la vita la conversazione immaginale con un doppio. Uno strazio. Penitenza e preghiera avrebbero forse potuto salvarlo Ma questo non avvenne. La bottiglia si ruppe da sola. O meglio fu il doppio di una certa dolcissima bianca gabianella che semplicemente ruppe la bottiglia col piccolo becco crudele aduso a sventrare i piccioni e Dreiser Cazzaniga la vide volare via nel cielo immenso che era anche esso nella sua mente, intendendo cosí che la sua mente non era una bottiglia ma un universo. Rotta la bottiglia tutti furono liberi, felloni e leali, vivi e morti, tutti i doppi ritrovarono la loro libertá e Dreiser Cazzaniga ritrovó il silenzio, la Rosa Blanca, il perdono e respiró finalmente la bellezza del mondo e dell'essere mortali. Dolce Gabbianella. Forse ella fu, o meglio il suo doppio fu, un inconsapevole strumento della Vergine Pastora. Dreiser Cazzaniga amó la di lei libera rotta, la carena, la vena e il palpito per tutta la sua pigra vecchiezza.
Gli amici di Dreiser Cazzaniga vivenano una doppia vita. Proprio tutti. Una era, appunto la loro vita. L'altra, meschina davvero, era quella che menavano nella scatola cranica di Dreiser Cazzaniga, sottomessi ai suoi bizzarri e cangianti paesaggi interiori. Condannati a lunghe e ripetitive conversazioni. A dire il vero questo destino Dreiser Cazzaniga non lo riservava solo agli amici, ma a parenti, amanti, nemici. Tutti condannati ad avere un doppio nella sua testa e a non poter saperlo.
Il piú condannato di tutti, comunque, era Dreiser Cazzaniga stesso. Egli non poteva, invero, godere, che so io, di una gita per le sierre autunnali che incoronavano dei loro fiammeggianti boschi e dei loro pascoli diamantini il barrio povero e infreddolito, senza dover convocare proprio a quella escursione uno dei suoi amici diletti. Si, certo uno dei tanti tenerissimi compagni che dovevano tradirlo, tutti o per l'abbraccio della Señora de las Aguas Verdes, o per un'avventura in compagnia di Jesús il Verde, una di quelle avventure che non hanno mai ritorno, o semplicemente pugnalarlo alle spalle con un pugnale intinto nel veleno, cosí, solo per vederlo contorcersi dal dolore.
Cosí Dreiser Cazzaniga peccatore cieco e meschinello abbandonato dalla Grazia era condannato a vivere qualsiasi esperienza estetica, amorosa, politica, o sportiva, soltando condividendola con questi doppi ignari. Erano i suoi prigionieri. Erano velieri in bottiglia. La sua mente era la bottiglia. Imprigionandoli, peró Dreiser Cazzaniga finiva per imprigionare soprattutto se stesso. Come vivere con una Dama Bunducchia nella testa che vi va sbavando tutto il parquet dell'anima con la sua bava di alcolista mentre voi le sputate addosso tutto il vostro furioso, inutile disprezo,? Come contemplare un dipinto di Paolo Veronese discutendone tutti i particolari con lo zio Cardinale, quasi catatonico e dallo sguardo a tratti misteriosamente indulgente, mentre gli si dimostrava con logica impeccabile quanto spregevole e straccione fosse il Profeta di Nazareth, per vederlo ridere soddisfatto, guardandosi le unghie pallide sulla veste rossissima macchiata di ragú? Era piú terribile essere la bottiglia che il veliero o il piccione che vi era restato imprigionato. Dreiser Cazzaniga viveva solo se poteva porre tra se e la vita la conversazione immaginale con un doppio. Uno strazio. Penitenza e preghiera avrebbero forse potuto salvarlo Ma questo non avvenne. La bottiglia si ruppe da sola. O meglio fu il doppio di una certa dolcissima bianca gabianella che semplicemente ruppe la bottiglia col piccolo becco crudele aduso a sventrare i piccioni e Dreiser Cazzaniga la vide volare via nel cielo immenso che era anche esso nella sua mente, intendendo cosí che la sua mente non era una bottiglia ma un universo. Rotta la bottiglia tutti furono liberi, felloni e leali, vivi e morti, tutti i doppi ritrovarono la loro libertá e Dreiser Cazzaniga ritrovó il silenzio, la Rosa Blanca, il perdono e respiró finalmente la bellezza del mondo e dell'essere mortali. Dolce Gabbianella. Forse ella fu, o meglio il suo doppio fu, un inconsapevole strumento della Vergine Pastora. Dreiser Cazzaniga amó la di lei libera rotta, la carena, la vena e il palpito per tutta la sua pigra vecchiezza.
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