mercoledì, gennaio 27, 2010
Eduard Bagrickij (1895-1934)
L'ultima notte
Il fagiano esplose come un fuoco d'artificio
I pallini strapparono gli aghi dalle foglie.
L'uccello piomb'cometa di penne,
In uno scompiglio di albe primaverili.
L'Arciduca tornó a casa.
Si spoglió. Bevve del vino.
Il setter morbido gli si stese
Ai piedi, come una sfinge.
La pistola con cui fu ucciso
(Non ne ricordo il tipo)
Giaceva ancora dall'armaiolo
Fra una canna da pesca e un coltello.
Il futuro assasino sonnecchiava,
La testa reclinata
Sul duro pugno giovinetto
Coperto di bruno pelo.
A Odessa i castagni si vestivano di fumo
E quando scendeva la sera, il mare,
Ansando, si volgeva sul suo asse,
Simile a una ruota.
La mia finestra dava nel giardino
E nel crepuscolo, tra il fogliame,
Becchi di gas s'alzavano turchini
Sopra le insegne delle birrerie.
E su questa luce effevervescente
Rumoreggiando con un milione d'ali
Volavano gli stornelli a sfracellarsi
Contro i vtri e contro i cavi.
Primavera gl spingeva dalle rocce nere
Con la sferza ei venti di mare.
Uscii...
Dietro la porta mi si chiuse...
E la notte circondandomi
D'un moto d'ali, fiori e stelle,
Sorse in tutti gli angoli.
Oltrepasai le piccole case ebree.
Udivo il terribile ronfiare
Dei carrettieri stesi nei carri,
E nelle finestre si vedeva
Il sabato in parrrucca porporina
Che andava reggendo una candela.
Oltrepassai le piccole case ebree
Uscii al brillio delle rotaie
Al deposito tranviario si struggeva
Il lampione, circondato dalla grande primavera.
Avevo solo diciassette anni
E per questo certo la notte
Turbinava e respirava in me
E mi camminnava accanto.
Ero il suo specchio, il suo sosia,
Ero un secondo universo
I pianeti mi penetravano
Da parte a parte, come un bichier d'acqua,
E mi pareva che una luce leggera
Stillasse dai pori simile a sudore.
Oltrepassai il deposito tranviaruo
Dietro, imponderabile come il fumo
La via asfaltata, turbinando, volava
Ad occidente verso le onde del mare.
E d'un tratto udii un suono prolungato:
Sul mondo volava una tromba,
Languendo di passione. E io dissi
"Ecco le prime gru!"
Sulla polvere, sulla mia giovinezza
Passava echeggiando quella tromba,
E le stelle si gettavano da parte,
Con un palpito all'urto delle larghe ali.
...
trad. V. Strada
martedì, gennaio 26, 2010
Assente
Quando ti abbraccio stringo la tua assenza
Come tra i denti si asciuga lunga fame
Quando gli abeti si sfasciano a sciami
Mentre mi sfuggi respiro il tuo tepore
Viva presenza del tuo corpo in viaggio
Nelle contrade di granito e ghiaccio
Dove l'alloro è un sogno di metallo
E si stinge tra gli urti delle piume
La catastrofe oscura delle ciglia
Ti stringo assente come fossi pane
Per saziare la fame dei torrenti
Dorso d'anguilla lucida ti sciolgo
Perche mi sfugga all'orlo della bocca
Tutta la fresca estraneitá di un corpo
Che guizza e slitta dal mio deisderio.
genseki
lunedì, gennaio 25, 2010
Oltre
In cui l'animale alla soglia di se stesso
Sgorgava infine nel suo atto, nella negazione
Come sgorga il guanto dalle tua mano
E assume la casualitá della sua forma
Custodia del balenare tagliente
Delle tue unghie vere:
Il gatto dal nespolo transitava nel balzo
Per ricadere poi oltre se stesso
Con un cuore sanguinante e brandelli
Tra le fauci di un altro,
Mentre le tue unghie fredde
Azzurre ghigliottine delle pupille
Sorgevano incontro alla luna di settembre.
genseki
domenica, gennaio 24, 2010
La Bandiera Rossa
Nelle gallerie piú profonde del mio cuore ritroveró sempre l'andirivieni di quele innumerevoli lngue di fuoco alcune delle quali s attardavano a lambire uno stupendo fiore carbonizzato. Le nuove generazioni stentano a raffigurarsi uno spettacolo come quello di allora. In seno al proletariato non si erano ancora manifestati i dissidi di ogni tipo che hanno finito per lacerarlo.
Certo attorno alle bandiere nere le devastazioni fisiche erano piú sensibili, ma la passione aveva veramente traforato certi occhi lasciandovi dei punti indimenticabili di incandescenza, ra come se la fiamma fosse passata su tutti quegli uomini bruciandoli un po' di piú o un po' di meno...
André Breton
Da. "Arcano 17"
Antonio Porta
Lettera a Nina Lorenzini
21.12.1977
sabato, gennaio 23, 2010
Era un aprirsi
Di grandi foglie al fendere la ghiglia
L'impassibile palude della stanchezza
Soltanto un movimento di ventaglio
Negava il tempo e ne faceva perle
Una o due perle per ciascuna coppa
Da adesso a poi quindi da poi a prima
Era qualcosa come un dispiegarsi
Frullare forse schioccare da calice a calice
Dove il rumore si fondeva in luce
Liquida nelle bolle momentanee
Sfilare il tempo dalla guaina del desiderio
Era soltanto schiudersi di petali
Neri come campane di Bretagna
Quando il temporale gettava gli anni e i mesi
A manciate come stracci consunti
Sulle scogliere dove finiva il mondo
In un ansito asmatico di sputi.
genseki
Un circolo di circoli
Enciclopedia delle scienze filosofiche
Introduzione
Paragrafo 15
trad. B. Croce
venerdì, gennaio 22, 2010
Giocavamo alla luna
Giocavamo alla luna sulla lama delle colline
La luna che non c'era già piú la luna era nera
Scorreva la luna sulla tua schiena come scorre la luce
La luna al palmo della mia mano non osavi succhiarla
Eppure fu proprio la luna che ti accese lo sguardo
Quando ardeva la malaria come altre costellazioni
E ti consumava il mio fuoco come una perla
Sbucata da un vecchio guanto nell'armadio di nonna
Fino a rotolare tra i riccioli di formaggio
Le capriole delle scintille nel vecchio camino di Ippolito
Il paiolo della polenta che un poeta dialettale
Avrebbe invocato come la luna che si disfa nel feltro
Che tarme e falene sfarinano luna di febbraio
Luna spenta come paraffina con l'impronta
Dei nostri pollici unti.
genseki
giovedì, gennaio 21, 2010
Neve
Dalle orme dai voli spezzati nervature semi
Prima che tutte le ali fossero pietre
Lassú dove infine capovolto
Il cielo lasciava cadere i suoi corvi
Nel pozzo di strati infiniti del grigio
Corvi come stracci sbattuti qua e lá dal loro grido
Dal gracchiare che invano si sforzava
Di aprirsi in un segno rosso inesploso
O almeno di spezzarsi dolorosamente
In un cielo dai riflessi di cobalto
Il cobalto dell'avvento no! Il rosso
Non sgocciolava dalle colonne scistose
Che sorreggevano le volte vertiginosamente immobili
Dei grigi sovrapposti e la pioggia ancora non cadeva
A unire con i suoi fili i colori al loro significato
No! Non c'erano colori. C'era neve
Non c'erano significati negli schiocchi nelle orme
Dei passeri nelle righe delle ghiande come note
Sul pentagramma della radura
Un rintocco di rame sarebbe stato gelo
A rendere allora tutto piú giallo
Come occhio nell'uovo come uovo sognando
L'occhio pupilla di tuorlo
Le campane invece cigolarono grige
Come il bronzo nere come le aste dei campanili
Mentre il bianco pallido del sole
Soffiava sulla neve il suo alito di forfora
Sollevando in turbine spettrale
Frammenti di ali di farfalle screpolate dal gelo
Piume di albatros scacciate dalle antiche poesie
Caratteri dell'Olivetti lettera 32
Polvere di pneumatici fiori secchi d'ontano
Che furono dita delicatamente rose dal primo gelo
Di novembre
La neve fu il lenzuolo della scrittura
Il sudario del significato
La criniera gloriosa della terra
Ogni orma ogni traccia fu prova d'amore
genseki
mercoledì, gennaio 20, 2010
Jacmel
Viveva in una città
Che era una leggenda
Sulle coste del Mar dei Caraibi.
Chi lo voleva poteva
Trasformarsi in qualsiasi cosa
Un albero, per esempio,
Che cammina e beve del Rum,
Oppure un bue che suona l’organo
In chiesa alla domenica,
Un leone che fa becchi
Tutti i notai della città.
Lui, una sera della sua adolescenza,
Divenne un cavallo da corsa
Lo videro attraversare al galoppo Jacmel
Nitriva e invitava la gente
A venire a correre con lui nella strada.
Le porte e le finestre, però, restavano ben chiuse.
Poi, all’improvviso una ragazza è corsa fuori
Da una casa di Piazza d’Armi:
Era una delle più belle della città.
In camicia da notte
e sorrideva all’equadolescente
Quando egli venne accanto a lei
La ragazza si tolse la camicia
E balzò sullla sua schiena: lui prese a galoppare
Andò al galoppo senza fine nella notte
Facendo molte volte il giro di Jacmel.
Sentiva Adriana tutta nuda sulla sua schiena
Come il cielo notturno profuma di stoffa
Come la terra profuma dell’erba del mattino
Fiutava il suo sapore di ragazza.
Al galoppo, al galoppo nella notte
Sulla schiena l’astro di Jacmel
Sulla schiena tutta la gioia
Tutto il dolore di quella città.
E la paura e l’odio
sulla schiena
Al galoppo al galoppo nella notte
Coi baci
E tutti i sogni di Jacmel sulla schiena.
Al mattino andarono al mare
Dove si rinfrescarono a lungo,
Poi fu la volta del fiume
Per lavarsi il corpo dal sale.
Più tardi la fece scendere davanti a casa
Sotto gli alberi sbalorditi della piazza.
Quando riprese la sua forma di ragazzo
Aveva i fianchi coperti di sangue,
Delle fitte atroci alla spalle,
E tanto male al cuoio capelluto,
Restò a letto per due settimane
A guardare la sua adolescenza fuggire
Con la più bella ragazza della sua vita.
René Depestre
trad. genseki
Ateliers di Poesia
di Ernesto Cardenal
*
*
*
Io stesso scrissi alcune regole per coloro che partecipavano agli ateliers:
1. Non cercare d scrivere con ritmi regolari o con rime;
2. Preferisci le parole piú concrete alle piú astratte;
3. Inserire nomi propri di persone e di luoghi
4. Preferire le immagini che penetrano attraverso i sensi;
5. Usare il linguaggio parlato e non quello lettario;
6. Abbreviare al massimo.
Ernesto Cardenal
La parola
1942
Il Novecento apparirá in avvenire come una specie di incubo verbale, di cacofonia delirante. Epoca in cui le parole si logoravano piú rapidamente che in qualsiasi altro secolo della storia, epoca della grande protituzione della parola, di quella parola che avrebbe dovuto essere la misura del vero.
domenica, gennaio 10, 2010
Coltelli
Ciascuno parlava soltanto con il suo coltello
Ciascuno parlava con un solo coltello
Barba Germano ne aveva uno frabosano
Zita la maremmana si masturbava
Con un coltello di pattada
Entrambi cavalcavano i loro coltelli
Come fossero cavalli con un coltello
Tra i denti
Non c'erano fratelli, solo coltelli
Michelaccio manteneva sei coltelli
Mangiavano con i coltelli
Dormivano sul filo del coltello
Si rasavano a punto a coltello
L'amore lo facevano a coltellate
Le loro biciclette erano coltelli
A coltellate fendevano le curve
I raggi delle ruote erano coltelli
Che accoltelavano la luce delle strade
Pedalavano con piedi a coltello
Spingendo sui coltelli dei pedali
Ci lanciavano occhiatacce da coltello
Ma Io e Rosaria continuavamo
A spezzare il nostro pane con le dita
E a mangiarlo inzuppato nel latte
Poi ci rendemmo conto che non avremmo
Più potuto continuare a vivere nella Valle
Che il fiume divideva come un coltello
Il clima si faceva troppo teso, tagliente, da coltello
Lasciammo il Borgo allora
Con le nostre quattro cose nello zaino
Al crepuscolo partimmo
Poco prima che cominciasse a grandinare a coltelli
genseki