lunedì, giugno 22, 2009

Nichita Stanescu

Il poeta all'etá di trent'anni


Nichita Stanescu

Nona Elegia
Quella dell'uovo

In uovo nero mi lascio scaldare
Nell'attesa del volo che mi infesta
Congiunte stanno una all'altra
Identitá con identitá.
Sentimento di ali sulle spalle,
La sensazione di un occhio
Va alla ricerca di un'orbita.
Oh, Tu! Immensa oscuritá
Nascita interrotta nel disgusto.
Su di me è discesa un'idea
Che materna mi cova.
Adesso, tutto ció che è
È calor rotondo e odo:
Esce da me una specie di becco
Simultaneamente e ovunque
Si rifiuta di essere obelisco
Intima colonna vertebrale ricurva
Rompo il mio guscio di pelle calcinata,
Che aderisce direttamente all'anima
Perché non faccia marcia indietro
Imparando a camminare.
Salta il guscio nero, olé!
Mi ritrovo piú grand e senza aver volato
Aderente a quel verso dove
Come l'abbraccio di una volta.
Indosso occhi dallo sguardo irreale
A destra, a sinistra, sopra e sotto,
Prtorendo stirpi di figli animali
Che sanno morire di una bella morte
Mi crescono iridate piume d'osso
Fino al negro cóncavo.
Saltano i gusci neri, tuti insieme,
Eccomi qua, ancora una volta, dolce,
Rinchiuso in un uovo piú grande
Covato da u'idea maggiore di molto
Mezo tuorlo, mezz'uccello
Nel gioco dei passi rubati
Grande uovo, sillaba stentorea
In crescita perpetua colta
Senza tetto
Stalattite
Sedotta.
Uova concentriche, nere, rotte
Una per una e in parte.
Pulcino rifiutato dal volo
Che penetra un uovo dopo l'altro
Fino ad Alcor dal cuore della terra
In un ritmico eco che si espande.
L'identitá vuole sfuggire all'identitá,
L'occhio dall'occhio, e sempre
In se stesso ricade pesante
Come neve nera.
Da un dentro a un altro maggior dentro
Nasci all'infinito, ala senza voli,
Solo dal sonno
Ci si puó risvegliare
Nessuno si sveglia dal guscio dell'esistenza, nessuno,
mai.

Trad. genseki

domenica, giugno 21, 2009

Montaignismi

Non sono capace di tradurre Montaigne. Come riprodurre questa lingua tanto flessibile da aderire alle piú sottili sfumature del pensiero? Lingua volgare che sembra scritta da qualcuno che pensi in latino e che voglia presentarsi con una semplicitá bonaria a volte quasi popolare.

La lingua di Montaigne ha una patina arcaica che sospetto fosse giá arcaica nel momento in cui egli scriveva ma che acquisisce una bellezza ancora piú rara oggi che si sviluppa sullo sfondo di quella perfetta struttura cristallina che è il francese classico.

Tradurre quesa meraviglia nel povero, stentato italiano che mi appartiene sarebbe uno stupro.

Se fossi capace di mimare la scrittura di un classico, e non lo sono, nemmeno saprei che pesci pigliare tra le eleganze della prosa umanistica e i riboboli toscani della coeva lettaratura italiana.

Così non lo traduco, lo contemplo in tutta la sua bellezza:


Montaigne e lo Zen


Quand je dance, je dance, quand je dors, je dors. Voire, et quand je me promène solitarement en un beau verger, si mes pensées se sont entretenues des occurences étrangères quelque partie de temps, quelque autre partie je les rameine à la promenade, au verger, à la douceur de cette solitude....

Essais

Livre III XIII De l'Expérience



venerdì, giugno 19, 2009

St. James Infirmary - Eric Clapton, Dr. John

JACK TEAGARDEN St. James Infirmary

Louis Armstrong - St. James Infirmary

Sono sceso all'ospedale di San Giacomo
A cercare la mia bambina
Lei giaceva su un lungo tavolo bianco
Era dolce tranquilla e ordinata

Sono salito a parlare col dottore:
“È proprio giú” mi ha detto
Son tornato dalla mia bambina
Mio dio Mio dio, era morta

Sono entrato nel bar di Gianni
All'angolo della strada
Mi ha servito come sempre
C'era sempre la stessa gente

Alla mia sinistra stava il vecchio Gianni
I suoi occhi come inondati di sangue
Fissavano tutta quella gente
Queste furono le parole che disse:

Lascia ora che vada in pace,
Signore con la tua benedizione
Se andasse fino alla fine del mondo
Non troverebbe un uomo migliore di me.

Quando morró vi prego seppellitemi
Con il mio Stetson da dieci dollari
Mettete un moneta da venti all'orologio
Gli amici sapranno che non son morto di fame

Sei buoni cavalli voglio per la mia bara
Sei ragazze per cantarmi una canzone
Una banda di jazz mi accompagni
Fino alla porta dell'inferno

Qui finisce anche la mia storia
Presto qualcuno paghi un altro giro
A chi lo voglia sapere rispondo:
Questo è il blues dell'Ospedale di san Giacomo.

Trad genseki

giovedì, giugno 18, 2009


Maurice Scéve

Dalla Délie

Traduzioni di genseki dedicate a Maresa.

In libertá vivevo nel mio aprile
Senza preoccupazioni, adolescente,
dagli occhi ignari del danno incombente
Pronti a stupirsi per la dolce presenza
Che con l'alta, divina sua eccellenza
Abbaglió l'alma ed i sensi talmente
Che dei suoi occhi l'arcier, semplicemente,
La mia volontá tutta ha asservita
E da quel dì, oramai continuamente
In sua beltá giacciono morte e vita.


Quellla beltá che abbelliva il mondo
Quand'Ella nacque in cui morendo vivo
Impresse al centro di un bagliore rotondo
Non solamente il suo viso ben vivo
Ma tanto ha lo spirto mio rapito
Nell'ammirare mirabil meraviglia
Che, come dea, quasi morto mi svegli
Alla chiarezza della mia brama funebre
In cui piú mi da luce, o meraviglia!
Piú mi lascia affondare nelle tenebre.

mercoledì, giugno 17, 2009

Se vuoi leggere ancora

Amico, ora basta!
Se vuoi leggere ancora
Fatti tu stesso scrittura
Divieni la tua essenza.

Angelus Silesius.


*
Trad. genseki



martedì, giugno 16, 2009

Servo padrone

Quello che segue è uno dei testi piú profondi e violenti sulla relazione servo padrone e sulla monarchia. Da un certo punto di vista lo si puó considerare come l'involuzione assoluta di un pensiero smarrito tra intuizioni e paura. Il servo si fa uguale al padrone in quanto decide di accettare di essere servo, cioé si riconosce come tale riconoscendosi come servo è lui che riconosce il padrone come tale, che gli conferisce ealtá e che lo conferma. Questa forma della dialettica di Simone Weil ricorda i quadri di Esher. Vi è un errore prospettico, qualche cosa di imposibile che si afferma peró come evidenza. Qui l'errore prospettico si situa tra i termini astratti della dialettica le cui funzioni si confondono leggermente ai margini, si fanno poco nette in modo percettibile e ci danno questa visione fiabesca, arcaica e in fondo oscena;

"Una condizione dlla subordinazione simile a quella che T.E. LAWRENCE trovó in Arabia nel 1917, a quella che , proveniente fose dai mori, ha impregnato per secoli la vita spagnola. Questa condizione che rende il servo simila al padrone, grazie a una fedeltá volontaria e gli pemette di inginocchiarsi, di obedire, di sopportare le punizioni senza nulla perdere della propria fierezza, appare nel "Poema del Cid" come pure nel teatro spagnole del secolo XVI e XVII, essa cinse la monarchia, in Spagna, di una poesia che non ebbe mai l'equivalente in Francia, estesa anche alla subordinazione imposta con la violenza, esa nobilitó perfino la schiavitú e permise agli spagnoli catturati e venduti come schiavi in Africa del Nord, di baciare le mani dei loro padroni senza abbassarsi, per dovere e non per viltá.

Simone We
I Catari e la Civiltá Mediterranea

lunedì, giugno 15, 2009

Il sermone delle cose inanimate

Che meraviglia che meraviglia!
L'insegnamento del mondo inanimato
Se cerchi di ascoltarlo con le orecchie
Non hai speranza di comprnderlo
Lo puoi comprendere soltanto
Se lo ascolti con gli occhi.

Tong-Chan

Trad. genseki


domenica, giugno 14, 2009

Non so davvero chi puó aver scritto

Non so davvero chi puó avere scritto questa frase:

"La bellezza femminile è la radice del piacere tanto per l¡uomo come per la donna e non puó essere un caso se la dea dell'amore è piú forte e piú antica che il dio. Desiderare che la propria bellezza sia desiderata è la vanitá di Lilith, ma desiderare il godimento della propria bellezza è l'obbedienza di Eva. In tutti e due i casi l'amante desidera che l'amata gusti il suo proprio diletto".

L'ho trovata in mezzo a vecchi appunti incompleti e senza data.

gensek

Cuor di carciofo

Cuor di carciofo, frana senza margini
Dove si spegne la luce dei carrubi
La carne è prescindibile se il sole
Non si stanca di tessere tesori:
Scarabei, cetonie, altri diamanti,
Scintille che negano il corpo
Lo diffondono in schiuma di clorofilla
A inondar l'ariditá dell'argilla.

genseki

venerdì, giugno 12, 2009

Come datteri

Infine tramontavi anche tu
Come il bagliore delle unghie
In un gesto distratto
Nello sbadiglio di lavanda degli armadi
Tra le coltri di fieno e di cotone
Piú non avremo sognato di ciliege
Di dentifricio e cubetti di ghiaccio
Che i topolini dell'incomprensione
Venivano a rosicchiare di notte
Come fosse formaggio
Infine tramontavi anche tu
Come i collletti inamidati e i cicli
Di letture popolari
Tramontavi dietro la barriera
dei barattoli di conserve e le lattine di crema di cocco
Le staccionate degli asparagi si facevano allora
Ancora piú scure, scrutavamo il destino
Oltre gli steli per l'ulima volta
Con dita secche, noi due,
Come datteri
E lingue smemorate.

Gaspard de la Nuit

La maschera: è notte, prendiamo le lanterne!
Mercurio: Bah! i gatti non han che gli occhi per lanterna

Il Lanternone

Una notte di carnevale


Ma perché diavolo, stanotte dovevo andare a pensare che c'era abbastanza posto per accoccolarmi, protetto dal temporale, per me, folletto di grondaia, nella Lanterna di Madame de Gourgouran!

Me la ridevo di cuore ascoltando uno spiritello, fradicio dell'acquazzone che ronzava attorno alla rimia lampada luminosa senza riuscire a trovare la porta da dove io ero entrato.

In vano mi supplicava, raffredato e rauco, di lasciare almeno che accendesse il suo moccolo per trovare la strada.

Di botto, s'incendió la pergamena gilla della lanterna, strappata da un colpo di vento che fece gemere, nella strada, le insegne a penzoloni come bandiere.

- Gesú, misericordia!- Esclamó la begina, facendosi il segno della croce. - Che il diavolo ti possa straziare, brutta strega! - Esclamai, sputando piú fiamme io di un fuoco artificiale.

Ohimé! Ero cosí grazioso questa mattina rivaleggiando con la mia acconciatura in grazia ed eleganza, con il cardellino dalle alucce scarlatte del signorino De Luynes!

Aloysius Bertrand
trad. genseki

giovedì, giugno 11, 2009

Caracoles III

Dagli occhi mi parlavi

Dagli occhi mi parlavi come fossi vicina
Perduta tra capelli fili di fiato petali
Il cenno era un supplizio tra caduta
E timore, ceree le dita avvolte in poca luce
Dipanavi dagli occhi un filo di sospiri
Come un gatto tossivi palpiti di fringuello
Sfinimento di tendini e pupille, sopore
Crescente fino all'esplosione
Rossastra del sonno e delle onde
Lontana dipanata, sviluppata in sequenze di voli
Finalmente intrapresa inafferrata
Nella veritá dell' asssenza
libero io dai ceppi del tuo sguardo.

genseki