martedì, dicembre 30, 2008
lunedì, dicembre 29, 2008
Etienne de la Boétie
Sonetto
Lasso per quanti giorni, lasso per quante notti
Vissi lungi del loco ove il cor mio dimora
Venti giorni costretto in oscura dimora
Un secolo mi parve di sofferenze a fiotti.
Solo porto la colpa o cattivo, infelice
Del sospirare invano, di ció che m'addolora:
Perché mal consigliato ho lasciato in mal'ora
Colei che in nessun luogo mai lasciare mi lice.
Ho vergoga che omai la pelle scolorata
Veggasi pel dolore di rughe come arata:
Ho vergogna che infine l' inumano dolore
Tinga il capo anzitempo con il bianco colore
Ancora son minore pel computo degli anni
Eppur sono giá vecchio per quello degli affanni.
trad. genseki
Lasso per quanti giorni, lasso per quante notti
Vissi lungi del loco ove il cor mio dimora
Venti giorni costretto in oscura dimora
Un secolo mi parve di sofferenze a fiotti.
Solo porto la colpa o cattivo, infelice
Del sospirare invano, di ció che m'addolora:
Perché mal consigliato ho lasciato in mal'ora
Colei che in nessun luogo mai lasciare mi lice.
Ho vergoga che omai la pelle scolorata
Veggasi pel dolore di rughe come arata:
Ho vergogna che infine l' inumano dolore
Tinga il capo anzitempo con il bianco colore
Ancora son minore pel computo degli anni
Eppur sono giá vecchio per quello degli affanni.
trad. genseki
martedì, dicembre 23, 2008
Bordiga
A Janitzio la morte non fa paura
«In Messico, nel lago Patzcuaro, si trova la piccola isola di Janitzio. A 2.350 metri d'altezza, un paesaggio stupendo si spalanca davanti ai visitatori: acque tranquille, montagne dai fianchi tormentati, un cielo così vicino che sembra di poterlo toccare col dito. Discendenti da una razza fiera, gli indiani Tarascani combatterono contro gli Spagnoli «conquistadores». Furono vinti e adottarono la religione cristiana degli invasori; ma i santi che essi venerano hanno conservato i caratteri delle antiche divanità. Il Sole, l'Acqua, il Fuoco e la Luna. I Tarascani sono abili nel lavorare il cuoio, nello scolpire il legno, nel lavorare l'argilla e nel tessere la lana. Sono anche abilissimi pescatori. Quando ritirano le loro reti dalla strana foggia, somiglianti a grosse farfalle, sono sempre ricche di pesce. Ma anche se industriosi, i Tarascani sono ancora molto primitivi. Essi considerano infatti la vita come uno stato transitorio, un breve momento che bisogna passare per giungere alla beatitudine della morte. La morte non rappresenta più un'inesorabile fatalità; al contrario essa è considerata un bene, l'unico veramente inestimabile. Ecco perché «il giorno dei morti» non è, per gli abitanti di Janitzio, un giorno di dolore. La festa inizia di buon mattino. Le case vengono decorate a festa e tutte le immagini dei santi si arricchiscono di pizzi e fiori di carta. I ritratti dei defunti vengono esposti e illuminati da decine di ceri. Le donne preparano i piatti favoriti dai parenti defunti poiché essi, tornando a visitare i vivi, vi traggano consolazione.Nel cimitero, dietro la chiesa, si decorano anche le tombe che molto spesso non hanno nome. Non vi sono iscrizioni funebri a Janitzio! Ma non per questo si dimenticano i morti. La via che conduce dal cimitero al villaggio viene cosparsa di petali di fiori, affinché i defunti possano agevolmente trovare la strada di casa.Nel «giorno dei morti» le donne di Janitzio si fanno belle. Pettinano le lunghe trecce scure e si adornano di gioielli d'argento. Il costume si compone di una lunga sottana rossa bordata di nero a larghe pieghe. La camicetta ricamata scompare sotto il «rebozo» che ricopre la testa e le spalle e dal quale, spesso, spunta la testina dell'ultimo nato. A mezzanotte le donne vanno tutte insieme nel camposanto e si inginocchiano a pregare per i loro cari defunti. Accendono i ceri, i più grandi dedicati agli adulti e i più piccoli per coloro che se ne sono andati troppo presto da «questa valle di lacrime». Poi si abbandonano alla meditazione che, a poco a poco, si traduce in parole. Inizia così uno litania che non è di dolore, ma che esprime la comunione esistente tra i vivi e i morti.Intanto gli uomini rimasti al villaggio si riuniscono a bere vicino alla chiesa dove è stato elevato un catafalco nero dedicato ai morti che non hanno più nessuno che preghi per loro. Ritorneranno a casa verso l'alba, mentre le loro donne, che hanno vegliato tutta la notte al cimitero, vanno a sentire la messa seminascoste nel «rebozo». Trascorre così a Janitzio «la giornata dei morti». Sui volti degli abitanti del villaggio non si legge dolore, ma la festosa aspettativa di chi attende la visita delle persone più care».
Abbiamo ripresa tal quale e col suo titolo questa notiziola da un giornale italiano per i ragazzi. È una delle tante rifritture di materiale americano di «cultura» che passano di giornale in giornale e di rivista in rivista senza che pennaioli di servizio si accorgano di altro che del grado di effetto del pezzo che circola. Il ricopiatore ennesimo non si è nemmeno sognato il significato profondo che la sua diffusione nasconde, sia pur nella forma convenzionalmente conformista.
Le nobilissime popolazioni messicane, diventate cattoliche sotto il terrore spietato degli invasori spagnoli, mostrerebbero, col non avere terrore ed orrore della morte, di essere rimaste «primitive».
Erano, invece, quei popoli, eredi di una civiltà incompresa ai cristiani di allora e di oggi, e trasmessa dal comunismo antichissimo. L'insulso individualismo moderno non può che stupire beota se, pur nel testo scolorito, si legge di tombe senza iscrizione e di cibi che si apprestano ai morti che nessuno commemora. Veri «morti ignoti», non per retorica bolsa e demagogica, ma per possente semplicità di una vita che è della specie e per la specie, eterna come natura e non come sciocco sciame di anime vaganti negli extra-mondi, per la quale, e per il suo sviluppo, valgono le esperienze dei morti, dei vivi e dei non nati, in una serie storica il cui avvicendarsi non è lutto, ma gioia di tutti i momenti del ciclo materiale.
Anche nel simbolo, quei costumi sono più alti di quelli nostrani, ad esempio in quelle donne che si fanno belle per i morti e non per il più danaroso dei vivi, come nella società mercantile, fogna in cui noi siamo immersi.
Se sotto le spoglie degli squallidi santi cattolici vive ancora la forma antichissima delle divinità non inumane, come il Sole, ciò ricorda le notizie - quanto giunte a noi travisate! - della civiltà Incas, che Marx ammirava. Non erano primitivi e feroci tanto da immolare i più begli esemplari della specie giovane al Sole che chiedeva sangue umano, ma splendide di un intuito possente, quelle comunità che riconoscevano il fluire della vita nella energia, che è la stessa quando il Sole la irradia sul pianeta e quando fluisce nelle arterie dell'uomo vivo e diventa unità ed amore nella specie una, che fino a quando non cade nella superstizione dell'anima personale col suo bilancio bigotto di dare ed avere, soprastruttura della venalità monetaria, non teme la morte e non ignora che la morte della persona può essere inno di gioia, e contributo fecondo alla vita dell'umanità.
Nel comunismo naturale e primigenio, anche se l'umanità è sentita nel limite dell'orda, il singolo non ha scopi che consistano nel sottrarre bene al fratello ma è pronto ad immolarsi per il sopravvivere della grande fratria senza alcuna paura. Sciocca leggenda vede in questa forma il terrore del dio che si plachi col sangue.
Nella forma dello scambio, della moneta, e delle classi, il senso della perennità della specie sparisce, e sorge quello ignobile della perennità del peculio, tradotta nella immortalità dell'anima che contratta la sua felicita fuori natura con un dio strozzino che tiene questa banca e pesa. In queste società che pretendono di essere salite da barbarie a civiltà si teme la morte personale e ci si prostra alle mummie, fino ai mausolei di Mosca, dalla storia infame.
Nel comunismo, che non si e avuto ancora, ma che resta certezza di scienza, si riconquista la identità del singolo e della sua sorte con quella della specie, distrutta entro essa tutti i limiti di famiglia, razza e nazione. Con questa vittoria finisce ogni timore della morte personale, ed allora soltanto ogni culto del vivo e del morto, essendo per la prima volta la società organizzata sul benessere e la gioia e sulla riduzione al minimo razionale del dolore della sofferenza e del sacrificio, togliendo ogni carattere misterioso e sinistro alla vicenda armoniosa del succedersi delle generazioni, condizione naturale del prosperare della specie.
Source: «Il Programma Comunista» N. 23 - 15-29 Dicembre 1961
«In Messico, nel lago Patzcuaro, si trova la piccola isola di Janitzio. A 2.350 metri d'altezza, un paesaggio stupendo si spalanca davanti ai visitatori: acque tranquille, montagne dai fianchi tormentati, un cielo così vicino che sembra di poterlo toccare col dito. Discendenti da una razza fiera, gli indiani Tarascani combatterono contro gli Spagnoli «conquistadores». Furono vinti e adottarono la religione cristiana degli invasori; ma i santi che essi venerano hanno conservato i caratteri delle antiche divanità. Il Sole, l'Acqua, il Fuoco e la Luna. I Tarascani sono abili nel lavorare il cuoio, nello scolpire il legno, nel lavorare l'argilla e nel tessere la lana. Sono anche abilissimi pescatori. Quando ritirano le loro reti dalla strana foggia, somiglianti a grosse farfalle, sono sempre ricche di pesce. Ma anche se industriosi, i Tarascani sono ancora molto primitivi. Essi considerano infatti la vita come uno stato transitorio, un breve momento che bisogna passare per giungere alla beatitudine della morte. La morte non rappresenta più un'inesorabile fatalità; al contrario essa è considerata un bene, l'unico veramente inestimabile. Ecco perché «il giorno dei morti» non è, per gli abitanti di Janitzio, un giorno di dolore. La festa inizia di buon mattino. Le case vengono decorate a festa e tutte le immagini dei santi si arricchiscono di pizzi e fiori di carta. I ritratti dei defunti vengono esposti e illuminati da decine di ceri. Le donne preparano i piatti favoriti dai parenti defunti poiché essi, tornando a visitare i vivi, vi traggano consolazione.Nel cimitero, dietro la chiesa, si decorano anche le tombe che molto spesso non hanno nome. Non vi sono iscrizioni funebri a Janitzio! Ma non per questo si dimenticano i morti. La via che conduce dal cimitero al villaggio viene cosparsa di petali di fiori, affinché i defunti possano agevolmente trovare la strada di casa.Nel «giorno dei morti» le donne di Janitzio si fanno belle. Pettinano le lunghe trecce scure e si adornano di gioielli d'argento. Il costume si compone di una lunga sottana rossa bordata di nero a larghe pieghe. La camicetta ricamata scompare sotto il «rebozo» che ricopre la testa e le spalle e dal quale, spesso, spunta la testina dell'ultimo nato. A mezzanotte le donne vanno tutte insieme nel camposanto e si inginocchiano a pregare per i loro cari defunti. Accendono i ceri, i più grandi dedicati agli adulti e i più piccoli per coloro che se ne sono andati troppo presto da «questa valle di lacrime». Poi si abbandonano alla meditazione che, a poco a poco, si traduce in parole. Inizia così uno litania che non è di dolore, ma che esprime la comunione esistente tra i vivi e i morti.Intanto gli uomini rimasti al villaggio si riuniscono a bere vicino alla chiesa dove è stato elevato un catafalco nero dedicato ai morti che non hanno più nessuno che preghi per loro. Ritorneranno a casa verso l'alba, mentre le loro donne, che hanno vegliato tutta la notte al cimitero, vanno a sentire la messa seminascoste nel «rebozo». Trascorre così a Janitzio «la giornata dei morti». Sui volti degli abitanti del villaggio non si legge dolore, ma la festosa aspettativa di chi attende la visita delle persone più care».
Abbiamo ripresa tal quale e col suo titolo questa notiziola da un giornale italiano per i ragazzi. È una delle tante rifritture di materiale americano di «cultura» che passano di giornale in giornale e di rivista in rivista senza che pennaioli di servizio si accorgano di altro che del grado di effetto del pezzo che circola. Il ricopiatore ennesimo non si è nemmeno sognato il significato profondo che la sua diffusione nasconde, sia pur nella forma convenzionalmente conformista.
Le nobilissime popolazioni messicane, diventate cattoliche sotto il terrore spietato degli invasori spagnoli, mostrerebbero, col non avere terrore ed orrore della morte, di essere rimaste «primitive».
Erano, invece, quei popoli, eredi di una civiltà incompresa ai cristiani di allora e di oggi, e trasmessa dal comunismo antichissimo. L'insulso individualismo moderno non può che stupire beota se, pur nel testo scolorito, si legge di tombe senza iscrizione e di cibi che si apprestano ai morti che nessuno commemora. Veri «morti ignoti», non per retorica bolsa e demagogica, ma per possente semplicità di una vita che è della specie e per la specie, eterna come natura e non come sciocco sciame di anime vaganti negli extra-mondi, per la quale, e per il suo sviluppo, valgono le esperienze dei morti, dei vivi e dei non nati, in una serie storica il cui avvicendarsi non è lutto, ma gioia di tutti i momenti del ciclo materiale.
Anche nel simbolo, quei costumi sono più alti di quelli nostrani, ad esempio in quelle donne che si fanno belle per i morti e non per il più danaroso dei vivi, come nella società mercantile, fogna in cui noi siamo immersi.
Se sotto le spoglie degli squallidi santi cattolici vive ancora la forma antichissima delle divinità non inumane, come il Sole, ciò ricorda le notizie - quanto giunte a noi travisate! - della civiltà Incas, che Marx ammirava. Non erano primitivi e feroci tanto da immolare i più begli esemplari della specie giovane al Sole che chiedeva sangue umano, ma splendide di un intuito possente, quelle comunità che riconoscevano il fluire della vita nella energia, che è la stessa quando il Sole la irradia sul pianeta e quando fluisce nelle arterie dell'uomo vivo e diventa unità ed amore nella specie una, che fino a quando non cade nella superstizione dell'anima personale col suo bilancio bigotto di dare ed avere, soprastruttura della venalità monetaria, non teme la morte e non ignora che la morte della persona può essere inno di gioia, e contributo fecondo alla vita dell'umanità.
Nel comunismo naturale e primigenio, anche se l'umanità è sentita nel limite dell'orda, il singolo non ha scopi che consistano nel sottrarre bene al fratello ma è pronto ad immolarsi per il sopravvivere della grande fratria senza alcuna paura. Sciocca leggenda vede in questa forma il terrore del dio che si plachi col sangue.
Nella forma dello scambio, della moneta, e delle classi, il senso della perennità della specie sparisce, e sorge quello ignobile della perennità del peculio, tradotta nella immortalità dell'anima che contratta la sua felicita fuori natura con un dio strozzino che tiene questa banca e pesa. In queste società che pretendono di essere salite da barbarie a civiltà si teme la morte personale e ci si prostra alle mummie, fino ai mausolei di Mosca, dalla storia infame.
Nel comunismo, che non si e avuto ancora, ma che resta certezza di scienza, si riconquista la identità del singolo e della sua sorte con quella della specie, distrutta entro essa tutti i limiti di famiglia, razza e nazione. Con questa vittoria finisce ogni timore della morte personale, ed allora soltanto ogni culto del vivo e del morto, essendo per la prima volta la società organizzata sul benessere e la gioia e sulla riduzione al minimo razionale del dolore della sofferenza e del sacrificio, togliendo ogni carattere misterioso e sinistro alla vicenda armoniosa del succedersi delle generazioni, condizione naturale del prosperare della specie.
Source: «Il Programma Comunista» N. 23 - 15-29 Dicembre 1961
Natale 2008
Ancora una volta il Fuoco ha penetrato la Terra.
Non si è schiantato con strepito come un fulmine sulle montagne. Forse il Signore deve forzare la porta per entrare nella sua casa?
Senza sismi, senza tuoni, appare la fiamma che ha illuminato ogni cosa dall'interno.
Dal cuore dell'infimo tra gli atomi fino all'energia delle leggi piú universali,
ha invaso con assoluta naturalezza, ogni individuo, e nel suo insieme, ogni elemento, ogni modello, ogni unione del nostro cosmo, tanto che potrebbe credersi che esso abbia spontaneamente preso fuoco.
In ogni nuova Umanitá che oggi si genera,
il Verbo ha prolungato l'atto senza fine
della sua nascita, e in virtú della sua immersione nel seno del Mondo, le grandi acque della Materia, senza nemmeno un brivido, si sono riempite di vita.
Apparentemente nulla ha tremato, per l'ineffabile trasformazione. Tuttavia, misteriosamente e realmente, al contatto con la parola sostanziale, lUniverso, immensa ostia si è fatto carne.
Da allora ogni materia si è incarnata, Dio mio, per opera della tua incarnazione.
Pierre Teilhard de Chardin
Inno dell'Universo
Trad. genseki
lunedì, dicembre 22, 2008
César Vallejo
Ciro Alegria
César Vallejo come l'ho conosciuto
Parte I
Un signore circospetto, carico di anni e di sapienza, era in visita a casa una domenica sera, e fu allora che udii per la prima volta il nome di César Vallejo e le discussione che provocava. Si parlava del fatto che il lunedí avrei dovuto cominciare ad andare a scuola.
- Se avessi un figlio – suggerí questo Signore – lo manderei al Seminario. È una scuola di preti ed è molto conveniente.
Io ascoltavo attentamente questa conversazione dalla quale dipendeva il mio destino di studente. Mia nonna rispose con dignitá:
- In realtà suo padre mi ha scritto che lo mandi alla Scuola Nazionale di San Giovanni. È quello che ha detto definitivamente. Tutti gli uomini della famiglia sono stati educati li -.
- Che classe frequenterá?
- Quest'anno va in prima.
Il vecchio fece quasi un salto e poi disse con molta concitazione:
- Ma signora! Qui non si tratta di Scuole, si tratta di buon senso ... Ma lei lo sa chi insegna in prima alla Scuola di San Giovanni? Lo sa? Ebbene, quel Cesare Vallejo, quello che crede di essere un poeta e gli manca qualche rotella ... -
- Vabbé, ma per insegnare in prima... - disse la nonna per calmarlo un po'.
Ma il nostro ospite sembrava deciso a salvare dal pericolo quel povero innocente che io ero e argomentó:
- No, signora! Questo Vallejo se non è un idiota è sicuramente un pazzo. Non potrebbe farlo entrare in seconda. Entrando ho visto che il bambino stava leggendo il giornale ...-
Il mio presunto salvatore fece una smorfia sconsolata quando la nonna gli disse:
- Si, sa giá leggere e scrivere ma non le altra materie che si insegnano in prima -.
Il vecchio era peró determinato a spendere tutte le sue risorse per liberare il mio povero cervello da influenze perturbatrici, e prese una direzione piú condiscendente:
- Tuttavia signora, lei non mi negherá che in quanto all'educazione e specialmente a quella religiosa il seminario è il collegio migliore. Il suo prestigio va crescendo ... -
E la nonna:
- anche nel piano di studi del San Giovanni c`è religione e non sono per niente anticattolici ...-
Il vecchio si arrese. Forse per consolarsi, peró, si mise a esporre alcune considerazioni fatali per il modernismo e per tutta una serie di altri ismi e poi fece lampi e tuoni di ordine estetico contro l'arte del mio maestro, ma io non ci capivo niente. Finalmente se en andó con un'espressione abbastanza contrariata e non senza farmi gli auguri di buona fortuna in un modo tra disperato e compassinevole.
Mi riuscí difficile conciliare il sonno nel mezzo delle inquietudini che si impadronivano di un bambino che domani aspettava il suo primo giorno di scuola e pensava al suo maestro, che si diceva fosse un poeta e che il vecchio severo aveva chiamato pazzo o forse idiota.
Un mio compagno di viaggio che studiava in quella stessa scuola mi ci accompagnó.
- Voi non entrate da qui – mi disse quando giungemmo ad una grande porta sulla quale si leggeva l'iscrizione: dio e patria, - questa porta è per noi, quelli delle medie. Passiamo di lá -.
Camminammo verso l`angolo della strada, e quando lo svoltammo, si aprí a metá la porta che usavano i maestri e gli alunni delle elementari. Ci fermammo di colpo e mio zio mi presentó a quello che sarebbe stato il mio maestro. Accanto alla porta, immobile c'era Cesare Vallejo, magro, giallognolo, quasi ieratico, mi parve un albero che avesse perso le sue foglie. Il suo vestito era scuro, come scura la sua pelle. Per la prima volta vidi la luce intensa dei suoi occhi quando si inclinó per domandarmi, con tenera attenzione, come mi chiamassi. Scambió poi alcune parole con mio zio e quando questi se en andó mi disse “vieni di qua” Entrammo in un piccolo cortile dove stavano giocando molti bambini. La classe di prima era su uno dei lati. Allora si mise ad aprire i banchi per vedere se ce en fosse uno libero in base al fatto che vi fossero o no abiti al suo interno, poi me en indicó uno dicendo:
- Ti siederai qui, metti le tue cose, no, non così, devi essere ordinato, prima la lavagnetta che è piú grande, sopra il tuo libro e il berretto -.
Trad. genseki
venerdì, dicembre 19, 2008
Obaku
Huang-Po
Insegnamenti
I
Il maestro disse a Pei Siu:
Tutti i Budda e tutti gli esseri viventi non sono altro che uno spirito solo: altro metodo spirituale non v'è.
Da tempi senza inizio, questo spirito, che non è mai nato, non ha mai cessato di esistere, non è giallo e non è neppure azzurro, non possiede forma alcuna nè aspetto, non dipende dall'essere e neppure dal non essere, non è antico e non è nuovo, nè lungo, nè corto, nè grande nè piccolo, oltre ogni delimitazione e ogni denominazione: Eccolo, realtá intriseca.
Ma quando si fanno delle considerazioni si finisce per divagare... illimitato e insondabile, sembra lo spazio vuoto
Questo spirito è il Budda e tra il Budda e gli esseri viventi non c'è differenza. Tuttavia gli esseri viventi cercano sempre altrove afferrandosi a caratteri peculiari, e mentre van cercando avviene che perdono tutto, perché inviando la loro idea di Budda alla ricerca del Budda e il loro spirito alla ricerca dello spirito, anche senza mai tirare il fiato per interi kalpa, non possono arrivare da nessuna parte, ignorando, come ignorano che`proprio il Budda è gli esseri viventi tutti.
Quando è essere vivente, questo spirito non risulta in nulla sminuito e quando è Budda non per questo deve apparire come accresciuto. Così avviene che le sei trascendenze e l'infinitá delle pratiche come i meriti piú numerosi che i granelli di sabbia del Gange vi si trovino riuniti fondamentalmente al completo senza che un esercizio temporaneo ve li abbia aggiunti. Quando l'occasione si presenta ecco che allora , essi si esprimono, se no, se ne restano tranquilli.
Se non credete fermamente che questo spirito è il Budda e se volete praticare aggrappandovi a caratteri particolari per ottenere meriti siete preda di un equivoco grave e finirete per abbandonare la Via.
Questo spirito è il Budda e non v'è altro Budda e neppure altro spirito. Questo spirito chiaro e puro è simile allo spazio vuoto, in nessun punto avendo forma particolare alcuna.
Suscitare un particolare stato dello spirito per mezzo dei pensieri significa allontanarsi dalla sostanza delle cose e afferrarsi a caratteristiche particolari. Ora, fin dai tempi senza inizio, non vi fu mai un “Budda attaccato alle particolaritá”. Esercitarsi nelle sei trascendenze e nell'nfinitá di pratiche per diventare Budda significa intraprendere una via graduale e mai si vide un Budda graduale. Basta risvegliarsi a questo spirito uno per non “avere piú la menoma veritá da trovare”, tale è l'autentico Budda.
Il Budda e gli essere viventi non sono distinti nello spirito uno, che come lo spazio vuoto non è mai confuso e mai si degrada. Infatti, guardate il sole che illumina la terra intera. Al suo sorgere la luce si diffonde su tutta la terra ma non per questo lo spazio è reso piú luminoso. Quando tramonta e le tenebre ricoprono la terra non si fa per questo piú oscuro.
Luce e oscuritá reciprocamente si scacciano, immutato e vuoto resta lo spazio nella natura sua. Lo stesso avviene per questo spirito del Budda e degli esseri viventi.
Havvi chi suol considerare il Budda provvisto di segni particolari come la purezza, la luminositá e la libertá, e gli esseri viventi con i segni dell'impuritá, dell'oscuritá e dell'essere incatenati al samasara. Eppur coloro che in siffatto modo credono, neppure al trascorrere di kalpa innumerevoli potranno entrare nel porto del risveglio, essendo essi come afferrati ai caratteri particolari.
In questo spirito uno, dunque non resta la menoma realtá da trovare, posto che lo spirito è il Budda. Ai giorni nostri, i discepoli che non si sono risvegliati a questo spirito, nella sostanza loro altro non fanno che produrre pensieri, uno dopo l'altro affannosamente, cercando il Budda all'esterno e praticare aggrappandosi ai caratteri particolari; si tratta di un metodo malvagio e non della Via del Risveglio
trad. genseki
giovedì, dicembre 18, 2008
Il prezzo di un sorso d'acqua
E trovansi nel diserto di Azoad due sepolture fatte di non so che sasso, nel quale sono intagliate alcune lettere che dicono ivi esser seppelliti due uomini, uno de' quali fu ricchissimo mercante, e passando per quel diserto infestato dalla sete comperó dall'altro che era vetturale, una tazza d'acqua per diecimila ducati: ma tuttavia morí della sete e il mercatante che cmpró l'acqua e il vetturale che gliela vendé.
Leone Africano
Descrizione dell'Africa
Leone Africano
Descrizione dell'Africa
mercoledì, dicembre 17, 2008
Equivalenti Matematici del Dogma
Lucian Blaga
L'Eone Dogmatico
La matematica piú recente include alcune costruzioni, come, per esempio, quelle dei “transfiniti” (il simbolo Aleph di Cantor) attraverso dei quali si fanno, involontariamente, alcune concessioni al pensiero dogmatico, cosí importanti, da poter essere chiamate, senza mezzi termini “equivalenti matematici del dogma". Il simbolo Aleph designa una grandezza transfinita che si mantiene identica a se stessa qualunque grandezza finita venga ad essa sottratta. Ricordiamo qui la affermazione di Filone secondo il quale la sostanza prima non soffre nessuna diminuzione a causa delle emanazioni originate da essa. Tra il simbolo Aleph e la formula di Filone c'è una perfetta somiglianza strutturale (la differenza consiste nel fatto che il dogma paral di essenze e di processi comsologici, mentre l'Aleph è puramente matematico). Cantor e (altri con lui) giunse, per successioni logiche di calcoli e di considerazioni a stabilire le diverse antinomie del transfinito. La questione principale a questo livello non è in che modo i matematici giunsero a queste antinomie, bensí come pensano di risolverle. Le antinomie, in generale, si possono risolvere per differenziazione logica di concetti, per differenziazioni applicabili senza restrizioni non solo in un mabito trascendente ma anche in uno logico-concreto. (“Dio è uno e molteplice” è un'antinomia. Essa puó risolversi attraverso una differenziazione logica di concetti, valida senza restrizioni in qualunque dominio come, per esempio, attraverso i concetti di sostanza e di manifestazione; sulla base di questa differenziazione la antinomia si risolverebbe in modo logico: Dio è uno in quanto sostanza e molteplice nelle sue manifestazioni). Abbiamo visto che a volte si cercó la soluzione alle antinomie non attraverso la differenziazione logica di concetti, bensí attraverso la separazione di concetti solidali. (Dio è uno in quanto essere e molteplice in quanto persona) Come si risolvono le antinomie del transfinito? Attraverso una distinzione di concetti e più esattamente attraverso una distinzione tra i concetti di potenza e di somma di un insieme (Menge). Ma bisogna esaminare quale sia la natura di questa distinzione. Cantor ottiene il concetto di potenza (Mächtigkeit) per mezzo di un'astrazione della possibilitá di coordinazione (Zuordnung) reciproca degli elementi di due insiemi. Quando i due insiemi di elementi coordinati sono finiti, la potenza di ciascuno coincide con la somma di ciascuno. Potenza è quindi un concetto piú astratto di quello di somma mentre dal punto di vista delle sue caratteristiche matematiche (piú esattamente per quello che si riferisce alle sue relazioni di eguaglianza, di più e di meno) reciprocamente solidale con quello di somma. Se due insiemi sono uguali come potenza lo sono anche come somma e all'inverso. Ma quando questi due concetti si applicano all'ambito del transfinito la solidarietá aritmetica sparisce. Due transfiniti possono avere la stessa potenza pur rappresentando somme differenti. Perché Cantor suppone che la solidarietá di potenza e somma cessi nell'ambito del transfinito? Per le stesse antinomie del transfinito. Queste antinomie sono quelle che obbligano l'intelletto a postulare una separazione di concetti che l'intelletto non concepise altrimenti che come che come in relazione solidale. (Questo postulato, una volta ammesso, rende possibile tutta una matematica dei transfiniti, di articolazioni assolutamente logiche). Per la soluzione delle antinomie del transfinito, Cantor sceglie il cammino della separazione dei concetti solidali: potenza e somma. Le antinomie ottenute in questo modo conducono, tanto per calcoli come per considerazioni logiche, alla postulazione di un determinato dominio di una separazione di concetti solidali nell'ambito logico-concreto. Noiabbiamo seguito questo procedimento, quando abbiamo analizzatole formule dogmatiche, il procedimeno di “trasfigurazione delle antinomie”.
Si deve approfondire se apparirono, tra le costruzioni piú recenti della scienza, altre idee, piú o meno vicine strutturalmente, alla formula dogmatica e alla antinomia trasfigurata.
Trad. genseki
martedì, dicembre 16, 2008
la leyenda del tiempo-camaron
La leggenda del tempo
Sopra il tempo va il sogno
Come fosse un veliero
Nessuno sguscia semi
Dentro il cuore del sogno
Sopra il tempo va il sogno
Sepolto fino al collo
Oggi e domani mangiano
Fiori oscuri di lutto
Sulla stessa colonna
Sogno e tempo abbracciati
Il pianto del bambino
Nella lingua del vecchio
Sopra il tempo va il sogno
Se il sogno finge muri
Nelle lande del tempo
Il tempo gli fa credere
Ch'è nato il quel momento
Sopra il tempo va il sogno
Federico Garcia Lorca
trad. genseki
Per Maresa
Come chi s'è perduto
Come chi s`è perduto nella selva profonda
Lungi dalle radure dai sentier dalle genti;
Come colui che in pelago mosso da forti venti,
Si vede preda omai del turbinio dell'onda;
Come chi a passi lenti va mesurando il campo
Quando la notte al mondo ogni chiarezza tolle,
I' luce e rotta persi ed a modo di folle
Persi a lungo l'oggetto ove il mio ben accampo.
Ma quando vedi (e' mali più non ti stanno attorno)
Nel bosco, in mar al campo, e meta e porto e giorno;
Il ben presente credi maggior dei mali feri;
Ed io che in vostra assenza sofferto ho tal dolore
Dimentico, al veder vostro chiaro splendore,
Bosco, tormenta e notte lunghi rabbiosi e neri.
Etienne Jodelle (1532-1573)
trad genseki
Gaspard de la nuit
La barba a punta
Chi non marcia a testa alta
Con la barba ben fresata
de il baffo torciglione
Di dama non trova considerazione
Le poesie di d'Assouci
Era festa nella Sinagoga tenebrosamente stellata di lucignoli argentati, i rabbini coi paramenti e i quevedos baciavano o loro talmud, norbottavano canticchiavano per il naso, sputavano e si soffiavano il naso, gli uni seduti e gli altri no.
Ma ecco che, all'improvviso, in mezzo a cotante barbe ora rotonde, ora ovali ora quadrate che ricciolavano o allisciavan esalando aromi d'ambra e benzoino, fu avvistata una barba a punta.
Un dottore chiamao Elébotham, che portava sul capo una mola scintillante di gioielli a modo di cappello si alzó e disse: “Profanazione! C'è qui una barba a punta!
Una barba luterana! - Un mantell corto! - A morte il Filisteo.” - E la folla ribolliva di rabbia nei banchi tumultuosi mentre il sacrificatore strepitava: “Sansone! A me una mascella d'asino!"
Ma il cavalier Melchiorre aveva srotolato una pergamena autenticata dal sigillo imperiale: “Si ordina, lesse ad alta voce, di arrestare il macellaio Isaac van Eck, per essere l'assasino impiccato, lui porco giudeo tra due porci fiamminghi”.
Trenta alabardieri si staccarono a passi pesanti e ticchettanti dall'ombra del corridoio.
- “Me ne infischio dei vostri alabardieri!” ghignó il macellaio Issac. E da una finestra si gettó nel Reno.
Louis Bertrand
trad. genseki
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