giovedì, marzo 20, 2008
mercoledì, marzo 19, 2008
Eriugena
Sicuramente è un esercizio inutile dal punto di vista della veritá e del concetto ritrarre un Filosofo sullo sfondo del pasaggio, del suo paesaggio. La nottola del concetto e quella della veritá si levano al calar del sole quando il paesaggio sfuma nell'indistinto dei grigi, nell'informe del nero.
Dove è luce anche è vita e molteplicitá di forme che si contraddicono e si sovrappongono, si alimentano e si sviluppano, colore,densitá, crescita, calore.Johannes Scotus ci appare sullo sfondo di una natura salina, piovosa, ombreggiata di latifoglie dal verde notturno. Il vento spettina praterie antiche ove le fruttificazioni delle graminacee si vincolano immediatamente al sole.
Ci sono grandi rapaci le cui rotazioni venatorie simulano quelle delle sfere celesti.I muschi formano cortine e veli che moltiplicano la prospettiva lineare dei tronchi dei faggi che con i loro grandi occhi grigi, tra la pelle dei tronchi d'argento osservano la danza delle gocce da foglia a foglia. Anche le gocce sono frammenti di luce.
Così piace immaginare il saggio dagli occhi acquosi, dai capelli di un rosso anacquato come un vino male imbottigliato, vestito di lane clericali dal panneggio ieratico e pastorale ad un tempo.*
Nostrum orbem terreum differentiam in paradiso iuxta rationem naturae non habere; non enim natura separantur sed qualitatibus et quantitatibus coeterisque varietatibus, quae propter peccatu generale generalis humanae naturae ad poenam eius, imo etiam ad correctionem et exercitationem, huic terrae habitabili superaddita sunt. Non enim mole vel spatiis discernitur paradysus ab isto habitabili orbe terrarum sed diversitate conversationis differentoaque beatitudinis.
*
Non enim potuit ascendere in Deum, nisi prius foret Deus.
*
Radius oculorum nostrorum species rerum sensibilium coloresque non prius potest sentire quam se solaribus radiis inmiscent, namque in ipsis et cum ispsis fiat.
Che ci porta a Goethe: "Wär nicht das Auge sonnenhaft könnte es die Sonne nicht erblicken.
*
Non enim possibile est locum subtracto tempore intellegi, sicut neque tempus sine loci cointelligentia diffiniri potest. Haec, enim, inter ea quae simul et semper sunt inseparabiliter ponantur.
*
Essentia itaque animae nostrae est intellectus qui universitati humanae naturae praesidet.
*
Omnia itaque quae per verbum facta sunt in ipsis vivunt incommutabiliter et vita sunt, in quo neque fuerunt omnia temporalibus intervallis seu localibus nec futura sunt, sed solummodo super omnia tempora et loca in ipso unum sunt et universaliter subsistunt visibilia, invisibilia, corporalia, incorporalia, rationalia, irrationalia et, simpliciter caelum et terra, abyssus et quaecumque in eis sunt, in ipso vivunt et vita sunt et aeternaliter subsistunt.
*
Cuius lux per excellentiam tenebrae nominatur, quoniam a nulla creatura quid vel qualis sit comrehenditur.
*
Nulla seu rationalis seu intellectualis creatura per se ipsam substantialiter lux est, sed participatione unius ac veri luminis substantialis quod ubiquein omnibusque inelligibiliter lucet.
*
Si Pater luminum per seipsum lux est, neque enim Pater luminum esset si in seipso lux non subsisteret omnia quae fecit in sapientia sua, quae et ipsa lux est, quoniam coessentialis Pater luminum est numquid aliter existimandum nisi ut omnia, quae Pater lux in sapientia coessentiali sibi luce condidit, lumina condita credantur et intelligantur.
Con questa vibrante sequenza di luci intrecciate e riflesse che si ritroverá mezzo millennio piú tardi nell'altra grande cattedrale del pensiero medioevale: La Comedia di Dante, lascio il saggio celtico che dominava il greco e spiegava la natura di tutte le cose come un oceano di luce.
genseki
domenica, marzo 16, 2008
domenica, marzo 09, 2008
PACO YUNQUE
Quella che segue è la prima parte del racconto di Vallejo: Paco Yunque che credo non sia stato tradotto in italiano. Fu scritto da Vallejo nel 1931 e gli editori a cui si rivolse per la pubblicazione pare che lo rifiutarono perché troppo triste per i bambini. Certamente questo racconto è nutrito dell'esperienza come maestro che Vallejo fece per un anno in Trujillo, mi pare nel 1911. Scrivendo queste poche righe un'immagine mi si è formata nella mente quella di Vallejo con Antonio Gramsci, fratelli d'estrema tristezza d'invincibile dignitá.
Quando Paco Yunque e sua madre giunsero alla porta dellla scuola, i bambini stavano giocando nel cortile. Paco, passo dopo passo, si diresse verso il centro, con il suo primo libro, il suo quaderno e il suo lapis. Paco aveva paura, perché era la prima volta che vedeva una scuola; non aveva mai visto così tanti bambini tutti insieme.
Diversi alunni , piccoli come lui, si avvicinarono e Paco, sempre piú timido si incollò al muro e si fece tutto rosso. Che ragazzi svegli erano quelli! Così disinvolti! Come se fossero a casa loro. Gridavano. Correvano. Ridevano a crepapelle. Saltavano. Si prendevano a pugni. Era un caos.
Paco era anche un po' rintontito, perché in campagna non aveva mai ascoltato le voci di tante persone tutte insieme. In campagna prima parlava uno, poi un altro e dopo un altro ancora. A volte gli capitó di udire anche quattro o cinque persone che parlavano tutte insieme. Suo padre, sua madre, don José, Anselmo lo Zoppo e la Tomasa. Ma queste non erano piú voci di persone, erano un'altra cosa. Molto differente. E adesso, questo si, questo del collegio si che era un gran casino, messo su da un mucchio di gente. Paco era assordato.
Un bambino biondo e grasso, vestito di bianco gli stava parlando. Un altro piú piccino, con la voce un po' roca, gli stava parlando anche lui. Gli alunni si staccavano dai gruppetti di cui faceevano parte e si avvicinavano per venire a vedere Paco, e gli facevano molte domande. Paco, però non poteva sentire niente per le strida degli altri.
Un bambino biondastro, con una giacchetta verde ben stretta in vita afferró Paco per un braccio e lo volle trascinare con sè. Paco non si lasció fare. Il biondo lo afferró di nuovo e lo scosse violentemente. Paco si schiacció ancor piú contro la parete e si fece tutto rosso. Proprio in quel momento suonó la campana e tutti entrarono in classe.
Due bambini – i fratelli Zumiga – presero Paco per mano e lo condussero nella classe di prima. Paco, subito, non volle seguirli, dopo, peró, obbedí, quando si accorse che tutti quanti facevano lo stesso. Quando entró in classe impallidí. Di colpo tutto tacque e questo fece paura a Paco. Gli Zumiga lo stavano trascinando uno da un lato e l'altro da l'altro quando di colpo lo lasciarono solo.
Entró il maestro. Tutti i bambini stavano in piedi, con la mano destra alzata all'altezza delle tempie, salutando in silenzio, ben dritti.
Paco senza mollare il libro, il quaderno e il lapis era rimasto fermo nel bel mezzo della classe, tra i primi banchi degli alunni e la cattedra del maestro. Aveva le vertigini. Bambini, pareti gialle. Gruppi di bambini. Vociare. Silenzio. Sbattere di sedie. Il maestro. Solo, immobile, nella scuola. Voleva piangere. Il maestro lo prese per mano e lo portó a uno dei banchi delle prime file accanto a un bambino grande come lui. Il maestro gli domandó:
Come si chiama lei?
Con voce tremante Paco rispose flebilmente:
- Paco
E il suo cognome? Dica per favore come si chiama per intero.
- Paco Yunque
- Molto bene
Il professore ritornó alla sua cattedra e dopo aver gettto un'occhiataccia su tutti gli alunni, disse con voce militare:
- Sedetevi!
Un rumore di banchi mossi e tutti gli alunni stavano giá seduti.
Anche il maestro si sedette e per qualche momento scrisse nei suoi registri. Paco Yunque continuava a tenere in mano il suo libro, il suo quaderno e il suo lapis. Il suo compagno di banco gli disse:
- Posa tutto sul banco come faccio io.
PacoYunque era sempre molto stordito e non gli fece caso. Il suo compagno, allora prese anche i libri e li mise sul banco. Poi gli disse allegramente:
- Anche io mi chiamo Paco, Paco Farina. Non startene triste, giochiamo con la mia scacchiera. C'ha le torri nere. Me l'ha comprata la zia Susanna. Dove vive la tua famiglia, la tua?
Paco Yunque non rispondeva niente. Quest'altro Paco gli dava fastidio. Era sicuramente come tutti gli altri bambini: chiacchieroni e contenti che non avevano più paura della scuola. Perché erano cosí e perché, lui, Paco Yunque ci aveva tanta paura, invece? Guardava furtivamente il maestro, la cattedra, il muro dietro il maestro, il soffitto. Guardava anche di straforo, attraverso la finestra, il cortile che ora era abbandonato e in silenzio. Fuori splendeva io sole. Di quando in quando giugevano voci dalle altre classi e rumori di carri che passavano per le strade.
Che strano stare a scuola! Paco Yunque comincia a ritornare un po` in sé. Pensó a casa sua e alla mamma. E chiese a Paco Farina:
- A che ora si va a casa?
- Alle undici. Dove abiti?
- Da quella parte.
- Ê lontano?
Paco Yunque non sapeva in che strada si trovava la sua casa perché era da poco che lo avevano portato dalla campagna e non conosceva la cittá.
Risuonarono alcuni passi di corsa nel cortile e sulla porta dell'aula apparve Humberto, il figlio del signor Dorian Grieve, un inglese, il padrone della famiglia Yunque, direttore delle ferrovie della “Peruvian Corporation” e sindaco del villaggio.
Paco era dovuto venire dalla campagna proprio per accompagnare a scuola Humberto. Solo che Humberto aveva l'abitudine di arrivare tardi a scuola e questa volta, la signora Grieve aveva detto alla mamma di Paco:
- Porti suo figlio a scuola adesso: Non sta bene che arrivi in ritardo il primo giorno. A partire da domani aspetterá che si alzi Humberto e gli porterá a scuola insieme.
Il maestro, quando vide Humberto Grieve, gli disse:
- Ancora in ritardo?
Humberto con indifferenza rispose:
- È che non mi sono svegliato in tempo.
Va bene – disse il maestro – Ma che non succeda piú. Si sieda.
Humberto Grieve cercó con lo sguardo dove si trovava Paco Yunque. Quando lo scorse, si avvicinó a lui e gli disse imperiosamente.
- Vieni al mio banco con me.
Paco Farina gli disse:
- No, il maestro lo ha messo qui.
- Che cosa te ne frega? Rispose Grieve con violenza, trascinando Yunque per un braccio al suo banco.
- Signore! Gridó allora Farina -, Grieve si sta portando Paco Yunque al suo banco.
Il Maestro smise di scrivere e chiese con voce energica:
- Vediamo un po'! Silenzio! Che cosa succede li?
Farina tornó a ripetere:
- Grieve si è portato Paco Yunque nel suo banco.
Humberto Grieve, sistemato nel suo banco con Paco Yunque disse al maestro:
- Si, signore, Paco Yunque è il mio domestico. Per questo
Il maestro lo sapeva perfettamente e disse a Humberto Grieve:
- Molto bene. Ma io lo ho messo accanto a Paco Farina perché segua meglio le spiegazioni. Lo lasci ritornare al suo posto.
Tutti gli alunni guardavano in silenzio il professore, Humberto Grieve e Paco Yunque.
Farina si alzó e prese per mano Paco Yunque per portarlo di nuovo al suo posto, peró Grieve prese Paco Yunque per l'altro braccio e non lo lasció muoversi.
Il maestro disse ancora una volta a Grieve:
- Grieve! Ma che cosa sta facendo?
- Humberto Grieve, rosso di collera, disse:
- No, signore, voglio che Paco Yunque stia con me.
- Lo lasci stare, le ho detto!
- Nossignore!
- Come?
- No.
Il maestro era indignato e ripeteva minaccoiso:
- Grieve! Grieve!
Humberto Grieve teneva gli occhi bassi e stringeva forte per il braccio Paco Yunque che se en stava li mezzo stordito e si lasciava stirare come uno straccio da Farina e da Grieve. Paco, adesso, aveva più paura di Humberto Grieve che del maestro e di tutti gli altri alunni messi insieme. Perché Paco Yunqe aveva paura di Humberto Grieve? Humberto Grieve era abituato a picchiare Paco Yunque.
Il maestro si avvicinó a Paco Yunque lo prese per un braccio e lo condusse al banco di Farina. Grieve si mise a piangere picchiando furiosammente i pugni sul banco.
Si udirono altri passi nel cortile e un altro alunno, Antonio Gesdres, - figlio di muratore – apparve sulla porta dell'aula. Il maestro gli disse:
- Perché arriva cosí tardi?
- Perché sono andato a comprare il pane per la colazione.
- Perché non c'è andato prima?
- Perché ho dovuto svegliare il mio fratellino e mamma e malata e papá è andato a lavorare.
- Bene – disse il maestro molto serio - , resti li e in piú avrá un'ora di castigo.
Paco Farina si alzó e disse:
- Anche Grieve è arrivato tardi, signore.
- Mente, signore – rispose rapidamente Humberto Grieve. - Non sono arrivato tardi.
Tutti gli alunni dissero in coro:
- Si signore! Grieve è arrivato tardi!
- Sssht! Silenzio! - disse il maestro di cattivo umore e tutti i bambini tacquero.
Il maestro paseggiava pensieroso.
Farina diceva a Yunque in segreto:
- Grieve è arrivato tradi e non lo castigano perché suo padre ha il grano. Arriva tardi tutti i giorni. Tu vivi a casa sua? Eri il suo domestico?
Yunque rispose:
- Io vivo con la mia mamma.
In casa di Humerto Grieve?
- È una casa molto bella. Ci stanno la padrona e il padrone. Ci sta anche la mamma. Io ci sto con la mamma.
Humberto Grieve, dal suo banco dell'altro lato, guardava con rabbia Paco Yunque e gli mostrava i pugni, perché si era lasciato portare al banco di Paco Farina.
Paco Yunque non sapeva che fare. Lo avrebbe picchiato ancora una volta, l'Humberto, per non essere restato con lui. Fuori gli avrebbe dato un colpo nel petto e un calcio in una gamba. L'Humberto era cattivo e picchiava sempre. Per strada. Anche in corridoio. Sulle scale, E anche in cucina, davanti a sua mamma e davanti alla padrona. Adesso lo picchierá, perché gli sta mostrando i pugni e l guarda con occhi feroci. Yunque disse a Farina:
Me ne vado con l'Humberto.
Farina gli diceva:
- Non fare lo scemo, Il maestro ti castigherá.
Diversi alunni , piccoli come lui, si avvicinarono e Paco, sempre piú timido si incollò al muro e si fece tutto rosso. Che ragazzi svegli erano quelli! Così disinvolti! Come se fossero a casa loro. Gridavano. Correvano. Ridevano a crepapelle. Saltavano. Si prendevano a pugni. Era un caos.
Paco era anche un po' rintontito, perché in campagna non aveva mai ascoltato le voci di tante persone tutte insieme. In campagna prima parlava uno, poi un altro e dopo un altro ancora. A volte gli capitó di udire anche quattro o cinque persone che parlavano tutte insieme. Suo padre, sua madre, don José, Anselmo lo Zoppo e la Tomasa. Ma queste non erano piú voci di persone, erano un'altra cosa. Molto differente. E adesso, questo si, questo del collegio si che era un gran casino, messo su da un mucchio di gente. Paco era assordato.
Un bambino biondo e grasso, vestito di bianco gli stava parlando. Un altro piú piccino, con la voce un po' roca, gli stava parlando anche lui. Gli alunni si staccavano dai gruppetti di cui faceevano parte e si avvicinavano per venire a vedere Paco, e gli facevano molte domande. Paco, però non poteva sentire niente per le strida degli altri.
Un bambino biondastro, con una giacchetta verde ben stretta in vita afferró Paco per un braccio e lo volle trascinare con sè. Paco non si lasció fare. Il biondo lo afferró di nuovo e lo scosse violentemente. Paco si schiacció ancor piú contro la parete e si fece tutto rosso. Proprio in quel momento suonó la campana e tutti entrarono in classe.
Due bambini – i fratelli Zumiga – presero Paco per mano e lo condussero nella classe di prima. Paco, subito, non volle seguirli, dopo, peró, obbedí, quando si accorse che tutti quanti facevano lo stesso. Quando entró in classe impallidí. Di colpo tutto tacque e questo fece paura a Paco. Gli Zumiga lo stavano trascinando uno da un lato e l'altro da l'altro quando di colpo lo lasciarono solo.
Entró il maestro. Tutti i bambini stavano in piedi, con la mano destra alzata all'altezza delle tempie, salutando in silenzio, ben dritti.
Paco senza mollare il libro, il quaderno e il lapis era rimasto fermo nel bel mezzo della classe, tra i primi banchi degli alunni e la cattedra del maestro. Aveva le vertigini. Bambini, pareti gialle. Gruppi di bambini. Vociare. Silenzio. Sbattere di sedie. Il maestro. Solo, immobile, nella scuola. Voleva piangere. Il maestro lo prese per mano e lo portó a uno dei banchi delle prime file accanto a un bambino grande come lui. Il maestro gli domandó:
Come si chiama lei?
Con voce tremante Paco rispose flebilmente:
- Paco
E il suo cognome? Dica per favore come si chiama per intero.
- Paco Yunque
- Molto bene
Il professore ritornó alla sua cattedra e dopo aver gettto un'occhiataccia su tutti gli alunni, disse con voce militare:
- Sedetevi!
Un rumore di banchi mossi e tutti gli alunni stavano giá seduti.
Anche il maestro si sedette e per qualche momento scrisse nei suoi registri. Paco Yunque continuava a tenere in mano il suo libro, il suo quaderno e il suo lapis. Il suo compagno di banco gli disse:
- Posa tutto sul banco come faccio io.
PacoYunque era sempre molto stordito e non gli fece caso. Il suo compagno, allora prese anche i libri e li mise sul banco. Poi gli disse allegramente:
- Anche io mi chiamo Paco, Paco Farina. Non startene triste, giochiamo con la mia scacchiera. C'ha le torri nere. Me l'ha comprata la zia Susanna. Dove vive la tua famiglia, la tua?
Paco Yunque non rispondeva niente. Quest'altro Paco gli dava fastidio. Era sicuramente come tutti gli altri bambini: chiacchieroni e contenti che non avevano più paura della scuola. Perché erano cosí e perché, lui, Paco Yunque ci aveva tanta paura, invece? Guardava furtivamente il maestro, la cattedra, il muro dietro il maestro, il soffitto. Guardava anche di straforo, attraverso la finestra, il cortile che ora era abbandonato e in silenzio. Fuori splendeva io sole. Di quando in quando giugevano voci dalle altre classi e rumori di carri che passavano per le strade.
Che strano stare a scuola! Paco Yunque comincia a ritornare un po` in sé. Pensó a casa sua e alla mamma. E chiese a Paco Farina:
- A che ora si va a casa?
- Alle undici. Dove abiti?
- Da quella parte.
- Ê lontano?
Paco Yunque non sapeva in che strada si trovava la sua casa perché era da poco che lo avevano portato dalla campagna e non conosceva la cittá.
Risuonarono alcuni passi di corsa nel cortile e sulla porta dell'aula apparve Humberto, il figlio del signor Dorian Grieve, un inglese, il padrone della famiglia Yunque, direttore delle ferrovie della “Peruvian Corporation” e sindaco del villaggio.
Paco era dovuto venire dalla campagna proprio per accompagnare a scuola Humberto. Solo che Humberto aveva l'abitudine di arrivare tardi a scuola e questa volta, la signora Grieve aveva detto alla mamma di Paco:
- Porti suo figlio a scuola adesso: Non sta bene che arrivi in ritardo il primo giorno. A partire da domani aspetterá che si alzi Humberto e gli porterá a scuola insieme.
Il maestro, quando vide Humberto Grieve, gli disse:
- Ancora in ritardo?
Humberto con indifferenza rispose:
- È che non mi sono svegliato in tempo.
Va bene – disse il maestro – Ma che non succeda piú. Si sieda.
Humberto Grieve cercó con lo sguardo dove si trovava Paco Yunque. Quando lo scorse, si avvicinó a lui e gli disse imperiosamente.
- Vieni al mio banco con me.
Paco Farina gli disse:
- No, il maestro lo ha messo qui.
- Che cosa te ne frega? Rispose Grieve con violenza, trascinando Yunque per un braccio al suo banco.
- Signore! Gridó allora Farina -, Grieve si sta portando Paco Yunque al suo banco.
Il Maestro smise di scrivere e chiese con voce energica:
- Vediamo un po'! Silenzio! Che cosa succede li?
Farina tornó a ripetere:
- Grieve si è portato Paco Yunque nel suo banco.
Humberto Grieve, sistemato nel suo banco con Paco Yunque disse al maestro:
- Si, signore, Paco Yunque è il mio domestico. Per questo
Il maestro lo sapeva perfettamente e disse a Humberto Grieve:
- Molto bene. Ma io lo ho messo accanto a Paco Farina perché segua meglio le spiegazioni. Lo lasci ritornare al suo posto.
Tutti gli alunni guardavano in silenzio il professore, Humberto Grieve e Paco Yunque.
Farina si alzó e prese per mano Paco Yunque per portarlo di nuovo al suo posto, peró Grieve prese Paco Yunque per l'altro braccio e non lo lasció muoversi.
Il maestro disse ancora una volta a Grieve:
- Grieve! Ma che cosa sta facendo?
- Humberto Grieve, rosso di collera, disse:
- No, signore, voglio che Paco Yunque stia con me.
- Lo lasci stare, le ho detto!
- Nossignore!
- Come?
- No.
Il maestro era indignato e ripeteva minaccoiso:
- Grieve! Grieve!
Humberto Grieve teneva gli occhi bassi e stringeva forte per il braccio Paco Yunque che se en stava li mezzo stordito e si lasciava stirare come uno straccio da Farina e da Grieve. Paco, adesso, aveva più paura di Humberto Grieve che del maestro e di tutti gli altri alunni messi insieme. Perché Paco Yunqe aveva paura di Humberto Grieve? Humberto Grieve era abituato a picchiare Paco Yunque.
Il maestro si avvicinó a Paco Yunque lo prese per un braccio e lo condusse al banco di Farina. Grieve si mise a piangere picchiando furiosammente i pugni sul banco.
Si udirono altri passi nel cortile e un altro alunno, Antonio Gesdres, - figlio di muratore – apparve sulla porta dell'aula. Il maestro gli disse:
- Perché arriva cosí tardi?
- Perché sono andato a comprare il pane per la colazione.
- Perché non c'è andato prima?
- Perché ho dovuto svegliare il mio fratellino e mamma e malata e papá è andato a lavorare.
- Bene – disse il maestro molto serio - , resti li e in piú avrá un'ora di castigo.
Paco Farina si alzó e disse:
- Anche Grieve è arrivato tardi, signore.
- Mente, signore – rispose rapidamente Humberto Grieve. - Non sono arrivato tardi.
Tutti gli alunni dissero in coro:
- Si signore! Grieve è arrivato tardi!
- Sssht! Silenzio! - disse il maestro di cattivo umore e tutti i bambini tacquero.
Il maestro paseggiava pensieroso.
Farina diceva a Yunque in segreto:
- Grieve è arrivato tradi e non lo castigano perché suo padre ha il grano. Arriva tardi tutti i giorni. Tu vivi a casa sua? Eri il suo domestico?
Yunque rispose:
- Io vivo con la mia mamma.
In casa di Humerto Grieve?
- È una casa molto bella. Ci stanno la padrona e il padrone. Ci sta anche la mamma. Io ci sto con la mamma.
Humberto Grieve, dal suo banco dell'altro lato, guardava con rabbia Paco Yunque e gli mostrava i pugni, perché si era lasciato portare al banco di Paco Farina.
Paco Yunque non sapeva che fare. Lo avrebbe picchiato ancora una volta, l'Humberto, per non essere restato con lui. Fuori gli avrebbe dato un colpo nel petto e un calcio in una gamba. L'Humberto era cattivo e picchiava sempre. Per strada. Anche in corridoio. Sulle scale, E anche in cucina, davanti a sua mamma e davanti alla padrona. Adesso lo picchierá, perché gli sta mostrando i pugni e l guarda con occhi feroci. Yunque disse a Farina:
Me ne vado con l'Humberto.
Farina gli diceva:
- Non fare lo scemo, Il maestro ti castigherá.
Parte I
Trad. genseki
venerdì, marzo 07, 2008
giovedì, marzo 06, 2008
Rotterdam
Ne restava uno solo
Ed era proprio quello
Un porto del nord piace
specie quando è lontano
Ci piacerebbe andarci
E poi non si decide
Se fottere il poeta
Oppure la puttana di ...
Rotterdam
Non ci son solo troie
O solo marinai
Ci son cani perduti
E bambini di strada
Non ci son solo chiatte
né soltanto botteghe
Ci son vecchi cavalli
Che sfidano la morte
Poliziotti cinesi
Che sembrano regine
E ragazze di seta
A sfilarsi la gonna
Sul bordo della strada
Come un dolore ancora
Come un dolore nuovo
Da portare stasera
Lungo tutta la strada
Che neppure assomiglia
Un poco a Rotterdam
Ci son ratti scoppiati
Come anche a Parigi
Ed incroci di gatti
Con sudici topastri
Dove solo si importa
Dove lungi dal porto
Le coppie degli amanti
Si formano e si disfano
Dove le banconote
Stanno all'orlo dei tanga
Ci sono raggazzacci
Che vendon cianfrusaglie
E qualche disgraziato
Che venderebbe il culo
Se vendendosi il culo
Fosse poi fortunato
O se potesse, almeno,
Trovarsi a Rotterdam
Poi ci son gli assassini
Annegati nel Whisky
Ed i poveri folli
Che non vedranno l'alba
Dove le sigarette
Sanno di caramello
Dove qualche soldato
scoperebbe un cammello
Dove un Povero Cristo
Dietro un caffé di notte
Discute con la fine
La fine della notte
Qui incontri gli esiliati
Che estraggono l'esilio
Nel cielo recintato
Da manifesti stupidi
Che nemmeno somigliano
Un poco a Rotterdam
Dove io non andró
Perche io cerco il sole
Dove tu non andrai
Perché sarebbe uguale
Prendo il treno del sud
Prendi il treno del sud
Fino n fondo alla notte
Che potrebbe sembrare
l'Italia.
Léo Ferré
Trad genseki
Ed era proprio quello
Un porto del nord piace
specie quando è lontano
Ci piacerebbe andarci
E poi non si decide
Se fottere il poeta
Oppure la puttana di ...
Rotterdam
Non ci son solo troie
O solo marinai
Ci son cani perduti
E bambini di strada
Non ci son solo chiatte
né soltanto botteghe
Ci son vecchi cavalli
Che sfidano la morte
Poliziotti cinesi
Che sembrano regine
E ragazze di seta
A sfilarsi la gonna
Sul bordo della strada
Come un dolore ancora
Come un dolore nuovo
Da portare stasera
Lungo tutta la strada
Che neppure assomiglia
Un poco a Rotterdam
Ci son ratti scoppiati
Come anche a Parigi
Ed incroci di gatti
Con sudici topastri
Dove solo si importa
Dove lungi dal porto
Le coppie degli amanti
Si formano e si disfano
Dove le banconote
Stanno all'orlo dei tanga
Ci sono raggazzacci
Che vendon cianfrusaglie
E qualche disgraziato
Che venderebbe il culo
Se vendendosi il culo
Fosse poi fortunato
O se potesse, almeno,
Trovarsi a Rotterdam
Poi ci son gli assassini
Annegati nel Whisky
Ed i poveri folli
Che non vedranno l'alba
Dove le sigarette
Sanno di caramello
Dove qualche soldato
scoperebbe un cammello
Dove un Povero Cristo
Dietro un caffé di notte
Discute con la fine
La fine della notte
Qui incontri gli esiliati
Che estraggono l'esilio
Nel cielo recintato
Da manifesti stupidi
Che nemmeno somigliano
Un poco a Rotterdam
Dove io non andró
Perche io cerco il sole
Dove tu non andrai
Perché sarebbe uguale
Prendo il treno del sud
Prendi il treno del sud
Fino n fondo alla notte
Che potrebbe sembrare
l'Italia.
Léo Ferré
Trad genseki
martedì, febbraio 26, 2008
martedì, febbraio 19, 2008
Hajj Imad Mugniyeh
Un libro restò all'orlo della tua vita spenta
Un corpo germinava dalla tua morta salma
Portaron via l'eroe
Corporea, ferale la sua bocca entró nel nostro fiato
Tutti sudammo con l'ombelico in spalla;
Ci seguivano lune pellegrine
Ed anche il morto sudava la tristezza.
Un libro alla battaglia di Toledo
Un libro dietro un libro, sopra un libro, germogliava dal cadavere
Di poesia dalla zigom violetto, tra il dire
E il tacere
Poesia nel testamento che sigilla
Il suo cuore
Solo il libro restó,
non ci sono insetti nellla tomba,
All'orlo della sua manica si inumidiva l'aria
Fino a farsi gassosa, infinita.
Tutti sudammo con l'ombelico in spalla,
Ed il morto sudava di tristezza
Ed un libro, lo vidi. con passione
Un libro, dietro un libro, sopra un libro
Un libro germogliava dal cadavere.
Vallejo
trad. genseki
Un corpo germinava dalla tua morta salma
Portaron via l'eroe
Corporea, ferale la sua bocca entró nel nostro fiato
Tutti sudammo con l'ombelico in spalla;
Ci seguivano lune pellegrine
Ed anche il morto sudava la tristezza.
Un libro alla battaglia di Toledo
Un libro dietro un libro, sopra un libro, germogliava dal cadavere
Di poesia dalla zigom violetto, tra il dire
E il tacere
Poesia nel testamento che sigilla
Il suo cuore
Solo il libro restó,
non ci sono insetti nellla tomba,
All'orlo della sua manica si inumidiva l'aria
Fino a farsi gassosa, infinita.
Tutti sudammo con l'ombelico in spalla,
Ed il morto sudava di tristezza
Ed un libro, lo vidi. con passione
Un libro, dietro un libro, sopra un libro
Un libro germogliava dal cadavere.
Vallejo
trad. genseki
Tawhid
L'Islam non è per Allah, ma per te. Il tuo corpo non ha necessitá del tawhid; di partecipare al tawhid; di realizzare la Unicitá di Allah. Il corpo cerca il tawhid senza discriminare che tipo di immersione nel Tutto gli garantirá la distruzione e quale sarà il cemento dell'esistenza, perché discriminare non è la sua missione, bensì tendere al Tutto, così come la nafs tende all'isolamento dentro al Tutto. Il corpo cerca l'orgasmo, la hadra dei sufi, l'alcol, le droghe, il dikr, il riposo... senza discriminare, perché una qualunque di queste esperienze lo fanno riposarsi da se stesso nel Tutto. Mettono il contatore mentale a zero, per cominciare di nuovo una volta recuperata la coscienza. Nell'Islam è ben chiaro che non si puó comprendere il tawhid per via intellettuale. La piú alta conoscenza dell'Islam (la ma'arifa) deve essere un lasciarci battere al ritmo del nostro proprio cuore e un abbandono all'essere delle cose che ci circondano...
Abdelmunim Aya
Opúsculo contra el alma
trad. genseki
venerdì, febbraio 08, 2008
Occhio pidocchio
La mamma è quasi cieca.
Vede solo forme sfuocate.
Vive con la nonna:
Madre e figlia
Nello stesso condominio
Stesso pianerottolo
In due appartamenti diversi
La mamma dice che è per colpa della nonna
Che lei è cieca.
Per colpa sua
Per questo la odia
Da anni si odiano
E convivono
Fu quando la nonna le versò sulla testa
Il veleno per i pidocchi
Alle elementari
Che aveva un odore terribile
E appiccicoso
Quell'odore
E scendendo per la testa
Le ha ammazzato gli occhi
Il veleno per i pidocchi
Che nessuno poi ce li aveva i pidocchi
Ma tutti avevano fame, invece,
E lei non lo voleva
Non lo voleva proprio
Per davvero
Il veleno per i pidocchi
Che così adesso è quasi cieca
Per colpa di sua madre
Di tua nonna.
Genseki
23:00:58
07/02/08
Vede solo forme sfuocate.
Vive con la nonna:
Madre e figlia
Nello stesso condominio
Stesso pianerottolo
In due appartamenti diversi
La mamma dice che è per colpa della nonna
Che lei è cieca.
Per colpa sua
Per questo la odia
Da anni si odiano
E convivono
Fu quando la nonna le versò sulla testa
Il veleno per i pidocchi
Alle elementari
Che aveva un odore terribile
E appiccicoso
Quell'odore
E scendendo per la testa
Le ha ammazzato gli occhi
Il veleno per i pidocchi
Che nessuno poi ce li aveva i pidocchi
Ma tutti avevano fame, invece,
E lei non lo voleva
Non lo voleva proprio
Per davvero
Il veleno per i pidocchi
Che così adesso è quasi cieca
Per colpa di sua madre
Di tua nonna.
Genseki
23:00:58
07/02/08
giovedì, febbraio 07, 2008
Zen petit a
Che cos'è quello che resta di un significante quando ormai non ha più significato?
*
Questa è la risposta del significante, oltre ogni significato. Credi di agire quando non ti muovo secondo il capriccio dei fili con i quali lego i tuoi desideri che così possono crescere in forza e si moltiplicano in oggetti che ritornano a condurti alla frammentazione della tua infanzia straziata.
Lacan
Seminario sulla "Lettera Rubata"
trad genseki
***
Che cosa è la realtà immediata prima che si abbia avuto il tempo di aggiungervi i prodotti del pensiero?
Nishida Kitaro
trad genseki
***
*
Questa è la risposta del significante, oltre ogni significato. Credi di agire quando non ti muovo secondo il capriccio dei fili con i quali lego i tuoi desideri che così possono crescere in forza e si moltiplicano in oggetti che ritornano a condurti alla frammentazione della tua infanzia straziata.
Lacan
Seminario sulla "Lettera Rubata"
trad genseki
***
Che cosa è la realtà immediata prima che si abbia avuto il tempo di aggiungervi i prodotti del pensiero?
Nishida Kitaro
trad genseki
***
martedì, febbraio 05, 2008
Le linee della vita
Il testo che precede dal Futuhat di Ibn Arabi ha come un'eco lontana, sorda, rara, deformata nei versi di Hölderlin:
Le linee della vita
son molte, diverse
Son come i crinali dei monti,
Pari ai sentieri
Ciò che noi siamo quaggiú
Di là potrá compierlo un Dio
Con premio di pace,
Di eterna armonia.
trad genseki
Il Folle della Torre e il Grande Sceicco si guardano per un istante nel sogno di queste righe.
genseki
Le linee della vita
son molte, diverse
Son come i crinali dei monti,
Pari ai sentieri
Ciò che noi siamo quaggiú
Di là potrá compierlo un Dio
Con premio di pace,
Di eterna armonia.
trad genseki
Questo canto flebile e maestoso, apre uno spazio visuale, forse già in quella torre sul Neckar, su un vasto paesaggio di valli e di monti, e un canto che si avvolge sul mondo e che trascina il nostro sguardo verso l'alto.
Le parole del Doctor Maximus non permettono prospettiva. Il cammino percorso non illumina il cammino da percorrere, il nuovo cammino appare quando il vecchio pareva averci portato definitivamente alla meta e la meta si svela come niente altro che un punto in piú sulla starada e nemmeno un punto panoramico. Ogni cammino trae il suo senso dalla sua meta o dalla sua propria impossibilitá di trovare una meta, di riposare in una meta.
Ogni cammino, per il sodale di Hegel, è un elemento di un disegno e trae il suo senso dalla sua relazione con tutti gli altri percorsi, le strade della vita sono come le linee tracciate con un lapis su di un foglio bianco, allontaniamo lo sguardo, per qualche altra incombenza, ed ecco apparire un volto, un albero, quel volto, quel fiore.
Ma chi puó veder il disegno della vita?Il Folle della Torre e il Grande Sceicco si guardano per un istante nel sogno di queste righe.
genseki
La sosta e il cammmino
Quando lungo il tuo cammino ti avvicini ad una una stazione esclamando: “Finamlmente ho raggiunto la mia meta!” ecco che, proprio allora, una nuova strada si apre davanti a te. Ti procuri le provviste necessarie ad un nuovo viaggio e parti. Non c'è nessuna stazione , sul tuo cammino che tu non accolga dicendo: “Alla buon'ora ho guadagnato la mia meta”. Quando la raggiungi davvero, tuttavia, non trascorrerá molto tempo prima che tu decida di metterti in viaggio ancora una volta”
Futuhat
Trad. genseki
lunedì, gennaio 28, 2008
Ruh e nafs
La dialettica di nafs e ruh è fondamentale nella metafisica e nella spiritualitá islamiche. I brani che seguono sono parti di un'analisi della nafs, della ruh e del loro ruolo nel sufismo mistico condotta da Abdelmuninn Aya, che mi pare essere, oggi, uno dei filosofi più liberi e interessanti del pensiero neo-andalusì.
I concetti di nafs e ruh hanno corrispetivi scolastici: intellectus agens, intellectus possibilis e possono essere utilmente posti a confronto con la coppia dialettica intelletto/ragione in Hegel. Una mappa della analogie e delle differenze debe essere ancora tracciata
genseki
La ruh è il soffio di vita nell'uomo, appartiene ad Allah ma vivica l'uomo mentre dura la sua esistenza temporale in lui. In quanto ruh non giunge mai a far parte dell'uomo. È come la pioggia che cade dal cielo e feconda la terra al suo passaggio, ma che quando è tempo evapora di nuovo senza portare con sè la terra che ha irrigato.
Che funzione compie la ruh? Animare gli esseri viventi. Tutti. La ruh è la vita. L'uomo confonde la presenza di questa ruh dentro di sè e crede che il lui abiti Allah. La ruh, tuttavia non è Allah, e non sará mai proprietá dell'individuo, bensì da Allah viene ad Allah fa ritorno. ... Tu vivi grazie alla ruh, peró la ruh non è parte di te; ti muovi, vivi e i sviluppi grazie ad essa, ma non puoi dire la mia ruh come, invece, puoi dire la mia nafs. Con ragione puoi dire che la tua nafs è tua perchè essa muore con te; l'uomo non si divide in ruh, nafs e corpo, bensì è solo un corpo attivato dalla ruh di Allah e che in funzione delle proprie necessitá materiali va forgiando la propria nafs.
Il sentimento di se stessa che ha ogni creatura, e che nell'Islam si chiama nafs non è una invenzione perversa della natura.
(...) In realtá non ci sono “invenzioni perverse” nella natura. La nafs è la maniera di organizzare l'esistenza in modo che ogni cosa badi a se stessa- Quando un shaij consiglia qualcuno di far scomparire la propria nafs, in realtá gli sta chiedenso di dare compimento alla necessitá della sua natura di estendere i limiti del suo “io” -quello che lo proccupa, che ama, per cui morirebbe – tanto lontano quanto gli paia possibile. Perché la vita altruistica di quelli che vivono per gli altri non è altro che un “io” grande come tutta la societá, e portato ancora piú avanti, non è altro che identificare la propria nafs con l'unitá fondamentale della natura – che chiamiamo Allah – è l'unione mistica. Il mistico non è l'uomo che, arrivato a un certo punto della sua vita, abbia cominciato a distruggere il proprio “io” come falso e veicolo di tutti gli errori e di tutti i vizi.
In primo luogo, che l'uomo abbia coscienza di se non è falso e non è erroneo che l'uomo creda nella realtá della sua nafs, come la foglia di un albero non si sbaglierebbe se avesse coscienza di essere una foglia. La nafs non è una struttura illusoria della realtá. Questa è la differenza tra l'induismo e l'Islam. La foglia è altrettanto reale dell'albero di cui fa parte. Questo non vuo dire che la foglia pensante che abbiamo posto come esempio non abbia una comprensione di se stessa piú ampia, una comprensione completa, nel tutto in cui si trova. L'albero, peró, non è più vero della foglia. Di piú, ancora, l'albero è reale perché sono reali le sue foglie, le sue radici, i suoi rami de i suoi fiori. Ció che ci porta a considerare l'Uno e il Molteplice, Allahu Ahad e le sue manifestazioni nell'esistenza, come punti di vista differenti nel considerare il reale. In secondo luogo, gli errori e persino le cattiverie che comette la creatura non sono da attribuirsi alla sua nafs. Il danno che, con questi atti, la creatura fa a se stessa non è causato dal fatto che l'uomo obbedisce agli impulsi della sua nafs ma perché confonde ciò che gli giova con ciò che lo pregiudica. La funzione della nafs non è sapere ció che conviene alla creatura, per questo essa ha un cuore, è conseguire per la creatura ció ch'essa pensa le convenga. Per questo un uomo con un cuore sano che obbedisca alla sua nafs non si sbaglierá.
...
Ciò che esiste – la manifestazione di Allah – si organizza mediante la divisione in individualitá, ciascuna delle quali si occupa di preservare la sua parcella di esistenza. Il mistico non fa eccezione. Non cerca di destrutturare l'esistente per mezzo di quella specie di boicottaggio ontologico che è l'abolizione del proprio io. Al contrario il mistico è l'espressione piú alta della legge di Allah nella natura.
Il cui compito dalla cellula fino all'uomo è di estendere l' “io” tanto quanto possibile. L'obiettivo del mistico è il tawhid che non è un pensiero o una credenza ma una missione: rendere l'uno possibile. La missione del mistico consiste nell'essere parte dell'esistenza che , ritornando continuamente verso Allah realizza la coscienza dell'unitá del tutto. La sua missione è essere gli occhi di Allah e le sue orecchie, e le sue mani come ci ricorda lo hadith qudsi.
Fondamentalmente il mistico non è qualcuno che abbia distrutto il proprio “io”, la sua unitá come essere vivente, ma al contrario: con il contatto con Allah la creatura diventa piú sana, piú allegra, piú forte e maggiormente capace di amore sociale, famigliare, ecologico e dell'amore del propro corpo
Il mistico è l'uomo perfetto in quanto è la massima espressione di ció che organizza l'esistente: l'io che distingue un essere dall'altro e che differenziando le parti dal tutto lo rende possibile. Senza comprendere l'io non si puó comprendere la Natura e neppure intuire che siamo in Allah.
Si dice spesso che il mistico è colui che cerca, risalendo a ritroso il cammino percorso, di distruggere la nafs costruita da quando era bambino fino all'etá adulta, di ritornare all'innocenza. Ma il mistico non distrugge nulla. Chi sente la forte pulsione di ritornare a Allah si costituisce in quel punto della natura dove la nafs non si trattiene nei limiti del “mio” ma prosegue oltre, fino all'unitá che ingloba il cosmo intero.
Infatti tutte le espressione di nafs sono mezzi differenti con cui l'individuo protegge quello che esiste. Protegge se stesso, la sua famiglia, la sua societá e rende possibile il tawhid.
Le citazioni qui sopra sono tratte da:
“Opuscolo contro l'anima” di Abdelmuninn Aya.
Trad genseki
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