giovedì, agosto 02, 2007

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La Cattedrale III


La fortezza, l'armatura

La Cattedrale è paragonata a una fortezza e persino all'armatura i un cavaliere di quella crociata predicata da S. Bernardo proprio nella Cattedrale. Si tratta di una “Lorica” l'armatura magica fatta di orazioni e di scongiuri che avrebbe dovuto proteggere il cristiano che se en serviva. La cattedrale è una “Lorica” ma non una “Lorica” di parole o di altri segni verbali, quanto piuttosto di pietre e di segni architettonici:

“Ritornava a casa sua per mangiare qualche cosa e, abracciando, con un'ultimo sguardo, la chiesa ammirevole, ricapitolando i simulacri guerrieri così come apparivano: le forme di scudo dei rosoni, di lama di spade dei vetri , i contorni dei caschi e degli elmi delle ogive, la somiglianze di alcune vetrate in grisaglia filigranata di piombo con le tuniche di maglia di ferro dei combattenti, e, fuori, contmplando uno dei campanili intagliato a lamelle come una pigna, come una cotta di maglia, si diceva che pareva davvero che “gli ospiti del buon Dio” avessero preso in prestito i loro modelli ai bellicosi arnesi dei cavalieri; che avessero voluto perpetuare come per perpetuare il ricordo delle loro imprese, raffigurando dovunque l'immagine ingrandita di quelle armi di cui i Crociati si cinsero quando si imbarcarono per partire alla riconquista del Santo Sepolcro".

genseki

mercoledì, agosto 01, 2007

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Son così fresche le foglie d'acacia

Son così fresche le foglie d’acacia
Son così verdi che si fanno azzurre
Scorrono come l’acqua dentro di noi
Quando ti stringo e mi stringi
E siamo vene d’acqua celeste
Linfa d’autunno che si fa bagliore
Teneri e verdi
Scorriamo uno nell’altro
Fatti a vicenda alveo e corrente.
Son così verdi le foglie d’acacia
Son così fresche che si fanno azzurre
Quando corteccia avvolgi la mia linfa
Ed io son foglia delle tue pupille
E siamo luce che trascorre il fiume
Alto e sottile delle nostre vene.
Freschi esistiamo come foglie verdi
Tremo al tuo vento
Fremi alla mia brezza
Siamo fronde d’acacia nell’autunno
Gocce di linfa
Dei rami della pelle.
Son così freschi e verdi i nostri corpi
Son così freschi che si fanno azzurri
Se nella trasparenza ci mutiamo
Intrecciando le dita alle pupille
Attraversati di stupore azzurro:
Esserci
Nudi
Freschi come foglie.

genseki
1998

Pino negral

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Scienza della Logica


Quando delle cose diciamo che son finite, con ciò si intende che non solo hanno una determinatezza, che non solo hanno la qualità come realtà e determinazione, che è in sé, non solo son limitate, così da aver poi un esserci fuor del loro limite, ma che anzi la lor natura, il loro essere, è costituito dal non essere. Le cose finite sono, ma la loro relazione a se stesse e che si riferiscono a se stesse come negative, che appunto in questa relazione a sé si mandano al di là di se stesse, al di là del loro essere. Esse sono, ma la verità di questo essere è la loro fine. Il finito non solo si muta, come il qualcosa in generale, ma perisce; e non è già soltanto possibile che perisca, quasi che potesse essere senza perire, ma l’essere delle cose finite, come tale, sta nell’avere per loro essere dentro di sé il germe del perire: l’ora della nascita è l’ora della lor morte.

*

Il pensiero della finità delle cose porta con sé questa mestizia, perché una tale finità è la negazione qualitativa spinta al suo estremo, perché alle cose, nella semplicità di codesta determinazione, non è più lasciato un essere affermativo distinto dalla loro destinazione a perire.
*

La finità è la negazione come fissata in sé, epperò si erge rigida di contro al suo affermativo. Quindi è che il finito si lascia bensì portar nella corrente; esso consiste appunto in questo, nell’esser destinato alla sua fine, ma soltanto alla sua fine; - anzi è il rifiuto di lascairsi affermativamente portare al suo affermativo, all’infinito, di lasciarsi unire con quello. Il finito è dunque posto inseparabilmente dal suo nulla, ed ogni conciliazione col suo altro, coll’affermativo, è così impedita.
La destinazione delle cose finite non è nulla più che la lor fine.

*
Il finito si distrugge in sé ma risolve effettivamente la contraddizione, non già ch’esso sia soltanto caduco e che perisca, ma che il perire, il nulla, non è l’ultimo, ossia il definitivo, ma perisce.
Hegel
Da: La scienza della Logica

lunedì, luglio 30, 2007

Rivelazioni

Il Corano non è un libro che parla di Allah, bensì un libro che lo rivela, cioè che lo mostra, segnala la sua direzione e riconduce chi lo recita alle sue proprie origini, là dove tutto si incontra di nuovo.

La Rivelazione, però, non è solo il Corano, Il Corano è solo l'esterno della Rivelazione, una delle sue manifestazioni storiche, in realtá, tutto ció che è, è Rivelazione, Sura di un Corano non scritto.

Il Corano si dischiuse in Mohammad perchè incontrò un cuore vuoto.


Gonzalez e Haya
Islam para ateos
trad genseki

domenica, luglio 22, 2007

VIVIT

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VIVIT

Sopra ognuna delle figure in bassorilievo
È incisa la parola VIVIT
La si legge per tre volte
VIVIT VIVIT VIVIT
Come uno scongiuro
Eppure le forme limate dei volti
Nella pietra non sono nemmeno più umane
Non ci parlano piú di affetto o di attitudini
Ma di erosione, di disgregazione
del succedersi di temperatura e di umiditá,
Forse anche di reazioni chimiche e di batteri.
Quello che ci racconta la pietra
È un racconto appunto minerale,
Un racconto che non coincide
Con la dimensione dell'umano,
E quello che resta di volto, nelle pietre
È, proprio per questo, ancora piú morto.
La pretesa che la parola VIVIT
Grida ai nostri occhi
Rende la morte ancora piú ignobile
Anzi, è questa pretesa che la rende ignobile
Là dove quelli che furono volti
Si rivelano parti della storia minerale
Il loro essere scolpiti vicenda meccanica
Della materia
Il loro essere ricordo
Sfigurato dalla volontá di persistenza
Di separatezza dalla forza vitale
Delle pietre del vento, dell'acqua e dei batteri
Delle molecole e delle stelle
Delle crepe e degli insetti
Un dolore acuto ci rende liberi dalla paura
Dalla paura della vita giocosa delle pietre
Delle loro lente metamorfosi che piegano il tempo
Fino a farne la culla della vita.

venerdì, luglio 20, 2007

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Il Canto dell'Autunno

Il canto del nostro autunno
Era un canto terso d’attesa
Un canto di cristallo di speranza
Fresco come l’aria del mattino
Era un vetro venato di voli
Nel cielo di nuvole accartocciate
Dall’estinguersi ocraceo della luce
Un canto senza tamburi
Ma con vuoti di basso profondo
Come gesto d’intelletti senza forma
Intenti a rispecchiarsi negli stagni
Oh era un canto di spine
Un canto di rose di carta velina
Di corteccia svilita dalla pioggia
Perché noi sapevano cos’era il fango
Allora sapevamo che era reale
Che nel fango marciscono i frutti
E le piume dei voli defunti
Ed anche per questo cantavamo
Cantavamo un canto d’autunno
Un canto che abbiamo dimenticato
Latrando catarrosi dietro ai claxon
Delle vecchie berline giapponesi.

genseki
10/10/00 21.35

giovedì, luglio 19, 2007




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La Cattedrale II


Nel terzo capitolo la comparazione tra lo spazio naturale della foresta e lo spazio sacro della chiesa diventa sempre piú chiara, l'intuizione di Chateabriand sull'origine del gotico, è sviluppata in modo analitico e estetico minuzioso:

"Senza sminuire la teoria che consiste nel vedere in questo problema soltanto una questione materiale, tecnica, di stabilitá e di resistenza, una invenzione dei monaci che avevano scoperto un bel giorno che la soliditá delle loro volte sarebbe stata meglio assicurata dalla forma a mitra dell'ogiva che da quella mezza luna dell'arco pieno, non sembra che la dottrina romantica, la dottrina di Chateaubriand di cui ci si è fatto beffe sia la meno complicata di tutte, la piú naturale, insomma la piú evidente e la piú giusta?
Per me è quasi certo, proseguí Durtal, che l'uomo ha trovato nei boschi la forma tanto discussa della navata e dell'ogiva. La piú stupefacente cattedrale che la natura ha costruito, da se stessa, prodigandovi l'arco spezzato dei suoi rami, si trova a Jumièges. Là, accanto alle magnifiche rovine dell'abazzia che ha conservato intatte le sue due torri e la cui navata scoperchiata e ricoperta di fiori si collega ad un coro di fronde circondato da un'abside di alberi, tre immensi viali, bordati di tronchi secolari, si estendono in linea retta; uno, quello del mezzo, molto largo, gli altri due, che lo affiancano, piú stretti; essi disegnanono l'immagine astratta di una nave e delle sue fiancate, sostenute da pilastri neri e avvolte da fasci di foglie. L'ogiva vi è chiaramente riprodotta dai rami che si toccano, così come le colonne che la sostengono sono imitate dai grandi tronchi. Bisogna vederla d'inverno, con la volta ad arco spolverata di neve, i pilastri bianchi come tronchi di betulla, per comprendere l'dea originaria, il seme dell'arte che ha potuto far sorgere lo spettacolo di simili viali, nell'animo degli architetti che sgrossarono, poco a poco, il romanico e finirono per sostituire completamente l'arco acuto all'arco pieno.
E non vi sono parchi, piú o meno antichi dei boschi di Jumièges, che non riproducano con altrettanto esattezza gli stessi contorni; ma quello che la natura non poteva dare, era l'arte prodigioso, la scienza simbolica profonda, la mistica appassionata e placida dei credenti che edificaron le cattedrali. Senza di loro, la chiesa restata allo stato bruto, così come la natura l'aveva concepita, sarebbe rimasta un abbozzo senz'anima, un rudimento; essa era l'embrione di una basilica, cangiante secondo le stagioni e i giorni, inerte e viva al tempo stesso, animandosi al suono dell'organo del vento, che deformava il tetto mobile dei suoi rami, al suo solo spirare, era inconsistente e spesso taciturna, assolutamente sottomessa alle brezze, serva rassegnata dell piogge; non era stata illuminata, insomma, che da un sole che setacciavatra le losanghe e i cuori delle foglie, così come tra le maglie delle piastrelle verdi. L'uomo, con il suo genio, raccolse questi sparsi bagliori, li condensò in rosoni e in lame, li riversó nei viali di bianchi fusti; e persino con il tempo peggiore, le vetrate risplendettero, imprigionarono fino alla piú piccola luce del tramonto, rivestirono il Cristo e la Vergine degli splendori piú favolosi, quasi giunsero a realizzare su questa terra il solo abbigliamento che potesse convenire ai corpi gloriosi, vestiti diversi di fiamme!"

In questo testo non è solo la cattedrale che riproduce la foresta aggiungendo la profonditá simbolica e mistica che manca alla natura, ma è la natura stessa che cerca di riprodurre la Cattedrale. Si genera u movimento circolare che va dalla foresta alla cattedrale e dalla cattedrale alla foresta il cui asse mediano è costutuito dal simbolo.

martedì, luglio 17, 2007

Añoranzas

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Prossimitá

Ogni lacrima è un grappolo d’occhi.

*

Com’è lontano il ramo
Del melo spezzato
Il suono liquido dell’organo
L’alito acre della marmitta
Il tavolo di legno della trattoria!
Con un dito cancello
Il semicerchio rosa
Tracciato dal bicchiere di vino
Come siamo lontani
Seduti faccia a faccia
Come siamo vicini
In distinto tramonto!

*

Essere il bastone spezzato
Nel riflesso dell’acqua
Immerso in questo tempo
D’implacabile verde
Eppure dritto nell’attimo -
Emerso.

*

Mi parli della tua gatta
Ma a quale distanza
Sono le tue parole dalla gatta?
Più morte delle tegole rosse
Su cui danza con passo straniero
Le nostre parole
Più prossimo al suo riflesso
Sui vetri dell’abbaino
Il suo essere viva
Di morto istante a istante morto.

*

Le nostre parole
Son cerchi concentrici
Sul lago dell’essere prossime
Ogni cerchio si allontana
Nell’onda del successivo.

*

Da silenzio a silenzio
Gocciola la musica
Quasi immobile
Nel tempo dell’udito.

*

E le lacrime?
Riflettono gli occhi
In schegge ricurve
Di tempo.

genseki
12/07/04 23.50

mercoledì, luglio 11, 2007

Historia y naturaleza

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La fine della Storia


Schiller
Sul gioco
Dalle “Lettere sull'Educazione estetica dell'uomo”
Lettera 27



L'animale lavora quando la molla che produce la sua attività è una privazione, e gioca quando questa molla é l'abondanza di forze, quando la sovrabbondanza della vita lo sprona all'attivitá. E persino nella natura inanimata si manifestano il lusso della forza e la vaghezza della determinazione che si potrebbero chiamare gioco.
*
L'uomo dovrebbe giocare soltanto
con la bellezza.
*
L'uomo gioca soltanto quando è umano nel senso pieno della parola, e è completamente umano solo quando gioca.
*

Questi testi di Schiller sono, presumibilmente, il punto di origine della tesi, oggi tanto discussa della fine della storia.
Il lavoro dell'uomo, spinto dalla privazione: privazione dei mezzi di sussistenza e di riproduzione, privazione della serenitá, privazione del senso della vita, privazione della libertá è il fattore che genera la storia. In questo senso Schiller è stato letto e approfondito da Hegel e da Hegel trasmesso al XX secolo e a Kojève che lo ha divulgato.
La storia è il prodotto dell'attività umana e come tale assolutamente perspicua per la conoscenza umana. Non v'è nessuna difficoltá per l'uomo a conoscere quello che ha prodotto egli stesso, o almeno non dovrebbe esservene alcuna, in linea di principio.co
Tuttavia il processo storico non è infinito, dipende dalla privazione e trova il suo limite nell'abbondanza.
Quando la privazione dei mezzi di sussistenza, quella della libertá e con esse tutte le altre privazioni si sono trasformate nelle rispettive abbondanze e quindi il lavoro non é piú necessario, necessariamente viene a cessare anche la storia.
Secondo Hegel, poi, l'uomo producendo la storia come prodotto della propria attivitá produce anche se stesso in quanto uomo.
Allora, se la storia cessa, in qualche modo cessa anche l'uomo.
Tuttavia, che cosa sotituisce l'attivitá è il lavoro quando l'abbondanza sostituisce la privazione.
Secondo Schiller è il gioco.
E qui incontriamo una contraddizione: Schiller dice, infatti, che l'uomo gioca solo quando è umano, ma se il gioco corrisponde all'abbondanza e se l'abbondanza corrisponde alla fine della storia e quindi alla fine dell'uomo come è possibile che il gioco sia così profondamente umano come Schiller lo pretende?
La contraddizione è già in Schiller, palese, quando egli afferma che l'animale gioca per l'abbondanza di forze e persino la natura inanimata pare giocare nel lusso delle forze che la innervano.
No il gioco non è umano.
In questo senso Kojève intendeva l'animalizzazione americana della fine della storia.
L'idea di animalitá di Kojève non risale a Hegel ma a Schiller. E da Schiller è giunta fino a Fukuyama.
Vi è, però, una dimensione del gioco che pare situarsi oltre l'animalitá: la bellezza.
Schiller dice che l'uomo dovrebbe giocare soltanto con la bellezza e dicendo questo delimita due campi: l'animalitá e la postumanitá.
Kojève chiamava la postumanità snobismo e la considerava realizzata nel Giappone dei Tokugawa.
Marx chiamava la postumanitá comunismo.
Snobismo è una sprezzatura tipica dell'acida arroganza di Kojève: nel gioco, infatti l'animale, l'uomo e la natura inanimata si collocano in una relazione differente da quella storica, ridefiniscono, nella bellezza i reciproci rapporti. Il terrore dello tsunami è cieco come quello delle guere neoimperialiste. È il terrore del gioco. È il volto spietato della bellezza che resta una possibilitá.
Un altro gioco è il sesso che si relaziona con le forme animali, liberate dalla necessitá.
In esso, forse, l'animalitá realizza la sua perfezione dialettica, il suo fine.
Ma le nostre menti si muovono come le onde che giocano con la schiuma il gioco della dinamica di forza e di luce.

lunedì, luglio 09, 2007

Dialettiche

Omne enim quod intelligitur et sentitur
Nihil aliud est nisi non apparentis apparitio,
Occulti manifestatio,
Negati affirmatio,
Incomprehensibili comprehensio,
Inefabilis fatus,
Inacessibilis acessus,
Inintelligibilis intellectus,
Incorporalis corpus,
Superessentialis essentia,
Informis forma,
Incommensurabilis mensura,
Innumerabilis numerus,
Carentis pondere pondus,
Spiritualis incrassatio,
Invisibilis visibilitas,
Illocalis localitas,
Carentia temporis temporalitas,
Infiniti diffinitio,
Incircumscripti circumscriptio.

Eriugena
Periphyseon III, 4, p2 CXII

***

Ogni cosa che si può comprendere o percepire con i sensi
Altro non è che apparizione di ciò che non appare,
Manifestazione dell'occulto,
Affermazione di ció che è negato,
Comprensione dell'incomprensibile,
Voce dell'ineffabile,
Porta del'inaccesibile,
Intellezione dell'inintellegibile,
Corpo dell'incorporeo,
Essenza del superessenziale,
Forma dell'informe,
Misura dell'incommensurabile,
Numero dell'nnumerabile,
Peso di ciò che non ha peso,
Corporalitá dello Spirito,
Visibilitá dell'invisibile,
Sito del non localizzabile,
Temporalitá dell'intemporale,
Definizione dell'infinito,
Circonferenza di ció che non si puó circoscrivere.

*

Ecco un inno apofatico, in cui ogni termine di una coppia pare annullare l'altra, pare negarla, togliendo così alla definizione ogni senso possibile.

Questo è quello che si coglie ad una prima lettura e il testo assume le caratteristiche di un ieratico sacrificio del linguaggio nel suo approssimarsi all'assoluto. Il linguaggio al cospetto di Dio brucia come la farfalla del racconto sufico. Le ceneri dell'insignificanza restano le sole tracce dell'unione, appunto, ineffabile.
Un'altra lettura, però, è possibile perché se i termini di ogni coppia si annullano reciprocamente la loro contiguitá, invece, afferma.

Un termine afferma un altro nega quello che è affermato dal primo, il risultato non é nulla ma l'unione di affermazione e negazione rappresentata dal verbo est in un'unitá superiore.
I due termini, infatti si negano, o, almeno uno nega l'altro, ma il verbo est la copula che li unisce, non è negata.
L'essere (est) è il nesso tra affermazione e negazione e non si identifica nè con una nè con l'altra, è superiore ad entrambe.

Essere è passaggio dall'affermazione alla negazione e dalla negazione all'affermazione. Ecco che la teologia apofatica si rivela una teologia dialettica.
Una dialettica luminosa nata tra le favole e i boschi dell'Irlanda nella pioggia e nella nebbia ad opera di un monaco che sará ucciso dai suoi stessi studenti e le cui opere saranno maledette dalla Chiesa per lunghi secoli. Oggi non so.
È una dialettica romanica coincisa e squadrata che profuma della libertá della foresta che si divincola appena dallo scongiuro e dell'incantesimo come una lorica di luce e clorofilla.