Ah! Tutto questo è proprio un gran morire
Un morire di morte che ci muore
CHe ci muore a morire d'ogni morte
Che ci tonde la chioma foglia a foglia
Che ci spoglia e disgrega in muta argilla
Come si sfoglia ora la parola
E ne resta la pala che si affonda
La dove a morte ognun ognora muore.
genseki
giovedì, settembre 30, 2010
Decostruendo Lutero
Come potevamo smontare Lutero
Considerare la sua mascella come un edificio
Fare degli occhi una cavitá urbana
Una grotta metropolitana
Come stanare i topi della sua incoscienza
Installati, noi peccatori
Sotto la pioggia detergente
Di sangue ossidato, di origano e grano
Grano cosí biondo spighe su spighe immense biche?
Tutto tutto dipendeva dai suoi occhi
Maturati come vecchie prugne e il calamaio di Worms
Statico il suo passo, dipanava il sentiero
Con il suo incedere retto
Per furibonde diagonali, strabica rotta
Senza collo: capitello troppo rigido
Nella fotografia con il saio - colpa dell'amido -
La corda del mugnaio cingendo: l'orribile latrato
Del cavallo che scivola sull'argilla - finalmente -
Sull'argilla? No non era Guernica!
Fu gesucristo che parló con i suoi tomi
Che svolazzavano come pipistrelli
Sotto le volte della biblioteca,
Il tessuto delle sue mele, il moccolo
Mentre lui strillava parole scheggiate
all'immensa vetrata della Fede.
genseki
Considerare la sua mascella come un edificio
Fare degli occhi una cavitá urbana
Una grotta metropolitana
Come stanare i topi della sua incoscienza
Installati, noi peccatori
Sotto la pioggia detergente
Di sangue ossidato, di origano e grano
Grano cosí biondo spighe su spighe immense biche?
Tutto tutto dipendeva dai suoi occhi
Maturati come vecchie prugne e il calamaio di Worms
Statico il suo passo, dipanava il sentiero
Con il suo incedere retto
Per furibonde diagonali, strabica rotta
Senza collo: capitello troppo rigido
Nella fotografia con il saio - colpa dell'amido -
La corda del mugnaio cingendo: l'orribile latrato
Del cavallo che scivola sull'argilla - finalmente -
Sull'argilla? No non era Guernica!
Fu gesucristo che parló con i suoi tomi
Che svolazzavano come pipistrelli
Sotto le volte della biblioteca,
Il tessuto delle sue mele, il moccolo
Mentre lui strillava parole scheggiate
all'immensa vetrata della Fede.
genseki
Il battello ebbro
Dedicato alla Gaviota de Solentiname
Mentre andavo scendendo per i fiumi impassibili
Notai che i battellieri non mi guidavan piú:
Pelle rossa chiassosi gli avevan bersagliati
Per inchiodarli nudi a pali colorati.
Io che non sopportavo di avere un equipaggio.
Carico di frumento e cotone britannico
Perduti i battellieri con il loro baccano,
I fiumi mi permisero di scendere a mio arbitrio.
Nello sciabordio furioso dei marosi,
Per un inverno intero, piú sordo dei cervelli
Dei lattanti io corsi! E salpate penisole
Non subirono mai un simile saccheggio.
Tempeste benedissero i risvegli marini.
Più leggero d'un tappo ho danzato sui flutti,
Che eternamente portano le salme delle vittime
Dieci notti lontano da ogni faro sciocco!
Piú dolce che ai bambini polpa aspra di pomi
Penetró l'acqua verde il mio guscio d'abete
Lavando macchie azzurre di vino vomitato,
Trascinando con se il timone e gli uncini.
Da allora mi bagnai nel poema del mare
il mare lattescente come infuso di astri.
Che azzuri verdi inghiotte; ove discende a volte
Un pallido annegato dall'aspetto pensoso
Ove di colpo vanno colorando gli azzurri,
Deliri e ritmi lenti nel rutilante giorno,
Piú forti che lo spirito piú vasti che le lire
I rossori d'amore in amaro fermento!
So i cieli crepati in lampi, e le trombe
E risacche e correnti: e poi la sera e l'alba,
Come se di colombe fosse un popolo in volo,
E qualche volta ho visto ció che l'uomo ha creduto!
Ho visto soli bassi, macchie d'orrori mistici,
Illuminare lunghi coaguli violetti,
Simili ad attori di drammi antichissimi
Flutti che allontanavano brividi di persiane!
Sognai la notte verde delle nevi abbaglianti,
Salir fottendo agli occhi dei mari con lentezza,
E la circolazione delle linfe inaudite,
Giallo risveglio azzurro di fosfori cantori!
Ho seguito, per mesi le transumanze isteriche
Delle onde che andavano assaltando i frangenti,
Non pensando che i piedi splendenti delle Vergini
Possan forzare il muso degli oceani ormai bolsi!
Ho urtato, credetemi! Le Floride incredibili
Che mescolano ai fiori gli occhi delle pantere
Dalla pelle di uomo! Gli arcobaleni tesi
A glauche mandrie sotto l'orizzonte marino!
Ho visto fermentare maree enormi, nasse
Ove un Leviatano marcisce tra le canne!
E franare le acque in mezzo alla bonaccia,
Le lontananze ai vortici cadendo in catarratta!
Ghiacciai, soli d'argento, onde madreperlacee
Cieli in fiamme e relitti in fondo ai golfi bruni
Ove le pulci rodono giganteschi serpenti
Che in profumi si disfano sugli alberi contorti!
O quanto avrei voluto far vedere ai bambini
Dorate in flutti azzurri, canori pesci d'oro!
In secca mi cullai tra le schiume fiorite,
Ed i venti ineffabili mi prestaron le ali.
A volte, stanco martire dei poli e delle zone
Il singhiozzo del mare m'addolciva il rullío
Fiori d'ombra innalzando dalle gialle ventose
Che in ginocchio accettavo come se fossi donna...
Penisola scotendo ai miei bordi le liti,
Escrementi d'uccelli stentorei d'occhi biondi.
Vogavo e nell'intrico del cordame allentato
Scendevan come gamberi gli affogati a dormire!
Or io battello perso nelle chiomate cale
Nell'etra senza voli gettato dal tifone,
Che i velieri anseatici e gli esploratori
Avrebbero sdegnato carcassa ebbra di acqua;
Libero, fumigante carco di brume viole
Che perforavo il cielo rossastro come un muro
Portando, confetture che adorano i poeti,
I licheni del sole e le muffe del cielo;
Che correvo, macchiato di lunule elettriche
Folla plancia, scortato dagli ippocampi neri,
Quando luglio abbatteva a secche scudisciate
I cieli ultramarini dai vortici infuocati;
Io che tremavo, udendo il gemito remoto
Della foia dei Behemot e degli spessi Maelstrom,
D'immobilitá azzurre eterno seguitore,
Io rimpiango l'Europa dai parapetti antichi!
Ho visto gli arcipelaghi siderali! Le isole
Dai cieli deliranti aperti al rematore:
In notti senza fondo forse dormi e ti esili,
O milione d'uccelli d'oro, o futuro vigore?
Davvero ho troppo pianto, mi straziano le albe
Atroce m'è ogni luna ed ogni sole amaro:
Mi gonfió l'acre amore di sonni inebrianti.
Che scoppi la mia chiglia! Voglio colare a picco!
Se desidero un'acqua d'Europa, è la pozzanghera
Algida, oscura, ove, nel vespro profumato
Un bimbo ,accoccolato, tristemente abbandona
Come farfalla in maggio un fragile battello.
Non posso piú bagnato dai languidi marosi,
Succhiare ancor la scia ai carghi del cotone,
Né attraversar l'orgoglio delle bandiere in fiamme,
Né nuotar sotto gli occhi orribili dei moli.
Arthur Rimbaud
Trad, genseki
Mentre andavo scendendo per i fiumi impassibili
Notai che i battellieri non mi guidavan piú:
Pelle rossa chiassosi gli avevan bersagliati
Per inchiodarli nudi a pali colorati.
Io che non sopportavo di avere un equipaggio.
Carico di frumento e cotone britannico
Perduti i battellieri con il loro baccano,
I fiumi mi permisero di scendere a mio arbitrio.
Nello sciabordio furioso dei marosi,
Per un inverno intero, piú sordo dei cervelli
Dei lattanti io corsi! E salpate penisole
Non subirono mai un simile saccheggio.
Tempeste benedissero i risvegli marini.
Più leggero d'un tappo ho danzato sui flutti,
Che eternamente portano le salme delle vittime
Dieci notti lontano da ogni faro sciocco!
Piú dolce che ai bambini polpa aspra di pomi
Penetró l'acqua verde il mio guscio d'abete
Lavando macchie azzurre di vino vomitato,
Trascinando con se il timone e gli uncini.
Da allora mi bagnai nel poema del mare
il mare lattescente come infuso di astri.
Che azzuri verdi inghiotte; ove discende a volte
Un pallido annegato dall'aspetto pensoso
Ove di colpo vanno colorando gli azzurri,
Deliri e ritmi lenti nel rutilante giorno,
Piú forti che lo spirito piú vasti che le lire
I rossori d'amore in amaro fermento!
So i cieli crepati in lampi, e le trombe
E risacche e correnti: e poi la sera e l'alba,
Come se di colombe fosse un popolo in volo,
E qualche volta ho visto ció che l'uomo ha creduto!
Ho visto soli bassi, macchie d'orrori mistici,
Illuminare lunghi coaguli violetti,
Simili ad attori di drammi antichissimi
Flutti che allontanavano brividi di persiane!
Sognai la notte verde delle nevi abbaglianti,
Salir fottendo agli occhi dei mari con lentezza,
E la circolazione delle linfe inaudite,
Giallo risveglio azzurro di fosfori cantori!
Ho seguito, per mesi le transumanze isteriche
Delle onde che andavano assaltando i frangenti,
Non pensando che i piedi splendenti delle Vergini
Possan forzare il muso degli oceani ormai bolsi!
Ho urtato, credetemi! Le Floride incredibili
Che mescolano ai fiori gli occhi delle pantere
Dalla pelle di uomo! Gli arcobaleni tesi
A glauche mandrie sotto l'orizzonte marino!
Ho visto fermentare maree enormi, nasse
Ove un Leviatano marcisce tra le canne!
E franare le acque in mezzo alla bonaccia,
Le lontananze ai vortici cadendo in catarratta!
Ghiacciai, soli d'argento, onde madreperlacee
Cieli in fiamme e relitti in fondo ai golfi bruni
Ove le pulci rodono giganteschi serpenti
Che in profumi si disfano sugli alberi contorti!
O quanto avrei voluto far vedere ai bambini
Dorate in flutti azzurri, canori pesci d'oro!
In secca mi cullai tra le schiume fiorite,
Ed i venti ineffabili mi prestaron le ali.
A volte, stanco martire dei poli e delle zone
Il singhiozzo del mare m'addolciva il rullío
Fiori d'ombra innalzando dalle gialle ventose
Che in ginocchio accettavo come se fossi donna...
Penisola scotendo ai miei bordi le liti,
Escrementi d'uccelli stentorei d'occhi biondi.
Vogavo e nell'intrico del cordame allentato
Scendevan come gamberi gli affogati a dormire!
Or io battello perso nelle chiomate cale
Nell'etra senza voli gettato dal tifone,
Che i velieri anseatici e gli esploratori
Avrebbero sdegnato carcassa ebbra di acqua;
Libero, fumigante carco di brume viole
Che perforavo il cielo rossastro come un muro
Portando, confetture che adorano i poeti,
I licheni del sole e le muffe del cielo;
Che correvo, macchiato di lunule elettriche
Folla plancia, scortato dagli ippocampi neri,
Quando luglio abbatteva a secche scudisciate
I cieli ultramarini dai vortici infuocati;
Io che tremavo, udendo il gemito remoto
Della foia dei Behemot e degli spessi Maelstrom,
D'immobilitá azzurre eterno seguitore,
Io rimpiango l'Europa dai parapetti antichi!
Ho visto gli arcipelaghi siderali! Le isole
Dai cieli deliranti aperti al rematore:
In notti senza fondo forse dormi e ti esili,
O milione d'uccelli d'oro, o futuro vigore?
Davvero ho troppo pianto, mi straziano le albe
Atroce m'è ogni luna ed ogni sole amaro:
Mi gonfió l'acre amore di sonni inebrianti.
Che scoppi la mia chiglia! Voglio colare a picco!
Se desidero un'acqua d'Europa, è la pozzanghera
Algida, oscura, ove, nel vespro profumato
Un bimbo ,accoccolato, tristemente abbandona
Come farfalla in maggio un fragile battello.
Non posso piú bagnato dai languidi marosi,
Succhiare ancor la scia ai carghi del cotone,
Né attraversar l'orgoglio delle bandiere in fiamme,
Né nuotar sotto gli occhi orribili dei moli.
Arthur Rimbaud
Trad, genseki
lunedì, settembre 27, 2010
Quello che restava di te
Di te non restava pietra di denti
Moneta di articolazione né sale
Scalza l'avevi scesa vertebra a vertebra
La divinazione dell'esoscheletro
E la spirale piú non era che polvere
Secco marcire asiutto compatire
La cuspide di bronzo, l'intelaiatura
Scricchiola pericolosamente
La cavitá oculare delle stelle
Lontana da qualunque vegetale-
genseki
Moneta di articolazione né sale
Scalza l'avevi scesa vertebra a vertebra
La divinazione dell'esoscheletro
E la spirale piú non era che polvere
Secco marcire asiutto compatire
La cuspide di bronzo, l'intelaiatura
Scricchiola pericolosamente
La cavitá oculare delle stelle
Lontana da qualunque vegetale-
genseki
Diana e il cardinale
Scostavi dall'assalto l'ampio volo
Con l'elitra, con l'altra mano
Con quello appena che restava della sguardo
Mandorla! Calmo come il lago
Lo sciame delle speranze, la fedeltá,
Latrano - dicevi con l'arco lunare
Minacciando cecitá ai discepoli,
Il cacciatore andava marcando
I suoi tarocchi uno per uno.
L'arco - dicevi non vedrá il mio seno
Costellazione della prima caduta
O cardinale sacro al sicomoro,
L'albero dalle bianche camicie
Macchia di sangue alla radice della neve
Al gelido fusto di screpolato candore
Scostavi con la mano il fragore degli occhi
Il coagulo del volo nel fantasma del tempo
L'abito cardinalizio rende impura la luna
Per il parto dell'albero che videro i tarocchi.
genseki
Con l'elitra, con l'altra mano
Con quello appena che restava della sguardo
Mandorla! Calmo come il lago
Lo sciame delle speranze, la fedeltá,
Latrano - dicevi con l'arco lunare
Minacciando cecitá ai discepoli,
Il cacciatore andava marcando
I suoi tarocchi uno per uno.
L'arco - dicevi non vedrá il mio seno
Costellazione della prima caduta
O cardinale sacro al sicomoro,
L'albero dalle bianche camicie
Macchia di sangue alla radice della neve
Al gelido fusto di screpolato candore
Scostavi con la mano il fragore degli occhi
Il coagulo del volo nel fantasma del tempo
L'abito cardinalizio rende impura la luna
Per il parto dell'albero che videro i tarocchi.
genseki
La morte di Dreiser Cazzaniga
Tra gli appunti del compianto Durfai acronico o ucronico amico di Dreiser Cazzaniga è stato trovato un foglietto che, in forza di un'annotazione sul retro, pare riferirsi agli ultimi minuti di vita del nostro Dreiser. Sono poche righe nel francese lievemente arcaico del Durfai che non oso tradurre per non rovinarne la bellezza appassita:
"Il avait les yeux hâvres et enfermés, la mâchoire inférieure couverte seulement d'un peu de peau paraissait s'être retirée, la barbe hérissée, le teint jaune, les regards lents, les souffles abattus. De sa bouche il ne sortait déjà plus de paroles humaines mais des oracles".
a cura di genseki
"Il avait les yeux hâvres et enfermés, la mâchoire inférieure couverte seulement d'un peu de peau paraissait s'être retirée, la barbe hérissée, le teint jaune, les regards lents, les souffles abattus. De sa bouche il ne sortait déjà plus de paroles humaines mais des oracles".
a cura di genseki
giovedì, settembre 23, 2010
Crocifissione
Da quando lo crocifissero il mare
Sulle ali viola, sugli spalti delle nubi
Sulle splendide visioni delle diatomee
Cominciarono a gocciolare furibondi
Estremi e cauti glauchi come fuchi
Da quelle mille ferite, dalle screpolature
Dagli iati come sbadiglio gli scampoli
Di tutti quei significati Era il simbolo
Finito di quell'infinito autunno in cui aggrapparsi
Al sonno marino, alla sera all'ocra dei boschi
Allo scorrere azzurro della selvaggina
Sui sentieri di muschio
Da quando lo crocifissero: il mare era tutto un calare
Di speranze dal nord di brandelli di lupi
Di zanne e ocarine e tutti quei ciondoli
come una ripida trina di schiuma laddove
Sfrangiata si spreca ogni altra possibile spiegazione
Che cosa spiegare? La solitudine
Il margine che confonde il nulla con l'altare?
Interrogare punteggiando le frasi con il sangue del mare
Mare incoronato di spine, una per ogni goccia
Flagellato di iodio e ferroso come qualsiasi altro deserto
Mare che crocifissero altri ad altre ali
Ancora piú in la di ogni possibile me stesso.
Sulle ali viola, sugli spalti delle nubi
Sulle splendide visioni delle diatomee
Cominciarono a gocciolare furibondi
Estremi e cauti glauchi come fuchi
Da quelle mille ferite, dalle screpolature
Dagli iati come sbadiglio gli scampoli
Di tutti quei significati Era il simbolo
Finito di quell'infinito autunno in cui aggrapparsi
Al sonno marino, alla sera all'ocra dei boschi
Allo scorrere azzurro della selvaggina
Sui sentieri di muschio
Da quando lo crocifissero: il mare era tutto un calare
Di speranze dal nord di brandelli di lupi
Di zanne e ocarine e tutti quei ciondoli
come una ripida trina di schiuma laddove
Sfrangiata si spreca ogni altra possibile spiegazione
Che cosa spiegare? La solitudine
Il margine che confonde il nulla con l'altare?
Interrogare punteggiando le frasi con il sangue del mare
Mare incoronato di spine, una per ogni goccia
Flagellato di iodio e ferroso come qualsiasi altro deserto
Mare che crocifissero altri ad altre ali
Ancora piú in la di ogni possibile me stesso.
mercoledì, settembre 22, 2010
La croce
Dopo le tante assurditá che hanno careatterizzato il già inattuale dibattito sulla presenza del crocifisso nelle aule italiane queste considerazioni sono una fresca, aurorale meraviglia, Riflessioni laiche, elegantemente epicuree, dell'epicureismo ancora possibile all'aurora del passato secolo dell'annientamento e dell'ariditá dei cuori e pure profondamente rispettose della croce di cui negano la favola e affermano la lezione.
La croce
Di George Santayana
Trad. genseki
Il piede della croce – non oso dire la croce stessa – è un buon posto da cui contemplare la vita. Nei piú grandi dolori vi è una calma tragica: si esaurisce la furia della volontá e i nostri pensieri si elevano a un altro livello; come la gioia fracassona e le oscure pene della prima infanzia che sono impossibile nella vecchiaia. Spesso la gente fa croci di fiori o di oro, a me piace vedere il crocifisso smaltato circondato riccamente di volute e incrostato di gioielli, senza questo elemento di istinto pagano la religione della croce non sarebbe né sana né giusta. Alle falde del Monte Calvario si trova il giardino della resurrezione: non mi rifersico a nessuna resurrezione melodrammatica come quelle rappresentate nella letteratura giudaica e in quella cristiana, bensí a quella che succede tutti i giorni davvero, tranquilla dolcemente, alla luce del piú chiaro giorno, nel chiostro, in casa, nella mente rigenerata. Dopo aver rinunciato al mondo l'anima puó tornare a trovarlo piú amabile, puó viverci con un sorriso, con qualche mistico dubbio e con un piede nell'eternitá. La vanitá è innocente quando si riconosce che è vana e non è piú una disgrazia per lo spirito. La feliecitá della sapienza, al principio puó sembrare autunnale, e l'ombra della croce, l'ombra della morte; si tratta tuttavia di un'ombra curativa; e, dopo poco tempo, dalll'edicola in cui abbiamo collocato la croce ci sorpende il profumo della violetta e la rosa dello zafferano si sporge tra le spine. Lo sfondo scuro che apporta la morte sottolinea i colori delicati della vita in tutta la loro purezza. Lungi da me il voler suggerire che l'esistenza sia buona in quanto preceduta e seguita dalla non esistenza; è tuttavia certo che se l'uomo fosse immortale non ci sarebbero nella sua esperienza, la tradizione, il linguaggio, l'infanzia, l'amore e neppure la vecchiaia …. posto che, di fatto. La nascita e la morte accadono effettivamente e il nostro breve cammino è circondato dal vuoto, molto meglio è vivere alla luce del tragico fatto che dimenticarlo o negarlo e costruire su di una menzogna fondamentale.
Il piede della croce – non oso dire la croce stessa – è un buon posto da cui contemplare la vita. Nei piú grandi dolori vi è una calma tragica: si esaurisce la furia della volontá e i nostri pensieri si elevano a un altro livello; come la gioia fracassona e le oscure pene della prima infanzia che sono impossibile nella vecchiaia. Spesso la gente fa croci di fiori o di oro, a me piace vedere il crocifisso smaltato circondato riccamente di volute e incrostato di gioielli, senza questo elemento di istinto pagano la religione della croce non sarebbe né sana né giusta. Alle falde del Monte Calvario si trova il giardino della resurrezione: non mi rifersico a nessuna resurrezione melodrammatica come quelle rappresentate nella letteratura giudaica e in quella cristiana, bensí a quella che succede tutti i giorni davvero, tranquilla dolcemente, alla luce del piú chiaro giorno, nel chiostro, in casa, nella mente rigenerata. Dopo aver rinunciato al mondo l'anima puó tornare a trovarlo piú amabile, puó viverci con un sorriso, con qualche mistico dubbio e con un piede nell'eternitá. La vanitá è innocente quando si riconosce che è vana e non è piú una disgrazia per lo spirito. La feliecitá della sapienza, al principio puó sembrare autunnale, e l'ombra della croce, l'ombra della morte; si tratta tuttavia di un'ombra curativa; e, dopo poco tempo, dalll'edicola in cui abbiamo collocato la croce ci sorpende il profumo della violetta e la rosa dello zafferano si sporge tra le spine. Lo sfondo scuro che apporta la morte sottolinea i colori delicati della vita in tutta la loro purezza. Lungi da me il voler suggerire che l'esistenza sia buona in quanto preceduta e seguita dalla non esistenza; è tuttavia certo che se l'uomo fosse immortale non ci sarebbero nella sua esperienza, la tradizione, il linguaggio, l'infanzia, l'amore e neppure la vecchiaia …. posto che, di fatto. La nascita e la morte accadono effettivamente e il nostro breve cammino è circondato dal vuoto, molto meglio è vivere alla luce del tragico fatto che dimenticarlo o negarlo e costruire su di una menzogna fondamentale.
lunedì, settembre 20, 2010
George Santayana
Sull'impermanenza
Da: "Soliloqui in Inghilterra"
*
*
Sull'amicizia
*
trad genseki
Da: "Soliloqui in Inghilterra"
Siamo avvertiti che il Giorno del Giudizio sará pieno di sorprese: una di queste, forse, è che nel Cielo le cose saranno piú instabili che sulla terra e che le dimore che lassú sono state preparate per noi non soltanto saranno vaste ma anche insicure.
*
I Castelli di Nuvole sono segni cje l'eternitá non ha nulla da spartire con la durata, né la bellezza con l'esistenza sostanziale e che persino in Cielo la nostra felicitá deve essere fondata su di una sorridente rinuncia,
*
Sull'amicizia
L'amicizia è sempre l'unione di una parte di un'anima con una parte di un'altra, La gente è amica a compartimenti stagni. L'amicizia a volte si basa sulla condivisione di ricordi precoci come fanno i fratelli o i compagni di scuola, i quali, spesso, salvo per questa antica e affettuosa familiaritá si considerano mutuamente antipatici ed estremamente noiosi. Altre volte dipende da piaceri o divertimenti passeggeri o da obiettivi comuni particolati e altre ancora dalla mera convivenza e dall'assenza di virtú nel vivere insieme.
*
L'amore tra amici in gioventú, quando d'amore si tratta piuttosto che di amicizia, possiede una tendanza mistica. RIcorda pel suo carattere anche se raramante per la sua intensitá, il dardo che, in estatica visione, attraversava il cuore di Santa Teresa e faceva esplodere l'involucro ordinario in cui si preserva il flusso del sangue di generazione in generazione, nello stretto canale dell'esistenza umana dell'umana schiavitú.
trad genseki
venerdì, settembre 17, 2010
Sul sentiero delle stelle marine
Tristan Tzara
Sul sentiero delle stelle marine
A Federico Garcia Lorca
Che vento soffia sulla solitudine del mondo
Che mi sovvengo degli esseri cari
Fragili desolazioni aspirate dalla morte
Oltre le cacce gravi del tempo
Godeva il temporale della sua prossima fine
Che sabbia non arrotondava giá la dura anca
Ma sulla montagna sacche di fuoco
Vuotavano a colpi sicuri la luce di preda
Pallida e corta come l'amico che si spegne
Di cui nessuno piú sa dire il contorno a parole
Nessuna chiamata all'orizzonte ha il tempo di soccorrere
La forma misurabile solo quando scompare
E così da un lampo all'altro
L'animale sempre tende la groppa amara
Lungo i secoli nemici
Attraverso i campi sicuri di parata d'altra avarizia
E nella sua rottura si profila il ricordo
Come la legna che scricchiola segno della presenza
Della necessitá disperata.
Ecco anchei frutti
Non dimentico i frumenti
E il sudore che li ha fatti crescere sale alla gola
Eppure conosciamo il prezzo del dolore
Le ali dell'oblio e i foraggi infiniti
A fior di vita
Le parole che non giungono ad afferrare i fatti
Nemmeno per usarle per ridere
Il cavallo della notte ha galoppato dagli alberi al mare
E riunito le redini di mille oscuritá caritatevoli
Si è trascinato lungo le siepi
Dove petti di uomini trattenevano l'assalto
Con ogni mormorio aggrappato ai fianchi
Tra immensi ruggiti che si acchiappavano
Sfuggendo la forza dell'acqua
Incommensurabili si susseguivano mentre micromormorii
Non erano deglutiti e galleggiavano
Nell'inesporimibile solitudine solcata dai tunnel
Le foreste di mandrie delle cittá i mari aggiogati
Un uomo solo al soffio di molti paesi
Riuniti a cascata scivolando su una lama liscia
Di fuoco sconosciuto che s'insinua a volte la notte
A perdere coloro che il sonno assembla
Nel ricordo profondo
No non parliamo piú di quelli che si sono avvinti
Ai fragili rami, al mal umore della natura
Gli stessi che subiscono i rudi colpi
Tendono la nuca e sul tappeto dei loro corpi
Quando gli uccelli non piangono piú i chicchi del sole
Suonano i rigidi stivali dei conquistatori
Mi sono usciti dalla memoria
Gli uccelli cercano altri impieghi di primavera
Al loro calcolo delle sinecure
Per greggi affascinanti di sgomento
Il vento sulla nuca
Che metttano loro in conto il deserto
Al diavolo i sottili avvertimanti
I divertimenti coquelicot e compagnia bella
Raschia il freddo
La paura cresce
L'albero secca
L'uomo si screpola
Sbattono le persiane
Cresce la paura
Nessuna parola è abbastanza dolce
Per ricondurre il bimbo delle strade
Sperduto nella testa
Di un uomo sull'orlo della stagione
Guarda la volta
E l'abisso
Pareti stagne
Fumo nella gola
Il tetto si sgretola
Ma l'animale famoso impennato
Nell'attenzione muscolare distorto dallo spasmo
Della fuga vertiginosa del lampo di roccia in roccia
Si scatena all'appetito della gioia
Il mattino rifá il mondo
Alla misura del suo giogo
Predone dei mari
Ti sporgi per l'attesa
E ti alzi e ogni volta che saluti il mare ai tuo piedi
Sul sentiero delle stelle marine
Deposte da colonne d'incertezza
Ti sporgi ti sollevi
Saluti smazzati a strisce
E nel mucchio devi muoverti
Anche evitando le piú belle devi muoverti
Ti sporgi
Sul sentiero delle stelle di mare
I miei fratelli gridano di dolore dall'altra parte
Bisogna prenderli intatti
Sono le mani del mare
Offerte a uomini da nulla
Sentiero glorioso sul sentiero delle stelle marine
“Alcachofas alcachofas” la mia bella Madrid
Dagli occhi di stagno dalla voce di frutta
Aperto ai quattro venti
Vapor di ferro ondate di ferro
Sono gli splendori del mare
Bisogna prenderle intatte
Quelle sui rami spezzati rovesciati
Sui sentieri delle stelle di mare
Dove porta tal sentiero al dolore porta
Gli uomini cadono quando vogliono rialzarsi
Gli uomini cantano perché hanno assaporato la morte
Eppur bisogna andare
Calpestare
Il sentiero delle stalle marine con colonne di incertezza
Ma ci si impiglia nella voce delle liane
“Alcachofas alcachofas” la mia bella Madrid dalle luci basse
Aperta ai quattro venti
Che mi chiama – lunghi anni – d'ortiche
Testa di figlia del re figlia di puttana
Ê una testa è l'onda che si spezza
Comunque è il sentiero delle stelle marine
Che si sono aperte le mani
E non parlano della bellezza dello splendore
Null'altro che riflessi di minuscoli cieli
E impecettibili strizzate d'occhio tutt'intorno
Onde spezzate
Predone marino
Ma è Madrid aperta ai quattro venti
Che calpesta le parole nella mia testa
“Alcachofas alcachofas”
Capitelli di grida irrigidite
Apriti cuor infinito
Per penetrare il sentiero delle stelle
Nella vita innumerevole come la sabbia
E la gioia dei mari
Che contenga il sole
Nel petto dove brilla l'uomo di domani
L'uomo d'oggi sul sentiero delle stelle di mare
Ha piantato il segno avanzato della vita
Come va vissuta
Il volo liberamente scelto dall'uccello fino alla morte
Fino alla fine delle pietre e delle etá
Gli occhi fissi sulla sola certezza del mondo
Da cui scorre la luce spazzola a fil di suolo
Tristan Tzara
Trad. genseki
Sul sentiero delle stelle marine
A Federico Garcia Lorca
Che vento soffia sulla solitudine del mondo
Che mi sovvengo degli esseri cari
Fragili desolazioni aspirate dalla morte
Oltre le cacce gravi del tempo
Godeva il temporale della sua prossima fine
Che sabbia non arrotondava giá la dura anca
Ma sulla montagna sacche di fuoco
Vuotavano a colpi sicuri la luce di preda
Pallida e corta come l'amico che si spegne
Di cui nessuno piú sa dire il contorno a parole
Nessuna chiamata all'orizzonte ha il tempo di soccorrere
La forma misurabile solo quando scompare
E così da un lampo all'altro
L'animale sempre tende la groppa amara
Lungo i secoli nemici
Attraverso i campi sicuri di parata d'altra avarizia
E nella sua rottura si profila il ricordo
Come la legna che scricchiola segno della presenza
Della necessitá disperata.
Ecco anchei frutti
Non dimentico i frumenti
E il sudore che li ha fatti crescere sale alla gola
Eppure conosciamo il prezzo del dolore
Le ali dell'oblio e i foraggi infiniti
A fior di vita
Le parole che non giungono ad afferrare i fatti
Nemmeno per usarle per ridere
Il cavallo della notte ha galoppato dagli alberi al mare
E riunito le redini di mille oscuritá caritatevoli
Si è trascinato lungo le siepi
Dove petti di uomini trattenevano l'assalto
Con ogni mormorio aggrappato ai fianchi
Tra immensi ruggiti che si acchiappavano
Sfuggendo la forza dell'acqua
Incommensurabili si susseguivano mentre micromormorii
Non erano deglutiti e galleggiavano
Nell'inesporimibile solitudine solcata dai tunnel
Le foreste di mandrie delle cittá i mari aggiogati
Un uomo solo al soffio di molti paesi
Riuniti a cascata scivolando su una lama liscia
Di fuoco sconosciuto che s'insinua a volte la notte
A perdere coloro che il sonno assembla
Nel ricordo profondo
No non parliamo piú di quelli che si sono avvinti
Ai fragili rami, al mal umore della natura
Gli stessi che subiscono i rudi colpi
Tendono la nuca e sul tappeto dei loro corpi
Quando gli uccelli non piangono piú i chicchi del sole
Suonano i rigidi stivali dei conquistatori
Mi sono usciti dalla memoria
Gli uccelli cercano altri impieghi di primavera
Al loro calcolo delle sinecure
Per greggi affascinanti di sgomento
Il vento sulla nuca
Che metttano loro in conto il deserto
Al diavolo i sottili avvertimanti
I divertimenti coquelicot e compagnia bella
Raschia il freddo
La paura cresce
L'albero secca
L'uomo si screpola
Sbattono le persiane
Cresce la paura
Nessuna parola è abbastanza dolce
Per ricondurre il bimbo delle strade
Sperduto nella testa
Di un uomo sull'orlo della stagione
Guarda la volta
E l'abisso
Pareti stagne
Fumo nella gola
Il tetto si sgretola
Ma l'animale famoso impennato
Nell'attenzione muscolare distorto dallo spasmo
Della fuga vertiginosa del lampo di roccia in roccia
Si scatena all'appetito della gioia
Il mattino rifá il mondo
Alla misura del suo giogo
Predone dei mari
Ti sporgi per l'attesa
E ti alzi e ogni volta che saluti il mare ai tuo piedi
Sul sentiero delle stelle marine
Deposte da colonne d'incertezza
Ti sporgi ti sollevi
Saluti smazzati a strisce
E nel mucchio devi muoverti
Anche evitando le piú belle devi muoverti
Ti sporgi
Sul sentiero delle stelle di mare
I miei fratelli gridano di dolore dall'altra parte
Bisogna prenderli intatti
Sono le mani del mare
Offerte a uomini da nulla
Sentiero glorioso sul sentiero delle stelle marine
“Alcachofas alcachofas” la mia bella Madrid
Dagli occhi di stagno dalla voce di frutta
Aperto ai quattro venti
Vapor di ferro ondate di ferro
Sono gli splendori del mare
Bisogna prenderle intatte
Quelle sui rami spezzati rovesciati
Sui sentieri delle stelle di mare
Dove porta tal sentiero al dolore porta
Gli uomini cadono quando vogliono rialzarsi
Gli uomini cantano perché hanno assaporato la morte
Eppur bisogna andare
Calpestare
Il sentiero delle stalle marine con colonne di incertezza
Ma ci si impiglia nella voce delle liane
“Alcachofas alcachofas” la mia bella Madrid dalle luci basse
Aperta ai quattro venti
Che mi chiama – lunghi anni – d'ortiche
Testa di figlia del re figlia di puttana
Ê una testa è l'onda che si spezza
Comunque è il sentiero delle stelle marine
Che si sono aperte le mani
E non parlano della bellezza dello splendore
Null'altro che riflessi di minuscoli cieli
E impecettibili strizzate d'occhio tutt'intorno
Onde spezzate
Predone marino
Ma è Madrid aperta ai quattro venti
Che calpesta le parole nella mia testa
“Alcachofas alcachofas”
Capitelli di grida irrigidite
Apriti cuor infinito
Per penetrare il sentiero delle stelle
Nella vita innumerevole come la sabbia
E la gioia dei mari
Che contenga il sole
Nel petto dove brilla l'uomo di domani
L'uomo d'oggi sul sentiero delle stelle di mare
Ha piantato il segno avanzato della vita
Come va vissuta
Il volo liberamente scelto dall'uccello fino alla morte
Fino alla fine delle pietre e delle etá
Gli occhi fissi sulla sola certezza del mondo
Da cui scorre la luce spazzola a fil di suolo
Tristan Tzara
Trad. genseki
mercoledì, settembre 15, 2010
Merli e limoni
Tutti avevano un limone nel giardino
E tutti i merli che lo perforavano
Di fitte e punture ancora piú gialle
Tutti avevano un merlo nel giardino
O nel fondo del mare o di se stessi
Frondoso lasciava cadere le sue note
Come monete nude tra i limoni
Alcuni poi avevano merli e limoni
Nel giardino in casa nel cuore
Si scambiavano nome e cognome
Limoni e merli amari e verdi
E aspettavano la morte come una mandorla
Adagiando il capo dissetato
Sul candido frescore del cuscino.
genseki
E tutti i merli che lo perforavano
Di fitte e punture ancora piú gialle
Tutti avevano un merlo nel giardino
O nel fondo del mare o di se stessi
Frondoso lasciava cadere le sue note
Come monete nude tra i limoni
Alcuni poi avevano merli e limoni
Nel giardino in casa nel cuore
Si scambiavano nome e cognome
Limoni e merli amari e verdi
E aspettavano la morte come una mandorla
Adagiando il capo dissetato
Sul candido frescore del cuscino.
genseki
Tristan Tzara
Le porte si sono aperte senza rumore sono ali
Di gravose lande dalle braccia distese
Steppe di ferro scavalcano i canali
Ove si sparsero le ossa delle carovane perdute
I corpi tesi delle strade pensili
Bruciano il gargarozzo delle folle fredde
Selvaggia luce dorme nel letto del fiume
La vitrea prora dell'aria fende
Occhi maturano nel carcere del mare
Dormono nei numeri
Ciottoli piatti tra i raggi nutrienti
Nessun dolore tenta onde di labbra
Noia naufragata sulla spiaggia dei selvaggi tessuti
Le clessidre dei corpi del sole
Fissano l'ora e l'aratro
Fumo
Linea
Boa
Nube di fiumi impetuosi riempie la bocca arida
L'uomo ni incontra l'uomo
Non incontra la barriera di pietra e i ghiacciai di uomini nudi
Nudi non hanno visitato questi luoghi sono ali
Le porte si sono aperte senza rumore
Nessuno tremerá – un grido tormenta la lana
L'esistenza stessa
Le pessime tracce delle tormbe
Perforatrici di tempeste sono ancora ali
Sotto scaglie radicali si crogiola un sole di millenari avvoltoi
Suonano lampi nella spossatezza delle acque.
Da: Ove bevono i lupi
1932
trad genseki
Di gravose lande dalle braccia distese
Steppe di ferro scavalcano i canali
Ove si sparsero le ossa delle carovane perdute
I corpi tesi delle strade pensili
Bruciano il gargarozzo delle folle fredde
Selvaggia luce dorme nel letto del fiume
La vitrea prora dell'aria fende
Occhi maturano nel carcere del mare
Dormono nei numeri
Ciottoli piatti tra i raggi nutrienti
Nessun dolore tenta onde di labbra
Noia naufragata sulla spiaggia dei selvaggi tessuti
Le clessidre dei corpi del sole
Fissano l'ora e l'aratro
Fumo
Linea
Boa
Nube di fiumi impetuosi riempie la bocca arida
L'uomo ni incontra l'uomo
Non incontra la barriera di pietra e i ghiacciai di uomini nudi
Nudi non hanno visitato questi luoghi sono ali
Le porte si sono aperte senza rumore
Nessuno tremerá – un grido tormenta la lana
L'esistenza stessa
Le pessime tracce delle tormbe
Perforatrici di tempeste sono ancora ali
Sotto scaglie radicali si crogiola un sole di millenari avvoltoi
Suonano lampi nella spossatezza delle acque.
Da: Ove bevono i lupi
1932
trad genseki
martedì, settembre 14, 2010
Stephan Hermlin
Come sorge la poesia
Stephan Hermlin
A undici, dodici anni avevo scritto qualche poesia, Per lo piú dipendevano abbastanza fedelmente da altre poesie che mi piacevano o da un pensiero che vi avevo incontrato.
Mi interessavano le fome poetiche e mi esercitavo nell'ottava e nel sonetto, Tuttavia, mentre mi sforzavo in questi esercizi, giá avevo coscienza che le mie poesie non erano buone. Sentivo che i miei pensieri non meritavano di essere comunicati, e che io non ero in condizione di dare la forma che avevo scelto alle mie idee e ai mei sentimenti. Ogni tanto distruggevo il materiale che era venuto poco a poco accumulandosi ma nella mia vanitá giovanile non volevo comunque rinunziare a mostrarne qualche frammento ai miei genitori oppure ai loro conoscenti, Le lodi che mi aspettavo e che mi venivano concesse copiose in molte occasione mi facevano vergognare appena le avevo ricevute.
Quella sera a Ferch non avevo una intenzione particolare, non avevo pensato al metro o alla strofa. La sera era sempre piú profonda. Immobile fissavo i versi che avevo appena finito di scrivere. Non sapevo se fossero buoni, ma sentivo che era la mia prima vera poesia. Avevo allora quindici anni. Per un caso fortunato posseggo ancora quella poesia. Essa fu pubblicata un anno dopo in una antologia che molto tempo dopo la guerra ho ritrovato in una librería antiquaria. All'imbarcadero di Fech appresi per la prima volta come sorge una poesia. Non avevo nessun piano, nessuna meta, non avevo preparato nessuno schema di rime, venne la sera, percepii un lievissimo movimento che doveva durare da prima che io me ne accorgessi, gradualmente ma sensibilmente come i colpi lievissimi delle onde, contro i pali dell'imbarcadero, un fluttuare in me, un ritmico martellare e una stanchezza del respiro come delle acque che andavano facendosi scure. Da questa vibrante base sorsero due o tre parole senza relazioni tra di loro. Da quel momento cominciai a prendere sul serio le mie poesie anche se non troppo sul serio, me lo impediva la convinzione che in Germania, per quanto riguarda la poesia e la musica era impossibile superare ció che giá era stato fatto. Avevo in mente la frase di un poeta secondo il quale un uomo avrebbe potuto, nel corso della vita, scrivere sei righe decenti. Questa affermazione era contraddetta da quella di un altro poeta che che vedeva ciascuna delle sue parole, e non ne era certo avaro, come scolpite nel marmo davanti a sé. Questa seconda affermazione non ebbe un effetto significativo su di me. Mi sembrava molto piú importante la frase del primo poeta il quale non mi toglieva tutta la speranza.
Scrivere poesie divenne per me un'abitudine. Sembrava che le poesie stessero in attesa e dovessi solo chiamarle quando ne avevo bisogno. Quello che producevo risentiva delle circostanze della mia vita, degli obiettivi politici che, con altri, mi prefiggevo di raggiungere, la societá che mi pareva degna di sforzo. Tutto mi era facile tra ventidue e trenta anni – quando finí la guerra; qualche mese prima a Zurigo era uscita la mia prima raccolta di poesie. Ricordo che un giorno andai di librería in librería lungo la Bahnhofstrasse per poter vedere il mio libro esposto. Ero gioiosamente eccitato, come se avessi finalmente portato a destinazione un dispaccio, che per lungo tempo avevo portato come un gravame. Questa ingenua soddisfazione non si è poi piú manifestata. Potevo leggere molte cose amichevoli su di me, presto, peró ascoltai anche alcuni critici affermare che ero un adepto inguaribile del formalismo e di metodi inutilmente difficili. Attraversavamo un periodo in cui, per caratterizzare, molti usavano la parola “complicato”. Io
cercai di cambiare la mia poesia in conformitá con alcune di quelle opinioni. Il desiderio di essere utile divenne dominante. Un'amica straniera a cui mi confidai mi contraddissi con foga: nesuna poesia poteva essere utile nel senso da me indicato almeno per i lettori più avanzati. La sola utilitá possibile della poesia se si voleva usare questo concetto assurdo, consisteva nel suo costante rinominare l'apparentemente banale, nella sua funzione di ringiovanimento, nel suo richiamare alla coscienza ciò che era andato perduto. Mentre ella ancora parlava io mi sentivo sempre meno convinto dalle sue parole. Non potevo darle completamente torto, ma io vedevo la poesia, anche la mia costretta in obblighi e relazioni, non potevo restare fuori del tempo in cui vivevo e io perseguivo la poesia impura, non quella pura. Nel corso della mia vita ho incontrato in molti paesi, molti poeti del tipo puro di cui sono anche diventato amico. Mentre le parole della mia amica andavano affievolendosi, io vedevo la linea rossa di sangue della poesia dal tempo di Ch'ü Yüan e di Ovidio fino a Andrea Chénier e Hölderlin e dalle terre aride dell'Harrar fino ai nostri giorni passare attraverso il carcere, l'esilio e la morte. Io stavo nella fossa dove era confluito questo sangue prima che io emergessi dall'ombra. Pensavo anche a quei giorni in cui la poesia mi aveva impedito di spegnermi di ridurmi alla semplice esistenza, a quei giorni in cui mi obbligavo a leggere giornalmente tre volumetti che portavo nello zaino tra le lettere, attraverso la guerra: un Hölderlin, uno Shelley, un Baudelaire, tutta la mia biblioteca.
Dopo un certo tempo a poco a poco i versi che che avevo scritto scomparivano dalla mia vita. Si perdevano come un leggero dolore al quale si è fatta l'abitudine e che una mattina con sorpresa e non senza un senso di vuoto scopriamo che non proviamo piú. Nessun ebbe la colpa, tranne me. Qualche cosa che aveva parlato tacque …
Stephan Hermlin
A undici, dodici anni avevo scritto qualche poesia, Per lo piú dipendevano abbastanza fedelmente da altre poesie che mi piacevano o da un pensiero che vi avevo incontrato.
Mi interessavano le fome poetiche e mi esercitavo nell'ottava e nel sonetto, Tuttavia, mentre mi sforzavo in questi esercizi, giá avevo coscienza che le mie poesie non erano buone. Sentivo che i miei pensieri non meritavano di essere comunicati, e che io non ero in condizione di dare la forma che avevo scelto alle mie idee e ai mei sentimenti. Ogni tanto distruggevo il materiale che era venuto poco a poco accumulandosi ma nella mia vanitá giovanile non volevo comunque rinunziare a mostrarne qualche frammento ai miei genitori oppure ai loro conoscenti, Le lodi che mi aspettavo e che mi venivano concesse copiose in molte occasione mi facevano vergognare appena le avevo ricevute.
Quella sera a Ferch non avevo una intenzione particolare, non avevo pensato al metro o alla strofa. La sera era sempre piú profonda. Immobile fissavo i versi che avevo appena finito di scrivere. Non sapevo se fossero buoni, ma sentivo che era la mia prima vera poesia. Avevo allora quindici anni. Per un caso fortunato posseggo ancora quella poesia. Essa fu pubblicata un anno dopo in una antologia che molto tempo dopo la guerra ho ritrovato in una librería antiquaria. All'imbarcadero di Fech appresi per la prima volta come sorge una poesia. Non avevo nessun piano, nessuna meta, non avevo preparato nessuno schema di rime, venne la sera, percepii un lievissimo movimento che doveva durare da prima che io me ne accorgessi, gradualmente ma sensibilmente come i colpi lievissimi delle onde, contro i pali dell'imbarcadero, un fluttuare in me, un ritmico martellare e una stanchezza del respiro come delle acque che andavano facendosi scure. Da questa vibrante base sorsero due o tre parole senza relazioni tra di loro. Da quel momento cominciai a prendere sul serio le mie poesie anche se non troppo sul serio, me lo impediva la convinzione che in Germania, per quanto riguarda la poesia e la musica era impossibile superare ció che giá era stato fatto. Avevo in mente la frase di un poeta secondo il quale un uomo avrebbe potuto, nel corso della vita, scrivere sei righe decenti. Questa affermazione era contraddetta da quella di un altro poeta che che vedeva ciascuna delle sue parole, e non ne era certo avaro, come scolpite nel marmo davanti a sé. Questa seconda affermazione non ebbe un effetto significativo su di me. Mi sembrava molto piú importante la frase del primo poeta il quale non mi toglieva tutta la speranza.
Scrivere poesie divenne per me un'abitudine. Sembrava che le poesie stessero in attesa e dovessi solo chiamarle quando ne avevo bisogno. Quello che producevo risentiva delle circostanze della mia vita, degli obiettivi politici che, con altri, mi prefiggevo di raggiungere, la societá che mi pareva degna di sforzo. Tutto mi era facile tra ventidue e trenta anni – quando finí la guerra; qualche mese prima a Zurigo era uscita la mia prima raccolta di poesie. Ricordo che un giorno andai di librería in librería lungo la Bahnhofstrasse per poter vedere il mio libro esposto. Ero gioiosamente eccitato, come se avessi finalmente portato a destinazione un dispaccio, che per lungo tempo avevo portato come un gravame. Questa ingenua soddisfazione non si è poi piú manifestata. Potevo leggere molte cose amichevoli su di me, presto, peró ascoltai anche alcuni critici affermare che ero un adepto inguaribile del formalismo e di metodi inutilmente difficili. Attraversavamo un periodo in cui, per caratterizzare, molti usavano la parola “complicato”. Io
cercai di cambiare la mia poesia in conformitá con alcune di quelle opinioni. Il desiderio di essere utile divenne dominante. Un'amica straniera a cui mi confidai mi contraddissi con foga: nesuna poesia poteva essere utile nel senso da me indicato almeno per i lettori più avanzati. La sola utilitá possibile della poesia se si voleva usare questo concetto assurdo, consisteva nel suo costante rinominare l'apparentemente banale, nella sua funzione di ringiovanimento, nel suo richiamare alla coscienza ciò che era andato perduto. Mentre ella ancora parlava io mi sentivo sempre meno convinto dalle sue parole. Non potevo darle completamente torto, ma io vedevo la poesia, anche la mia costretta in obblighi e relazioni, non potevo restare fuori del tempo in cui vivevo e io perseguivo la poesia impura, non quella pura. Nel corso della mia vita ho incontrato in molti paesi, molti poeti del tipo puro di cui sono anche diventato amico. Mentre le parole della mia amica andavano affievolendosi, io vedevo la linea rossa di sangue della poesia dal tempo di Ch'ü Yüan e di Ovidio fino a Andrea Chénier e Hölderlin e dalle terre aride dell'Harrar fino ai nostri giorni passare attraverso il carcere, l'esilio e la morte. Io stavo nella fossa dove era confluito questo sangue prima che io emergessi dall'ombra. Pensavo anche a quei giorni in cui la poesia mi aveva impedito di spegnermi di ridurmi alla semplice esistenza, a quei giorni in cui mi obbligavo a leggere giornalmente tre volumetti che portavo nello zaino tra le lettere, attraverso la guerra: un Hölderlin, uno Shelley, un Baudelaire, tutta la mia biblioteca.
Dopo un certo tempo a poco a poco i versi che che avevo scritto scomparivano dalla mia vita. Si perdevano come un leggero dolore al quale si è fatta l'abitudine e che una mattina con sorpresa e non senza un senso di vuoto scopriamo che non proviamo piú. Nessun ebbe la colpa, tranne me. Qualche cosa che aveva parlato tacque …
trad. genseki
giovedì, settembre 09, 2010
Dreiser Cazzaniga e la lettera di M.Beaumont
M. Beaumont fu una delle relazioni che Dreiser Cazzaniga stabilí nel fior della prima giovinezza e nelle quali perduró per voluttá di vergogna. Giovane solitario, dallo sguardo perennemente sfuggente, intento per gran parte del tempo di qualunque converasione a mordersi metodicamente quello che restava delle sue unghie, lento anche quando tale non pareva, di una lentezza indizio di timore e menzogna profondamente sepolti nell'anima sua, fu considerato da tutti nell'umido e nebbioso Barrio come l'amico del cuore di Dreiser Cazzaniga. Tale fu la convinzione popolare che quasi si fece ovvietá, e alcuni giunsero a tal segno che immemori della realtá affermavano convinti che i due fossero fratelli o quantomeno cugini. Io stesso, il vostro servitore, Genseki, ho udito tale affermazione da Papillon il maricón ufficiale del Barrio non piú di due anni fa.
In realtá M. Beaumont odiava Dreiser Cazzaniga. Lo tormentava con piccole, continue meschinitá, ripicche, brutalitá, rivalitá e menzogne. La vita vera di M. Beaumont era quasi completamente celata allo sguardo di Dreiser Cazzaniga. Questi soleva rinnegare l'amico suo con qualunque persona mostrasse disprezzo o avversione per lui.
Ora nel nebbioso Barrio di Briggio e nella luminosa Villareal quasi non v'era chi amasse Dreiser Cazzaniga. Dreiser Cazzaniga era suo malgrado un testimone della libertá e un certo indomabile amore, ancora oscuro e minacciato da altri istinti misti al peccato lo rendevano eccentrico e minaccioso, Come tale cioè era percepito. Non vi fu occulto nemico di Dreiser Cazzaniga che non ricevesse occulta solidarietá dall'oscuro Beaumont la cui culla stava nel Barrio di Briggio. Al Barrio di Briggio egli apparteneva nebbioso e torbido come la valle di Briggio come il suo antico fiume ignorato come le sue sporche, trascurate, industriali rovine. Dreiser Cazzaniga non apparteneva a Briggio, solo il caso volle ch'egli vi trascorresse la prima infanzia, per Dreiser Cazzaniga sempre Briggio restó un orizzonte geografico e architettonico, luce, autunno, nebbia, castagne, mosto, cinghiali, I suoi abitanti erano come ombre, come grigi profili sudici e opachi, Beaumont apparteneva a Briggio in corpo e anima e per questo doveva costantemente tradire Dreiser Cazzaniga. Dreiser Cazzaniga viveva nella vergogna e nell'ignominia e per questo tali tradimenti soleva perdonare.
Molti anni sono passati da allora, Dreiser Cazzaniga trovó infine la dignitá di allontanare da sé la querula ombra minacciosa di Beaumont. Questi, d'altra parte volse i suoi passi alle lontane sierre e lande patagoniche e qui si sarebbe potuto porre il punto finale alla molesta storia di un altro fallimento di Dreiser Cazzaniga sul piano delle relazioni umane. Il fato volle, peró che Dreiser Cazzaniga fosse avvertito dall'amico suo Spadaro di una lettera che Beaumont aveva intenzione di inviargli nella sua Andalusia. Lettera che aveva per scopo di riannodare una amistá che invero Beaumont non aveva mai considerato finita. Voleva continuare a infierire sul groppone del povero Dreiser Cazzaniga! Dreiser Cazzaniga aspettó a lungo la lettera con la ferma intenzione di bruciarla senza leggerla. La lettera noin giungeva, Il sogno di Dreiser si faceva ogni giorno piú fermo e ardente, arricchivasi di nuovi cavallereschi particolari. La lettera non giungeva. Dreiser giounse, invece al punto di desiderarer che la lettera non desiderata giungesse per poter provare a se stesso che si era liberato di Beaumont e di Briggio e di Villareal. Non giungendo bruciava dentro di sé di ossessiva aspettativa. A tanto giunse l'ansia dell'attesa che si accorse infine con orrore di essere ancora in potere di Beaumont e della propria miseria. Non gli passó per la mente giá indebolita il pensiero di gettarsi scalzo ai piedi della Vergine Della Fuensanta nella sua salita al Monte Sacro avvolta nelle mantiglie, d'oro ricoperta tra le carole e le odi dei gitani per impetrare il suo aiuto. Soffrí e arse tutto quell'autunno penetrato dal sentimento della sua inconsistenza. Dreiser meschino. La lettera non giunse. Egli morto dorme nella sierra dove ancora aleggia lo spirito dei puri sufi. La lettera continua il suo viaggio. Non giungerá a colui cui era destinata. Beaumont sempre vive, ora nella lieta Campania spensierato bove pascola le sue insicurezze.
Se la sua missiva giungerá saró io, genseki, l'umile servo a bruciarla nell'inecenso come Dreiser lo volle.
A cura di genseki
Fede e dubbio
Credo che Sainte-Beuve abbia scritto da qualche parte che Chateaubriand era un libertino epicureo con una immaginazione cattolica. Certo doveva essere un arrogante. Tuttavia l'accusa di incoerenza che sembra suggerire Sainte-Beuve o chi per lui è tristemente fuori luogo. Esagerando come si suole fare nello stile aforismatico si potrebbe dire che solo chi possiede un vero, profondo e coerente immaginario cattolico puó essere un vero libertino. Chateaubriand ha un compagno piú cosciente anche se altrettanto arrogante nel Marchese Di Bradomín che come tutti sanno si autodefiniva un “Don Juan feo cátolico y sentimental” dove la molteplicitá delle relazioni contradditorie possibili tra i termini costituisce un vero e proprio tessuto d'una insospettabile coerenza.
La fede non è morale. La fede è immorale. La fede non è certezza, piuttosto dubbio. La fede è inseparabile dal dubbio piú disperato.
Queste righe di Chateaubriand dalle “Mémoires d'Outre-Tombe” sono il Dostoyeskij possibile nello stile impero:
“Siccome ho parlato delle cerimonie funebri che si ripeterono con tanta frequenza, vi descriveró l'incubo che mi opprimeva, quando, la sera, alla fine della cerimonia, passeggiavo nella penombra della basilica, che io pensassi alla vanitá delle cose umane tra quelle tombe in rovina è cosa del tutto normale: morale volgare, inseparabile dallo scenario di un tale spettacolo. Il mio spirito, tuttavia, andava oltre. Penetravo nella natura umana. Tutto è vuoto e assenza nella regione dei sepolcri? Non vi è nulla in tale nulla? Non vi è esistenza nel niente dei pensieri della polvere? Queste ossa forse non hanno una vita ignota? Chi conosce le passioni, i piaceri, gli amplessi dei morti? Le cose che hanno sognato, creduto, sperato sono forse come loro pure idee, naufragate con loro? Sogni, futuro, gioie, dolori, libertá e schiavitú, potere e debolezza, crimini e virtú, onori e infamie, ricchezze e miserie, talenti, genio, intelligenze, glorie, illusioni, amori, non siete che percezioni di un momento, trascorse con i crani spezzati in cui nacquero, con il petto annientato ove un tempo pulsó un cuore? Nel vostro silenzio, o tombe, se tombe, invero, siete solo s'ode un riso sardonico de eterno? Questo riso è Dio stesso, la sola ironica realtá destinata a sopravvivere all'intero universo? Chiudiamo gli occhi; riempiamo l'anima che dispera della vita con queste grandi parole del martire: “Sono cristiano”.
Mémoire d'outre-tombe
Terza parte – Libro III
La fede non è morale. La fede è immorale. La fede non è certezza, piuttosto dubbio. La fede è inseparabile dal dubbio piú disperato.
Queste righe di Chateaubriand dalle “Mémoires d'Outre-Tombe” sono il Dostoyeskij possibile nello stile impero:
“Siccome ho parlato delle cerimonie funebri che si ripeterono con tanta frequenza, vi descriveró l'incubo che mi opprimeva, quando, la sera, alla fine della cerimonia, passeggiavo nella penombra della basilica, che io pensassi alla vanitá delle cose umane tra quelle tombe in rovina è cosa del tutto normale: morale volgare, inseparabile dallo scenario di un tale spettacolo. Il mio spirito, tuttavia, andava oltre. Penetravo nella natura umana. Tutto è vuoto e assenza nella regione dei sepolcri? Non vi è nulla in tale nulla? Non vi è esistenza nel niente dei pensieri della polvere? Queste ossa forse non hanno una vita ignota? Chi conosce le passioni, i piaceri, gli amplessi dei morti? Le cose che hanno sognato, creduto, sperato sono forse come loro pure idee, naufragate con loro? Sogni, futuro, gioie, dolori, libertá e schiavitú, potere e debolezza, crimini e virtú, onori e infamie, ricchezze e miserie, talenti, genio, intelligenze, glorie, illusioni, amori, non siete che percezioni di un momento, trascorse con i crani spezzati in cui nacquero, con il petto annientato ove un tempo pulsó un cuore? Nel vostro silenzio, o tombe, se tombe, invero, siete solo s'ode un riso sardonico de eterno? Questo riso è Dio stesso, la sola ironica realtá destinata a sopravvivere all'intero universo? Chiudiamo gli occhi; riempiamo l'anima che dispera della vita con queste grandi parole del martire: “Sono cristiano”.
Mémoire d'outre-tombe
Terza parte – Libro III
Trad. genseki
La certezza pare piuttosto cemento del dubbio che della fede
genseki
La certezza pare piuttosto cemento del dubbio che della fede
genseki
giovedì, settembre 02, 2010
Il tempo e lo spirito
Certo ora che l'orizzonte sembra tanto oscuro da non permettere la percezione della prospettiva, da far dubitare che prospettiva ci sia, che un futuro sia possibile al di fuori della menzogna, dell'odio, della meschinitá della democrazia, delle sue guerre, dei suoi stermini, dello sfruttamento della cancellazione della memoria, della natura, della negativitá e deli divenire il testo di Hegel tratto dall'Introduzione alla storia della filosofia ci ricorda come la nostra prospettiva. la prospettiva possibile dal balconcino della nostra vita individuale sia tanto ristretta da non giustificare la disperazione.
La dialettica gramsciana tra pessimismo, ragione, volontá e ottimismo è qui sciolta, semplicemente tolta nell'assunzione della pazienza.
Il punto di vista attuale è il risultato di tutto il corso e di tutto il lavoro di 2300 anni: è ciò che lo spirito dal mondo ha raggiunto nella coscienza pensante. Non dobbiamo stupirci per la sua lentezza. Lo spirito universale pensante ha tempo, nulla lo induce alla fretta, dispone di una moltitudine di popoli, di nazioni il cui sviluppo o evoluzione è appunto un mezzo per la produzione della sua coscienza. … Nella storiauniversale i progressi sono lenti. La comprensione della necessitá di questo lungo tempo è un mezzo contro la nostra propria impazienza.
La dialettica gramsciana tra pessimismo, ragione, volontá e ottimismo è qui sciolta, semplicemente tolta nell'assunzione della pazienza.
Il punto di vista attuale è il risultato di tutto il corso e di tutto il lavoro di 2300 anni: è ciò che lo spirito dal mondo ha raggiunto nella coscienza pensante. Non dobbiamo stupirci per la sua lentezza. Lo spirito universale pensante ha tempo, nulla lo induce alla fretta, dispone di una moltitudine di popoli, di nazioni il cui sviluppo o evoluzione è appunto un mezzo per la produzione della sua coscienza. … Nella storiauniversale i progressi sono lenti. La comprensione della necessitá di questo lungo tempo è un mezzo contro la nostra propria impazienza.
Hegel
Introduzione allo storia della filosofia
Trad. genseki
Iscriviti a:
Post (Atom)