lunedì, settembre 12, 2011

Avanguardia e narrazione

Parte I


Negli anni cinquanta e sessanta i teorici del "Nouveau Roman" affermavano con veemenza che il romanzo era l'unica arte che, nel corso del XX secolo, non aveva portato a compimento la propria rivoluzione avanguardista, a differenza delle arti plastiche, della musica e della poesia che la stavano sviluppando da tre quarti di secolo. Se il cubismo, il dodecafonismo, il surrealismo e altre scuole degli anni dieci, venti e trenta avevano, al loro apparire, suscitato scandalo, anatemi e polemiche, ma n ormai erano state accolte nel limbo sereno in cui gli andirivieni del gusto finiscono per collocare i classici. Al contrario, tuttavia, nel 1973, Jean Ricardou, in un suo libro sul "Nouveau Roman" scriveva: "Siamo ormai alle edizioni complete, ai premi letterari, ai grandi quotidiani, all'Universitá, sicuramente il "Nouveau Roman" ha potuto imporre alcune caratteri della sua attivitá, ma l'accoglienza che ha ottenuto presso gli ambienti culturali sembra singolarmente concessa controvoglia". Oggi, trent'anni dopo, si può comprovare come questa resistenza sia ancora viva e che, nonostante una ricezione parialmente positiva nelle istanze culturale ufficiali come l'edizione della Pléiade di Nathalie Sarraute e il Premio Nobel a Claude Simon che puó essere interpretato come un riconoscimento a tutta la scuola, il rifiuto, in molti casi, continua ad essere cocciuto e violento.

Perché tanto furore? Varie possono esserne le cause, la piú evidente è che la complessitá di un'opera d'arte che la allontana dall'abitudine, non solo sconcerta, ma a volte, quando non si ha la preparazione per affrontarla, delude e offende. La ricezione tumultuosa delle novitá, a volte radicali, che sono una costante nella storia delle avanguardie, suole essere composta di razionalizzazione ma anche di risentimento. Nel caso del "Nouveau Roman" questo persistente ripudioincuriosisce posto che ha cessato da tempo di essere una novitá e ha il suo posto nella letteratura francese.

Un rifiuto cosí ottuso deve avere qualche causa che sarebbe interessante indagare e che non dipende dal carattere singolare del "Nouveau Roman" ma, piuttosto dalla funzione che la societá attribuisce al genere narrativo.

Si sa che la poesia lirica godette sempre di uno statuto piú libero della poesia epica perché la lirica atta esprimera la personalitá e l'intimitá del poeta poteva permettersi (dal punto di vista del pubblico, assolutamente non da quello dei poeti!) una maggiore irresponsabilitá dell'epica che spesso era utilizzata per eprimere il punto di vista di una intera societá. Quando, a partire dalla prima metá del secolo XIX la poesia si scriverá anche in prosa, l'uso che i poeti faranno di questo nuovo strumento finirá per dare un contributo decisivo alle avanguardie, proprio come, quando il genere epico adottó la prosa dando luogo al nuovo genere del romanzo, si produssero contemporaneamente, nei molti tentativi di ques'arte singolare, fenomeni contradditori e persino conflittuali.
La rappresentativitá sociale ereditata dall'epica sembra obbligare il romanzo a privilegiare la linearitá, l'azione, la trasparenza ( nel senso che Sartre da a questa parola come quello di un linguaggio non utilizzato nella sua opaca materialitá come nella poesia, bensí come un intermediario invisibile tra il lettore e il signficato). Anche se l'epica, a partire per lo meno da Don Chisciotte, ha cessato di essere preminente nell'evoluzione delle forme narrative ( e si potrebbe anche dire che il racconto in occidente evolve verso una retorica anti-epica), i procedimenti che veicolavano i suoi valori sociali e letterari continuano ad essere onnipresentied è evidente che l'esercizio di ogni narrativa valida ha consistito nell'opporsi ad essi. È questa opposizione che spiega la ricezione conflittuale di ogni opera narrativa dalla seconda metá del XIX secolo.

Juan José Saer

Trad genseki

venerdì, settembre 09, 2011

Drop Box

José Ortega y Gasset

La filosofia del pieno mezzogiorno di Ortega y Gasset impedisce alla nottola di levarsi in volo.


Preferisco concepire la filosofia come un fluido succedersi di luce e di ombra, nella radura, anche a mezzogiorno, la luce del sole filtra tremula tra le fronde si tinge di sfumature di verde e ocra, oppure è nebbia leggera del mattino che sfuma i contorni dei concetti e ci rimanda al loro discreto svelarsi come velati.


genseki




L'uomo vive abitualemente sommerso nella sua vita, come un naufrago nel suo mare, trascinato istante dopo istante dal torbido torrente del suo destino, vive, cioè. in uno stato di sonnambulismo interrotto soltanto da lampi intermittenti di luciditá nel corso dei quali scopre confusamente come è strano il fatto di vivere, allo stesso modo in cui il fumlmine, in un battito diciglia, rivela le anse profonde della nera nube dal cui seno scaturí. Aveva proprio ragione Calderón, e in un senso piú banale e terra terra di quanto pensasse: la vita è sogno come è sogno ogni realtá che non abbraccia se stessa, che non prende pieno possesso di sé,che resta dentro di sé e non riesce a fuoruscire da sé posizionandso sopra di sé. In questo sono eguali l'incolto el'uomodi scienza; anche il fisico èun sonnambulo e non solo nella vita quotidiana ma anche quando fa fisica sonnambulizza. La fisica è un sogno. Un sogno matematico.La sola possibilitá che l'uomo possiede per svegliarsi, per ricordare e vivere in pienaluciditá consiste precisamente nel filosafare.Insomma, la nostra vita o è sonnambulismo o filosofia. Lo dico chiaro come avvertenza preliminare: La filosofia non èun sogno - è insonnia - attenzione infinita,volontá di perpetuo mezzogiorno esasperata vocazione alla veglia e alla luciditá.

Ortega y Gasset
La ragione storica


Trad genseki

giovedì, luglio 07, 2011

La radura

Alla radura si giungeva
Seguendo i solchi paralleli
Tracciati dalle ruote dei carri
Furono queste le tracce ultime
Da pochi ancora ricordate
Che permettevano di entrare nel mondo
Perché nella radura il mondo parlava
Il linguaggio delle cose si esprimeva
In forma visibile e udibile
Come un pullulare di ronzio e scintilla
Di voli luminosi, batttiti d'elitra diamantina
Scrosciare lieve di piume viscido sibilare
Inerme dei ciotoli. Il linguaggio si faceva intensità
Significato libero dalla prigionia della relazione
Dalle catene del dare e dell'avere.
Entrava nella radura come in un tempio
Si sarebbe tolte le scarpe e le calze
Ma i suoi piedi avevano vergogna di lui
Tremando ubriaco di rose canine e ranuncoli.

La cittá

La città

La città si apriva come un urlo cavo
Sulla sommità della scala immensa
Se guardavo in alto era vertigine
Dissolversi sotto le ciglia di ogni sogno
Cercavo rifugio in tutti gli angoli
Nelle edicole ritagliate negli antichi muri
Nelle finestre che velavano appena il pudore delle candele
Ma i focomelici minacciavano,
I mendichi, la bottega dove vendevano le trippe
Lavate nel latte, bianche come le cuffie delle suore
Tornavo al borgo come in una bara di vetro
Le luci degli altri fari erano anime psicopompe
L'urlo della città mi aveva lavato tutto vuoto
Eppure non fu il borgo fu la radura
Che mi donò infine le parole e la pazienza.

Moteagudos y otoños

Il borgo II

Non era il borgo coscienza
Infine scoperta delle relazioni
Piuttosto misura dell'estraneità
Di chi osservava e sapeva osservare
La rumorosa fermentazione della pianura
Dei prati prima della fienagione
Del grano prima del rossore del papavero
E in tutto questo riconosceva le stelle
E alzava lo sguardo come in altri tempi
Alla volta celeste vaste fronti
Volgevano il loro stupore
Il borgo erano vecchie vene
Grige percorse dalle diramazioni del muschio
Ricami di salnitro
Ogni tanto un albero di cachi scoppiava rosso
Fradicio trai denti
I cani randagi allora pullulavano
Nelle osterie il vino puzzava di fenolo
Sulla costa in fondo alla radura
Espero delineava pianure di cobalto
Nel borgo battevano i denti le febbri e le fami
Arturo beffardo un giorno mi prese per mano
Non osavo alzare lo sguardo alla mia fronte
Nella radura riposai i piedi accanto alle orecchie
I fauni arrostivano le castagne trincavano barbera
Arturo era un bugiardo e un monello
Ma anch'io mi lavavo poco
Fuggivo dove nessuna carne potesse turbare il mio freddo.

febbraio 2009

Il borgo

Non aveva parole il borgo
Perso nella forma della sua distanza
Trasfigurato in acqua e in estranea trasparenza
Affondava nella sola palude
Da cui il sole
Non avrebbe potuto redimerlo.
Erano nebbie, fiori di castagno,
Rune sciolte, canti di levrieri nell'alba del biancospino
Una casa di pietra
Fuliggine.
Il borgo si apriva oltre la finestra
Sovente una tenda di pioggia
Garantiva la permanenza di questo limbo
Il suo odore di muschio
La morte, però, si sa, è sempre più forte
Della pioggia, delle macchie di umido,
Delle travi sconnesse del soffitto
Dei fantasmi degli interrutori a forma di chiave.
Così non smettiamo di scorrere
Dentro e fuori da noi stessi
Dimentichi di ogni patria o borgo
Che non sia radura.




**

gendronniere

Memoria

Succede che nella memoria restino fissate, in modo invariabile le distanze temporali come si rivelarono all'immaginazione per la prima volta. Il trascorrere del tempo, poi, non ha il potere di aggiungere o ti togliere niente. Si tratta di distanze temporali vissute nella mente come immagini, non come dati, o misure, anni, decenni secoli. Il fenomeno è più forte quando la distanza è remota quel tanto che basta perché nel momento della sua rivelazione fossero ancora vive persone che potevano testimoniarne l'estensione.
È difficile descrivere in termini astratti questa curiosa irregolarità prospettica nella percezione del tempo nella memoria, la si può meglio intuire attraverso un esempio.
Per me la distanza che mi separa dal 1920 è sempre quella che percepii come sensazione quando qualcuno mi raccontò un episodio relativo a quella data cui io potei dare, per la prima volta una forma rappresentativa concreta. Se questo avvenne, poniamo nel 1960 la distanza che intercorre, nella mia memoria tra me e il 1920 è e resta sempre di quarant'anni. Anche se adesso gli anni sono novanta e per un fanciullo di oggi la distanza dal 1960, anno della mia rivelazione dell'esitenza concreta del 1920 è più o meno della stesso ordine. Quest'ultima considerazione non cessa mai di stupirmi. Nel mondo della memoria le distanze temporali obbediscono a leggi diverse da quelle del mondo dell'esperienza. Vale la pena esplorare
genseki

Fenomeni della memoria

Succede che nella memoria restino fissate, in modo invariabile le distanze temporali come si rivelarono all'immaginazione per la prima volta. Il trascorrere del tempo, poi, non ha il potere di aggiungere o ti togliere niente. Si tratta di distanze temporali vissute nella mente come immagini, non come dati, o misure, anni, decenni secoli. Il fenomeno è più forte quando la distanza è remota quel tanto che basta perché nel momento della sua rivelazione fossero ancora vive persone che potevano testimoniarne l'estensione.
È difficile descrivere in termini astratti questa curiosa irregolarità prospettica nella percezione del tempo nella memoria, la si può meglio intuire attraverso un esempio.
Per me la distanza che mi separa dal 1920 è sempre quella che percepii come sensazione quando qualcuno mi raccontò un episodio relativo a quella data cui io potei dare, per la prima volta una forma rappresentativa concreta. Se questo avvenne, poniamo nel 1960 la distanza che intercorre, nella mia memoria tra me e il 1920 è e resta sempre di quarant'anni. Anche se adesso gli anni sono novanta e per un fanciullo di oggi la distanza dal 1960, anno della mia rivelazione dell'esitenza concreta del 1920 è più o meno della stesso ordine. Quest'ultima considerazione non cessa mai di stupirmi. Nel mondo della memoria le distanze temporali obbediscono a leggi diverse da quelle del mondo dell'esperienza. Vale la pena esplorarle.
03/07/11

Dawkins contro Dio

Considerazioni sull'esistenza di Dio

La negazione del'esistenza di Dio, nella forma in cui è esposta e propagandata dalle associazioni di atei e agnostici che si ispirano a Dawkins affronta un primo ostacolo del tutto insormontabile, un ostacolo semantico, sembrerebbe, per cui è indubitabile che esiste un significante DIO con una costellazione, uno sviluppo, una estesione di significati. L'esistenza del concetto di Dio non può essere ragionevomente negata.
Non si tratta quindi da parte degli atei di negare l'esistenza del concetto di Dio, quanto piuttosto di affermare la volontà di distruggere questo concetto, di cancellarlo.
A questo livello gli atei non sono coloro che negano Dio, essi sono, più correttamente coloro che vogliono distruggere il concetto di Dio.
L'affermazione: “Dio non esiste” può essere razionalmente sostenuta su molti piani ma non sul piano semantico, sul piano del segno, sul piano del significato e neppure su quello del concetto. È evidente a tutti che esiste un segno dio con la sua copia di significato e sigificante, esiste un concetto di dio. Come negarlo? Negarlo non si può, si deve distruggerlo. Ora, se si distrugge il segno dio, o il concetto, tutto il sistema dei significati e dei concetti debe essere completamente riorganizzato. Come dicevano i vecchi strutturalisti, un sistema è, appunto una rete di elementi in relazione di interdipendenza oppositiva. Se un elemento della rete si toglie, tutte le relazioni della rete vanno ridefinite, o si ridefiniscono automaticamente. È un po' quella famosa transvalutazione di tutti i valori del Zarathustra.
L'ateismo, comunque non può essere negazione, è obbligato a essere distruzione e poi riforma, ridefinizione.
Certo, è facile obiettare che questo ragionamento è tutto interno al linguaggio e al pensiero e che quello che gli atei vogliono fare è dimostrare è che nella realtà non vi è nessun dio, che Dio non ha un'esistenza reale fuori dal pensiero e dal linguaggio e che la necesità di abolire il segno e il concetto di dio dal linguaggio e dal pensiero altro non è che adeguare il linguaggio e il pensiero alla realtà.
Questa obiezione ha il difetto di considerare il pensiero e il linguaggio come elementi che non appartengono alla realtà. Eppure, il pensiero e il linguaggio una qualche realtà sembrano proprio averla. Un realtà tanto reale che è in grado spesso di modificare il reale.
L'ateismo sarebbe allora una negazione dell'esistenza di Dio al di fuori del pensiero e del linguaggio.
Fu detto ai tempi della grande filosofia che dio è una creazione degli uomini, se è una creazione degli uomini in forma di segno o di concetto non è possibile che non esista. Un prodotto è qualche cosa che esiste in seguito ad una azione,una attività.
genseki

lunedì, giugno 27, 2011

Il Tungsteno

Parte II


Di César Vallejo


Pochi giorni dopo videro lo stesso sora aiutare una ragazza a lavare il grano.
Poi si offrì per portare la punta di una fune negli smottamenti. Piú tardi, quando si cominciò a caricare il minerale e a trasportarlo alla officina di analisi, proprio quel sora spingeva il carretto. Il commerciante Marino, caporale di manodopera, gli disse un bel giorno:

- Vedo che anche tu stai lavorando. Bene, cholito, bene. Vuoi che ti aiui? Quanto vuoi?

Il sora non ci capiva niente in questo linguaggio di “aiuti” e di “quanto vuoi”. Voleva solo darsi da fare per passare il tempo, nient'altro. Perché i sora proprio non potevano starsene tranquilli, andavano e venivano allegri, con le vene gonfie e i muscoli tesi nell'azione, al pascolo, alla semina, a sarchiare a caccia di vigogne e lama guanacoe selvatici, scalando rocce e precipizi, in un lavoro incessante e a prima vista, disinteressato. Mancava loro completamente il senso dell'utilitá. Senza calcolare e senza preoccuparsi del risultato economico delle loro azioni, sembravano vivere la vita come un gioco espansivo e generoso. Dimostravano una tale fiducia negli altri che in certi momenti facevano pena, non conoscevano lo scambio commerciale e quindi capitava di assistere a scene divertenti a questo proposito:

- Vendimi un lama per fare carne affumicata.

L'animale era consegnato, senza che lo si pagasse e senza che il pagamento fosse nemmeno reclamato. A volte in cambio davano loro una o due monete che accettavano per poi ridarle subito al primo venuto alla minima richiesta.

*

Una volta stabilitasi nella zona la gente della miniera, impiegati e operai cominciarono a pensare a circondarsi di cose necessarie alla vita, a parte di quelle che facevano venire da fuori, che si potevano trovare in loco, come animali da soma, lama per la carne, cereali e altro ancora. Tuttavia bisognava portare avanti un lavoro paziente di esplorazione e poi dissodare le terre incolte, per convertirle in campi da arare ben fertili. Il primo ad operare sulla terra con l'intenzione, non solo di ottenere prodotti per la propria sussistenza, ma anche di arricchirsi a base di allevamento e di coltivazione, fu il proprietario del bazar e caporale esclusivo che, a questo fine, formò una societá segreta con l'ingegner Rubio e l'agronomo Benites. Marino prese su di sé la gestione di questa societá, dato che lui dal bazar poteva dedicarsi all'affare con facilità e con vantaggi particolari. Inoltre Marino aveva uno straordinario istinto commerciale. Grasso e piccolino, furbo e molto avaro, il commerciante sapeva coinvolgere la gente nei suoi affari come una volpe con le galline. Al contrario Baldomero Rubio era un tipo tranquillo, nonostante la sua alta statura e il fatto di essere un po' curvo di spalle, il che conferiva alla sua persona uno stupefacente aspetto di avvoltoio sul punto di aggredire un agnello. In quanto a Leónidas Benites non era altro che un timidissimo studente della facoltá di ingegneria de Lima, debole e bigotto, qualitá del tutto inutili e persino controproducenti in materia commericale.
José Marino mise gli occhi, fin dal primo istante, sui terreni, già seminati dei Sora e decise di appropriarene. Dovette però vedersela con Machuca, Baldazari e altri che anche loro si misero a spogliare i sora dei loro beni, e alla fine fu lui, Marino che vinse la pugna. Due armi gli permisero il successo: il bazar e il suo eccezionale cinismo.
I sora erano sedotti dalle cose, ben strane per le loro menti rozze e selvagge, che vedevano nel bazar: flanella colorata, bottiglie pittoresche, pacchetti multicolori, fiammifferi, caramelle, “baldes” brillanti, vasi trasparenti. José Marino fece il resto con la sua malizia da usuraio.


- Vendimi il pascolo delle oche al lato della tua capanna – disse loro un giorno nel bazar, approffitando della fascinazione che esercitavano le sue merci sui sora.


- Cosa dici, taita?
- Dico che mi dia il terreno dove tieni le oche e in cambio io ti darò quello che vuoi del mio negozio.

- Va bene, taita!


La vendita, o meglio il baratto, fu stipulata. A cambio del valore del terreno delle oche José Marino diede al sora una piccola caraffa di vetro azzurro con fiori rossi.
- Attento che la rompi! - disse paterno Marino.
Poi mostrò al sora come doveva portarla, con grande delicatezza, per non romperla. L'indio, accompagnato da altri due sora, portò l'oggetto fino alla sua capanna, a passettini come una cosa sacra. Percorsero la distanza, che era circa di un kilometro, in due ore e mezza. La gente usciva a guardarli e moriva dal ridere. Il sora non si era reso conto del fatto che l'operazione non fosse equa. Tutto quello che sapeva era che Marino voleva il suo terreno e così lo cedette. L'altra parte dell'operazione, la cessione della caraffa, era per il sora del tutto separata e indipendente dalla prima, per lui Marino aveva ceduto l'oggetto per il semplice fatto che la caraffa era piaciuta a lui, al sora.
Con questo metodo il commerciante continuò ad appropriarsi dei terreni coltivabili dei sora, che essi continuavano a cedere in cambio di piccoli oggetti pittoreschi de bazar con la maggiore innocenza possibile come bambini che non sanno quello che stanno facendo. I sora, mentre da un lato si lasciavano espropriare delle loro terre e dei loro armenti da Marino, Machucha, Baldazari e dagli altri impiegati della “Mining Society” non cessavano, dall'altro di lottare con la vasta natura vergine, assaltando i versanti e le valli, le selve e le pareti per arare e seminare e cercando nuovi animali da addomesticare e allevare. Il fatto di essere spogliati delle loro proprietà non sembrava causare loro il minimo danno. Anzi offriva loro occasione per essere ancora più espansivi e dinamici, visto che la loro congenita mobilitá trovava un impiego allegro e utile. La coscienza economica dei sora era molto semplice: finché potevano lavorare in qualche posto e in qualche modo per vivere, il resto non aveva importanza. Solo il giorno che fosse venuto loro a mancare dove e come lavorare per sopravvivere, solo allora avrebbero aperto gli occhi e si sarebbero opposti ai loro sfruttatori con una resistenza sicuramente accanita. La loro lotta con i minatori sarebbe allora stata per la vita o per la morte. Sarebbe mai giunto quel giorno? Per il momento i sora vivevano in una specie di ritirata davanti all'invasione, astuta e irresistibile di Marino e degli altri.
I braccianti, da parte loro condannavano i furti ai sora, con compasione.

- Che sfacciatagine! - Esclamavano facendosi il segno della croce – Togliere loro i campi e persino le baracche! Sbatterli fuori dalle loro proprietà! Che furto!


Alcuni operai osservavano:


- Sono i sora che fanno male. Sono stupidi, se pagano loro il giusto prezzo, va bene; se no, va bene lo stesso. Se chiedono loro le scarpe ridono come fosse uno scherzo e le cedono subito, son bestie, son scemi! Peggio per loro! Che vadano al diavolo!


I braccianti consideravano i sora come fossero matti o fuori dalla realtà. Una vecchietta, madre di un carbonaio, tirò un sora per la giacchetta, borbottando rabbiosa:

Pezzo di animale! Perché regali le tue cose? Non ti costano lavoro? Che fai? Ti metti a ridere? Ma guardalo! Si mette a ridere?...

La vecchietta era rossa per l'ira, e quasi lo prende per le oreccchie. Il sora per tutta risposta, le portò un mucchio di olluco, che la vecchietta rifiutò dicendo:

- ma non te l'ho detto per farmi regalare qualche cosa. Riprenditi i tuoi olluco. Poi le venne un rimorso improvviso come avesse accettato olluco, e guardò il sora con tenerezza e compassione.
Un'altra volta, la moglie di un cavatore di pietra si mise a piangere, vedendoli tanto indifesi e incapaci di calcolo e malizia. Aveva comprato alcuni zucchini e invece del prezzo pattuito aveva detto , all'ultimo momento mettendo in mano a uno di loro quattro reali:

- Ecco quattro reali. Non ho altro. Va bene?
- Va bene mamma . Disse il sora

trad genseki

giovedì, giugno 23, 2011

gendronniere

Il paradosso del marxismo

C'è un paradosso nel marxismo, ed è che questa dottrina che si autodefinisce materialista appare, nei fatti come un ardito idealismo. Fino a che non si sappia superare la contraddizione, cioè farla passare all'opposizione, la qual cosa è la correlazione, non si va avanti. I molti lettori di Lucrezio sanno che cosa significhi salvare lo spirito negandolo; io ho spesso notato il contrasto tra i materialisti, che sono spiriti risoluti, e gli spiritualisti che sono spiriti stanchi. Ma qui bisogna vederci chiaro; tutta la difficoltá è riassunta in questa frase di Bacon, tanto conosciuta: “L'uomo trionfa sulla natura obbedendole”. Di cui il timoniere piú inesperto mostra l'applicazione; il timoniere, infatti non è uomo che neghi la potenza del mare; non è nemmeno il tipo che si metterebbe a pregare perché l'onda lo voglia cogliere a poppa e non sul fianco; ben al contrario, davanti alla forza spietata, me che egli sa essere fedele e senza malizia, egli agisce, cioè passa appoggiandosi su ció che resiste.
La stessa cosa vale per tutti i mestieri.

Chi non ha pesato come su una bilancia l'universo inflessibile, cosí ben coordinato in tutti i suoi movimenti, senza nessun pensiero, questi non è un uomo. L'infanzia consiste nel credere che, a forza di pregare e di sperare, le cosa andranno meglio. L'audace cerca soltanto una fenditura in cui appoggiare il piede, sicuro, prima di tutto che l'universo non bara. Questa posizione severa è propria di Descartes che avendo tolto ogni pensiero anche dal corpo biologico e dal proprio corpo e non vedendo in esso che particelle spinte e che esercitano una spinta, concluse che si poteva vivere a lungo se si giocava forte. Di fronte al corpo politico, tuttavia, che è il piú complicato di tutti non aveva progetti; si fidava della natura, cioè dei costumi, delle passioni, delle amicizie.Viveva come un Leviatano, come vive il selvaggio nella natura delle cose, togliendosi il cappello davanti a tutte.

Ora, chi vuole agire in questo campo è come il timoniere in mare: deve dapprima cogliere la legge meccanica, ció che resiste, che offre un punto di appoggio, che non inganna. Si tratta di leggere la politica come un gorgo complesso ma privo di spirito. Quando si presuppone lo spirito si debe ricorrere alla preghiera. Quindi nel mondo degli uomini bisogna cercare ció che non cede mai alla preghiera, cioè bisogna ritrovare nel mondo umano la necessitá naturale, dei bisogni, del lavoro, delle risorse.
Cosí come il muschio non spunta che nei luoghi umidi, l'uomo si estende come un vegetale. Negozi, fabbriche, banche, trasporto, immagazinamento, tutto si espande sulla terra secondo la stessa necessitá che una macchia di umiditá sul soffitto. Chi dimentica questa necessitá, muore: tutti i pensieri che hanno avuto una vita dipendono da questo tipo di necessitá inferiori. Ecco qua come finiscono tutte le nostre belle ambizioni: le ambizioni del guaritore, sono fatte a pezzi dall'avvento del chirurgo: ecco una riflessione virile che tiene finalmente conto della realtá esteriore, non uccide l'azione, ma le apre il cammino. Dal momento che l'acqua e il vento sono forze cieche, ecco che io posso navigare. Da cui segue la navigazione politica, che si basa sui bisogni, sugli utensili, sul lavoro, elementi ciechi, privi di intenzionalitá propria, che non barano. Attraverso questa nuova separazione dello spirito e del corpo, la volontá ritrova le proprie armi e mette a prova il suo potere. Uno dei termini illumina l'altro, come si dice, e come si dimostra in astratto: mentre, in ogni ordine di azione, quello che bisogna trovare è l'oggetto puro se si vuol salvare lo spirito puro. Da cui si evince che i nostri sociologi mistici sono dei maghi della pioggia. Invece, il minimo cambiamento nelle condizioni inferiori è come un colpo di remo nell'acqua; puó essere buono o cattivo; tuttavia una buona traversata dipende dalle stesse leggi di un naufragio, non vi è differenza, per quanto riguarda l'azione dell'uomo che relativamente a piccolissimi movimenti o lavori, diretti da uno spirito lucido e senza paura.

Alain
Propos sur des philophes
1961

trad genseki

martedì, giugno 21, 2011

La gazzetta del borgo

Paul-Louis Courier de Méré.

Parte Prima


Gazzetta del paese

Questo giornale non è letterario e neppure scientifico, è rustico. Per questo deve interessare a tutti coloro che la terra mantiene, che si nutrono di pane, magari con un po' d'aglio, e forse di qualche cibo piú elaborato. I redattori sono brava gente, vivono quasi tutti tra Pont Clouet e la Quercia schiantata, coltivatori, vignaioli, boscaioli, lavoratori delle segherie e mietitori le cui opinioni e i cui principi non cambiano mai, incapaci di fingere di avere altro in testa che il proprio interesse che , come ognun sa, è anche quello dello stato; tutto il resto, a loro, non importa convinti come sono che una volta saziati i loro stomaci tutti quanti hanno pranzato. Paul-Louis che ha studiato un po', ascolta i loro racconti, raccoglie i loro discorsi, quelli piú interessanti, e le loro sentenze e mette tutto nero su bianco, insomma scrive qualche articolo senza sottintesi, qui nessuno è tanto raffinato. Qui le cose e le persone siamo soliti chiamarle con il loro nome. Quando diciamo cavolo, cetriolo o zucchino, non stiamomica parlando della corte e dei principi. Se Pierone picchia sua moglie noi non scriveremo : “si è diffusa ieri la voce che Il Sig. G*P*”; oppure: “in certi salotti, ci si sussurra …" Noi raccontiamo alla buona, come si fa qui da noi, e proviamo compassione per i nostri poveri colleghi che devono soddisfare contemporaneamtei lettori che chiedono il vero e il governo che pretende che nulla di vero debba essere detto.

Il Signor Sindaco ha ascoltato la messa nella sua tribuna. Dopo il servizio divino, il Signor Sindaco si è messo al lavoro nel suo ufficio con il brigadiere della gendarmeria; poi i due hanno inviato il loro fattorino, il Gobbo, con un pacchetto per il Signor Prefetto da consegnare nelle sue mani. Lo sappiamo da fonte degna di fiducia, il fattorino è atteso con la risposta e la ricevuta; lo hanno visto passare accanto alla “Ville aux Dames”, dove si è bevuto un bicchiere. Quanto al contenuto del messaggio, nulla è trapelato. Si suppone che si tratti di qualche balordo che vuol ballare la domenica e lavorare la festa di San Gilles.

La Signora consorte del Signor Sindaco ha dato alla luce un signorino, al suono delle campane della parrocchia.

Cantano gli usignoli, arrivano le rondini: queste sono le notizie che giungono dai campi. Dopo un duro inverno e tre mesi di mal tempo in cui non si è potuto muovere la terra e arare, ecco che incomincia l'annata, i lavori riprendono il loro corso.

Charles Avenet è in prigione per aver parlato ai soldati. Tornando ieri da Saint-Maure, incontró alcuni soldati e li invitó all'osteria. In un attimo si fecero amici per la pelle; Avenet è stato a lungo sotto le armi; è membro, non cavaliere, della Legion d'onore, bevendo dalla bottiglia: - compagni, disse, per favore, dove andate col sacco affardellato? - Alla leva, risposero quei giovani -Bene! E afferrando un'altra bottiglia: - Che cosa ci andate a fare? - La guerra, chiaro. - Benissimo, rispose Avenet alla sua terza bottiglia: - dite un po', per chi andate in guerra? Scoppiarono a ridere, si misero a parlare di affari. Due gendarmi si trovavano nei pressi, conoscendo Avenet lo chiamano e gli domandano: - È meglio che te ne vada Avenet. Egli obbedisce e se ne va: i gendarmi pure. Ma poi torna, raggiunge i suoi ospiti e riprende il suo discorso. Allora lo arrestano. Non erano gli stessi, i gendarmi. L'hanno sbattuto in galera. Caso grave: ha detto quello che si dice tra soldati dopo essersi scolati tre bottiglie.

Non c'è verso di vendere una vacca. Le fanciulle erano care all'assemblea di Veretz. Tutti e tutte corrono a sposarsi per evitare la leva. Duecento franchi un giovanotto, senza una palanca, camicia e cappello per un anno. Una ragazza venticnque scudi. La piccola Maddalena non li accetta da Jean Bedout; lei non sa nemmeno fare il pane e mungere.

Si vedono nelle nostre campagne persone che, senza entrate, spendono e spandono, non sono dei nostri. Uno vende fiammifferi, l'altro, è venuto a vendere un cavallo, scendono alla locanda e si mangiano dieci franchi al giorno: stringono amicizia, giocano, pagano da bere la domenica, i giorni di festa o di assemblea. Parlano dei Borboni, della guerra di Spana, chiacchierano e fanno chiacchierare: è il loro lavoro. In cittá sono chiamati infami, nell'esercito spie, alla corte agenti segreti; in campagna ancora non hanno un nome, sono arrivati da poco: vanno aumentando e diffondendosi mano a mano che si organizza la morale pubblica.

Il Signor Sindaco è il telegrafo del comune; basta vederlo per sapere tutte le notizie. Se ci saluta vuol dire che l'esercito della fede ha subito qualche disfatta. Un saluto qua significa una sconfitta laggiú. Se passa impettito e fiero, una battaglia è stata vinta; marcia su Madrid, si calca il cappello bene in testa per entrare nella capitale spagnola. Se domani lo cacciano furoi, eccolo che ci abbraccia, ci da la mano, amico come prima. Da un giorno all'altro è affabile o brutale. Non puó mica durare; si aspettano notizie, e, secondo il giro che prendono le cose si ingrandiranno o le prigioni o il numero dei prigionieri.

Pierre Moreau e sua moglie sono morti, all'etá di venticinque anni. Il troppo lavoro li ha uccisi. Si dice: lavorare come un negro, come un forzato; si dovrebbe lavorare come un uomo libero.

Milon si è fatto quattro anni di prigione per le sue opinioni, nel 1815; sua moglie e sua figlia morirono di stenti: uscì distrutto. Ma non corretto. Le sue opinioni sono le stesse di prima, forse anche peggiori di prima. Quello che non amava adesso lo aborre. Nel comune ci sono dieci mal pensanti, che il sindaco fece arrestare un bel giorno e che soffrirono a lungo; per ricordare questo fatto, tutti gli anni il due di maggio si incontrano e vanno a pranzo insieme. Non bevono alla salute del sindaco e nemmeno a quella del governo. Quest'anno, il due di maggio, erano da Bourdon, alla locanda del cigno, finito il banchetto, mentre si alzavano da tavola, ecco passare il sindaco. Milon lo vede e lo indica agli altri; ognuno si morde la punta del dito. Poco dopo, per caso o a posta, ecco apparire il guardaboschi. Milon, senza dire una parola, si getta su di lui, lo getta fuori a pugni e a calci dandogli dell'infame, il poveretto fugge ben pesto. Arriva Mezzadra, il Signor Mezzadra, che possiede terra e vigna. Milon lo affronta: - Lei è monarchico? - Si, risponde Mezzadra, Milon con uno sganassone lo sbatte contro la porta. È proprio un grosso guaio, Milon si nasconde e fa bene. I pestati non lo hanno mica denunciato si tengono per sé i calci e i ceffoni. Il sindaco sta zitto. Come finirá? Chi lo sa! Bisogna vedere come andranno le cose mi Ispagna per il nostro esercito di soccorso ai reverendi padri gesuiti.

Trad. genseki

sabato, giugno 18, 2011

José Bergamín

In patria fui pellegrino
Fin dal giorno che vi nacqui
E lo fui tutte le volte
Che a viverci son tornato.

Ora che vi dimoro
Non cesso di rimanere
Pellegrino di una Spagna
Che in me piú non si trova.

Per questo non voglio morire
Adesso in questo luogo
Per non dare alle mie ossa
Riposo in terra spagnola.

*

Tremore di foglie non è,
D'albero che, nel vento
Quando scuote le sue fronde
Sembra che stia ridendo:

È musica senza parole
D'aria luminoso abbaglio
È rumore e mormorío
Di sfolgorante sussurro.

*

Chiunque meglio di me
Sa bene che sto morendo.

Io no

Lo sanno, quanti lo sanno
Come se fosse un segreto.
Lo sa se mi guarda un bimbo
Lo sa il cane che mi latra.

Io no

Lo sa nella notte scura
La fiammella tremolante.
Lo sa il fumo nel cielo
E la cenere ne fuoco.

Io no

Lo sa l'albero, l'uccello
L'acqua quieta che si increspa
Lo sa chi a me si avvicina
E se ne va sorridendo.

Io no

Anche il tuo cuore lo sa
Perché non vuole saperlo
E quando si rompa il mio
Lo sapranno tutti i morti.

Io no

trad genseki

venerdì, giugno 17, 2011

José Bergamín



José Bergamín

Lo scheletro di un uomo
Non è l'ombra del suo corpo
Solo è balocco della mente
Perché alla fine lo rompa.

La mia mente era ben viva
Come rideva tra le ossa
Adesso che è proprio morta
Ha spezzato anche lo scheletro.

Come il balocco di un bimbo
È lo scheletro di un vecchio
Non fantasma di una mente
Soltanto ombra di un sogno.

***

Io sto dicendo parole
Che voce non hanno né eco
Parole che non so nemmeno
Perché mai vado dicendole

Parole che non hanno suono
Parole senza pensiero
Parole che non capite
E che io neppure intendo.

Parole mute che sono
Messaggere del silenzio
Parole che ode soltanto
Chi sa ascoltare la morte.

***

Mai ho avuto nella vita
Ove distendermi stanco morto
Perché mai dovrei volerlo
Quando infine saró morto?

Avello non voglio né tomba
Non cassa di marcimento.
Trovate una fossa comune
Buttateci il corpo dentro:

o in mare, o nel mezzo del campo
Disteso sulla nuda terra
Perché lo consuma il sole
O se lo mangino i corvi.

***

Tutto è maschera di silenzio
Unamuno


Tutto quello che mi dici
E tutto quello che taci
Lo dice il rumor del vento
E l'acqua chiara scorrendo

Nella notte silenziosa
Nella stanza ove riposi,
Lo dice nel focolare
Il crepitar della fiamma.

Sottile in tanto silenzio
Oscuro che la confonde
Lo dice una campanella
Perduta nella mattina.

***

Tutte le porte del sogno
Per me si sono serrate:
A tutte vado bussando,
Ahimé nessuna si apre.

Che faró la notte intera
Notte che non ha mai fine
Sentendo che anche da morto
Non mi riuscirá di dormire?

Trad genseki
trad genseki