martedì, luglio 17, 2007

Prossimitá

Ogni lacrima è un grappolo d’occhi.

*

Com’è lontano il ramo
Del melo spezzato
Il suono liquido dell’organo
L’alito acre della marmitta
Il tavolo di legno della trattoria!
Con un dito cancello
Il semicerchio rosa
Tracciato dal bicchiere di vino
Come siamo lontani
Seduti faccia a faccia
Come siamo vicini
In distinto tramonto!

*

Essere il bastone spezzato
Nel riflesso dell’acqua
Immerso in questo tempo
D’implacabile verde
Eppure dritto nell’attimo -
Emerso.

*

Mi parli della tua gatta
Ma a quale distanza
Sono le tue parole dalla gatta?
Più morte delle tegole rosse
Su cui danza con passo straniero
Le nostre parole
Più prossimo al suo riflesso
Sui vetri dell’abbaino
Il suo essere viva
Di morto istante a istante morto.

*

Le nostre parole
Son cerchi concentrici
Sul lago dell’essere prossime
Ogni cerchio si allontana
Nell’onda del successivo.

*

Da silenzio a silenzio
Gocciola la musica
Quasi immobile
Nel tempo dell’udito.

*

E le lacrime?
Riflettono gli occhi
In schegge ricurve
Di tempo.

genseki
12/07/04 23.50

mercoledì, luglio 11, 2007

Historia y naturaleza

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La fine della Storia


Schiller
Sul gioco
Dalle “Lettere sull'Educazione estetica dell'uomo”
Lettera 27



L'animale lavora quando la molla che produce la sua attività è una privazione, e gioca quando questa molla é l'abondanza di forze, quando la sovrabbondanza della vita lo sprona all'attivitá. E persino nella natura inanimata si manifestano il lusso della forza e la vaghezza della determinazione che si potrebbero chiamare gioco.
*
L'uomo dovrebbe giocare soltanto
con la bellezza.
*
L'uomo gioca soltanto quando è umano nel senso pieno della parola, e è completamente umano solo quando gioca.
*

Questi testi di Schiller sono, presumibilmente, il punto di origine della tesi, oggi tanto discussa della fine della storia.
Il lavoro dell'uomo, spinto dalla privazione: privazione dei mezzi di sussistenza e di riproduzione, privazione della serenitá, privazione del senso della vita, privazione della libertá è il fattore che genera la storia. In questo senso Schiller è stato letto e approfondito da Hegel e da Hegel trasmesso al XX secolo e a Kojève che lo ha divulgato.
La storia è il prodotto dell'attività umana e come tale assolutamente perspicua per la conoscenza umana. Non v'è nessuna difficoltá per l'uomo a conoscere quello che ha prodotto egli stesso, o almeno non dovrebbe esservene alcuna, in linea di principio.co
Tuttavia il processo storico non è infinito, dipende dalla privazione e trova il suo limite nell'abbondanza.
Quando la privazione dei mezzi di sussistenza, quella della libertá e con esse tutte le altre privazioni si sono trasformate nelle rispettive abbondanze e quindi il lavoro non é piú necessario, necessariamente viene a cessare anche la storia.
Secondo Hegel, poi, l'uomo producendo la storia come prodotto della propria attivitá produce anche se stesso in quanto uomo.
Allora, se la storia cessa, in qualche modo cessa anche l'uomo.
Tuttavia, che cosa sotituisce l'attivitá è il lavoro quando l'abbondanza sostituisce la privazione.
Secondo Schiller è il gioco.
E qui incontriamo una contraddizione: Schiller dice, infatti, che l'uomo gioca solo quando è umano, ma se il gioco corrisponde all'abbondanza e se l'abbondanza corrisponde alla fine della storia e quindi alla fine dell'uomo come è possibile che il gioco sia così profondamente umano come Schiller lo pretende?
La contraddizione è già in Schiller, palese, quando egli afferma che l'animale gioca per l'abbondanza di forze e persino la natura inanimata pare giocare nel lusso delle forze che la innervano.
No il gioco non è umano.
In questo senso Kojève intendeva l'animalizzazione americana della fine della storia.
L'idea di animalitá di Kojève non risale a Hegel ma a Schiller. E da Schiller è giunta fino a Fukuyama.
Vi è, però, una dimensione del gioco che pare situarsi oltre l'animalitá: la bellezza.
Schiller dice che l'uomo dovrebbe giocare soltanto con la bellezza e dicendo questo delimita due campi: l'animalitá e la postumanitá.
Kojève chiamava la postumanità snobismo e la considerava realizzata nel Giappone dei Tokugawa.
Marx chiamava la postumanitá comunismo.
Snobismo è una sprezzatura tipica dell'acida arroganza di Kojève: nel gioco, infatti l'animale, l'uomo e la natura inanimata si collocano in una relazione differente da quella storica, ridefiniscono, nella bellezza i reciproci rapporti. Il terrore dello tsunami è cieco come quello delle guere neoimperialiste. È il terrore del gioco. È il volto spietato della bellezza che resta una possibilitá.
Un altro gioco è il sesso che si relaziona con le forme animali, liberate dalla necessitá.
In esso, forse, l'animalitá realizza la sua perfezione dialettica, il suo fine.
Ma le nostre menti si muovono come le onde che giocano con la schiuma il gioco della dinamica di forza e di luce.

lunedì, luglio 09, 2007

Dialettiche

Omne enim quod intelligitur et sentitur
Nihil aliud est nisi non apparentis apparitio,
Occulti manifestatio,
Negati affirmatio,
Incomprehensibili comprehensio,
Inefabilis fatus,
Inacessibilis acessus,
Inintelligibilis intellectus,
Incorporalis corpus,
Superessentialis essentia,
Informis forma,
Incommensurabilis mensura,
Innumerabilis numerus,
Carentis pondere pondus,
Spiritualis incrassatio,
Invisibilis visibilitas,
Illocalis localitas,
Carentia temporis temporalitas,
Infiniti diffinitio,
Incircumscripti circumscriptio.

Eriugena
Periphyseon III, 4, p2 CXII

***

Ogni cosa che si può comprendere o percepire con i sensi
Altro non è che apparizione di ciò che non appare,
Manifestazione dell'occulto,
Affermazione di ció che è negato,
Comprensione dell'incomprensibile,
Voce dell'ineffabile,
Porta del'inaccesibile,
Intellezione dell'inintellegibile,
Corpo dell'incorporeo,
Essenza del superessenziale,
Forma dell'informe,
Misura dell'incommensurabile,
Numero dell'nnumerabile,
Peso di ciò che non ha peso,
Corporalitá dello Spirito,
Visibilitá dell'invisibile,
Sito del non localizzabile,
Temporalitá dell'intemporale,
Definizione dell'infinito,
Circonferenza di ció che non si puó circoscrivere.

*

Ecco un inno apofatico, in cui ogni termine di una coppia pare annullare l'altra, pare negarla, togliendo così alla definizione ogni senso possibile.

Questo è quello che si coglie ad una prima lettura e il testo assume le caratteristiche di un ieratico sacrificio del linguaggio nel suo approssimarsi all'assoluto. Il linguaggio al cospetto di Dio brucia come la farfalla del racconto sufico. Le ceneri dell'insignificanza restano le sole tracce dell'unione, appunto, ineffabile.
Un'altra lettura, però, è possibile perché se i termini di ogni coppia si annullano reciprocamente la loro contiguitá, invece, afferma.

Un termine afferma un altro nega quello che è affermato dal primo, il risultato non é nulla ma l'unione di affermazione e negazione rappresentata dal verbo est in un'unitá superiore.
I due termini, infatti si negano, o, almeno uno nega l'altro, ma il verbo est la copula che li unisce, non è negata.
L'essere (est) è il nesso tra affermazione e negazione e non si identifica nè con una nè con l'altra, è superiore ad entrambe.

Essere è passaggio dall'affermazione alla negazione e dalla negazione all'affermazione. Ecco che la teologia apofatica si rivela una teologia dialettica.
Una dialettica luminosa nata tra le favole e i boschi dell'Irlanda nella pioggia e nella nebbia ad opera di un monaco che sará ucciso dai suoi stessi studenti e le cui opere saranno maledette dalla Chiesa per lunghi secoli. Oggi non so.
È una dialettica romanica coincisa e squadrata che profuma della libertá della foresta che si divincola appena dallo scongiuro e dell'incantesimo come una lorica di luce e clorofilla.

domenica, luglio 08, 2007

Ventanas

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Poesie

Ora che il marmo
Si frammenta e scheggia
Chi contempla i talloni
Delicati
Quando si solidificano barbe
In bianchi biscotti
In chiocciole gelate?
Eppure è carne
Che diede la forma
È fiato che spirava
Da altre bocche
Lassú presso le nuvole
Dove si intrecciano
Le volte delle scale con le ogive
È clorofilla piú antica del ritmo
Della misura astratta
Del marmo, dei basalti
Del granito
Di porfido o argilla:
Colonne
Allineate come svelti pioppi
Ad affermare la concretezza
Dello spirito
La dimensione collettiva del ricordo.

*

È un tessuto rosso
Di sabbia fredda
Depositata sulle sponde del fiume
A ondate successive
Ondate che durano
Ciascuna almeno un secolo
Cela nicchie dorate
Icone di vetro
Fiammelle d'olio
Limpide nell'umiditá verde
Di grotta
Dove l'alito si fa ragnatela
E l'udito si disfa
In lontani, possenti
Possibili tuoni
Di bronzi o rame.
Le trombe scalano le nuvole lassú
Dove le ali di marmo
Sono piú agili
Dei patetici frulli dei colombi;
Qua sotto, nel cuore dell'argilla
Su sfondi dorati
I santi barbuti invocano
Leoni copti
Con voci che sono ghirigori di sillabe
Smunte, confuse coi licheni
Con le rughe dell'erosione
E le gocce si fanno piú pesanti
Più verdi
Più dense
Finché en tremano le terse fiammelle
Come a un richiamo
Di notte irredimibile.

*

Vanno sulle chiome dei pini
Come su una distesa di dune verdi
Vanno verso l'orizzonte dei rintocchi
Là dove i voli diventano spirali
E il cuore dei colombi
Una noce di carbone.

*

Vuelos

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mercoledì, maggio 30, 2007

Pico della Mirandola


La vita
Da Walter Pater

***


Quando un giovane non dissimile dall’arcangelo Raffaele, quale i fiorentini lo dipinsero nella sua meravigliosa passeggiata con Tobia o Mercurio, come può essere apparso in un dipinto del Botticelli, o di Pietro di Cosimo, entrò nella sua stanza, forse Ficino pensò che si trattava di una forma non del tutto terrena e che non era senza il volere degli astri che lo straniero fosse giunto proprio quel giorno. Per questo la loro conversazione fu di gran lunga più intima e più profonda di quanto sia abituale per un primo incontro. Nel corso di questa conversazione Ficino concepì il progetto di dedicare gli ultimi anni della sua vita alla traduzione di Plotino, questo nuovo Platone, nel quale gli elementi mistici della filosofia platonica sono stati elaborati fino al limite ultimo della visione e dell’estasi.

Fu dopo molti vagabondaggi, intellettuali e concreti, che Pico giunse a Firenze. Nato nel 1463, egli aveva allora vent’anni. Si chiamava Giovanni e Pico come i suoi antenati, da Picus, nipote dell’Imperatore Costantino dal quale essi affermavano di discendere, e Mirandola dal nome della sua città natale, una piccola città che in seguito venne inglobata nel ducato di Modena, di cui la sua famiglia tenne a lungo la signoria feudale. Pico era il più giovane della famiglia, e la madre affascinata dalla sua memoria, lo inviò, all’età di quattordici anni alla famosa scuola di legge di Bologna. Fin dall’inizio ella sembrò avere presentimento della sua futura fama, credeva che una strana circostanza fosse accaduta al momento della nascita di Pico – l’apparizione di una fiamma circolare che era svanita improvvisamente, su muro della camera ove ella giaceva. Egli rimase tre anni a Bologna, e poi con una sete inesauribile e inarrivabile di sapere passò per le principali scuole d’Italia e di Francia, penetrando, come pensava, nei segreti di tutte le filososfie antiche e di molte lingue orientali. E con questo flusso di erudizione venne la speranza generosa, così spesso delusa, di riconciliare i filosofi tra di loro e con la Chiesa. Giunse infine a Roma e colà, come un cavaliere errante della filosofia si offrì di difendere 900 audaci paradossi, tratti dalle fonti più disparate, contro chiunque lo volesse. La corte pontificia, tuttavia, sospettava dell’ortodossia di alcune di queste proposizioni e il libro che le conteneva fu proibito dal Papa. Solo nel 1493 Pico fu assolto con un breve di papa Alessandro VI. Dieci anni prima egli era giunto a Firenze.

A noi resta l’orazione composta da Pico per inaugurare il suo torneo filosofico; il suo soggetto è la dignità della natura umana, la grandezza dell’uomo. Questo tema è comune alla speculazione del Medioevo e anche la teoria di Pico si fonda su una falsa concezione del posto nella natura della terra e dell’uomo. Per Pico la terra è il centro dell’universo: attorno ad essa, come punto fisso e immoto ruotanoola luna, il sole e le stelle, come servitori e ministri diligenti: E nel centro di tutto ciò si trova l’uomo, “nodus et vinculum mundi” e “l’interprete della natura”: questa famosa espressione di bacone appartiene davvero a Pico. “Tritum est in scholis, esse hominem minorem mundum, in quo mixtum ex elementis corpus et spiritus coelestis et plantarum anima vegetalis et brutorum sensus et ratio et angelica mens et Dei similitudo conspicitur”. Un luogo comune delle scuole! Ma certo esso acquisisce nuova forza e autorità, se lo si ode come Pico lo ripete, e per quanto falsa ne sia la base, la teoria ha la sua utilità. Quindi questa sublime dignità dell’uomo, eleva la polvere da lui calpestata fino a una comunione sensibile con gli angeli, con i loro pensieri e con i loro sentimenti e si lega ad essi non perché resa nuova dall’adesione ad un sistema religioso, ma per suo proprio diritto naturale. Questo proclama contraddice la tendenza cospicua della religione medioevale a disprezzare l’uomo, a sacrififcare in lui questo o quell’elemento, a farlo vergognare di se stesso, a mettere in rilievo la sua degradazione o gli accidenti dolorosi. Esso aiutò l’uomo a riaffermare se stesso, a riabilitare l’umana natura, il corpo, i sensi, il cuore, l’intelligenza, che fecondarono il Rinascimento. Leggere una pagina di uno dei dimenticati libri di Pico è come dare uno sguardo in uno di quegli antichi sepolcri in cui di frequente si imbatte chi viaggia nelle terre classiche con gli antichi oramenti e arredi disusati, propri di un mondo completamente diverso dal nostro ma in quel momento ancora nuovi.. L’intera concezione della natura è completamente diversa dalla nostra. Per Pico il mondo è uno spazio limitato, circondato da muri di cristallo, da un firmamento materiale; una sorta di giocattolo dipinto, questa mappa o sistema del mondo come un grande bersaglio o uno scudo nelle mani del Logos creatore, attraverso il quale il Padre crea tutte le cose quale lo vediamo in uno degli antichi affreschi del Campo Santo di Pisa. Com’è differente questa concezione infantile dalla nostra visione della natura, spazio illimitato di innumerevoli soli e la terra come un granello in un raggio; com’è differente questo strano timore, questa superstizione del quale essa riempie le nostre menti. “Le silence éternel des espaces infinis m’effraie” disse Pascal contemplando una notte stellata. Doveva essere piuttosto stanco, quando giunse a Firenze: Aveva molto amato e molto era stato amato, “vagabondo sulle colline illusorie del delizioso piacere”, ma il regno delle donne su di lui era giunto al termine, e molto prima del famoso rogo delle vanità di Savonarola egli aveva distrutto le proprie poesie d’amore in lingua volgare, che avranno un così garnde rilievo presso di noi, dopo la prolissità scolastica dei suoi scritti latini. Era con un altro spirito che egli compose un commentario platonico, la sola sua opera in italiano giunta fino a noi, sul “canto del Divino Amore” secondo la mente e l’opinione dei platonici cari al suo amico Geronimo Beniveni, nel quale presentando un’ ambiziosa serie di insegnamenti di ogni sorta e con una profusione di immagini tratte indifferentemente dagli astrologi, dalla Cabala, da Omero, dalla Scrittura, da Dionigi l’Areopagita, egli cercò di definire gli stadi attraverso i quali l’anima passa dalla bellezza terrena a quella invisibile. Un cambiamento era avvenuto in lui, come se il tocco della bellezza astratta e disincarnata venerata dai platonici fosse sceso su di lui.. Qualche barlume di ciò, giunto alla luminosità che nell’immaginazione popolare sempre risplende sulla morte precoce, fece dichiarare a Camilla Rucellai, una di quelle donne profetiche che la predicazione di Savonarola aveva infiammato in Firenze, quando lo vide per la prima volta, che egli sarebbe partito al tempo dei gigli, prematuramente, cioè, come i fiori di campo che appassiconoo per l’ardore del sole non appena sbocciati. Egli scrisse allora quei pensieri sulla vita religiosa che Thomas More tradusse in inglese, e che un altro traduttore inglse pensò di aggiungere al libro “dell’Imitazione di Cristo”. “Non è difficile conoscere Dio a condizione di non volerlo definire”: è un grande detto di Joubert. Scrive Pico ad Angelo Poliziano: “Noi possiamo amare Dio più di quanto possiamo conoscerlo o parlare di Lui. E finché si cerca con la conoscenza, non si trova mai quello che si cerca, mentre si possiede con l’amore ciò che senza amore si cercò in vano”. Nonostante questa fine sensibilità spirituale egli non potè mai – e in questo è il persistente interesse della sua storia – anche dopo la conversione, dimenticare gli antichi dei. Egli è uno degli ultimi che cercò seriamente e sinceramente di rivendicare la fede delle religioni pagane, ansioso di accertare il vero significato delle più oscure leggende, la più luminosa tradizione riguardo ad esse. Con molte idee e molta energia perseverò in questa direzione. Non divenne monaco, conservò “qualche cosa dell’antico fasto, le delicate vivande in piatti d’argento”, ma diede la maggior parte delle proprie ricchezze all’amico, il poeta mistico Beniveni, per utilizzarle in opere di carità, soprattutto la dolce carità di provvedere al matrimonio delle contadinelle di Firenze. La fine giunse nel 1494, quando, nel mezzo delle prediche e dei sacramenti di Savonarola, morì di febbre, il giorno stesso in cui Carlo VIII entrava a Firenze, il 17 di Novembre, nel tempo dei gigli – i gigli dello stemma di Francia, come disse il popolo, ricordando la profezia di Camilla. Fu seppelito nella chiesa conventuale di San Marco con il cappuccio e il bianco saio dei domenicani.

lunedì, maggio 28, 2007

Mantello verde che di varchi azzurri

Mantello verde che di varchi azzurri
Disseminato copri questo mondo
Come dell’orso fulvo la pelliccia
Copre la calda densità del corpo

Copri la mente mia che verticale
Scorrere lascia tutti i sentimenti
Coprila col tuo freddo senza verbo
Estraneo nel tuo morbido lamento

Che si disgreghi infine in ogni foglia
Esperimenti in ogni cellula il morire
Del carbonio partecipi alle doglie
Che ricombinano alte leggi feconde

Gocciolo come pioggia dalla gronda
Sui sassi esplodo in mille gocce grigie
Che riflettono ognuna interamente
Le nervature che tessono il mondo

*

Si sbriciola la sfoglia della vista
Al vento verticale che la investe
E vede da ogni scheggia che si stacca
Tutta la verde vita che rinnova

*

È morbida la vita senza verbo
Zattera sono nella sua corrente
I secoli attraverso dolcemente
Tra i dorsi di testuggini e caimani

E guardo le mie mani che si formano
Mutando squame e piume in dita in unghie
I miei occhi che creano quella sfera
Che si screpola in rami di molecole

È una spugna pulsante non un frutto
Gonfio di sangue e di brividi elettrici
Il mio cervello che lento si aggomitola
In grotte di granito in cavi ceppi

È il grido di un varano che mi sveglia
All’umida coscienza del fluire
Madido d’ogni liquido del mondo
Che utero mi fu di muschio e stelle

*

Con luce in scoppi mi scorgo avvistato
Da un volto in cui mi accorgo del mio volto
Apre la bocca ed io odo il mio grido
Nel fiato suo m’accoccolo in me stesso

L’odio e mi creo in crepe di volere
Come distante dal viscoso abbraccio
Dell’indistinta unità di fame e caccia
Mi raddrizzo mi accorgo dei miei piedi

Eretto infine brandisco lampo e rabbia
Mi afferro a un ramo ed una lancia scaglio
Sento la pietra tra le dita il bronzo
Uccidendo mi intaglio sullo sfondo

Dell’essere screziato che trascorre

*

Se c’era Dio è piovuto questa notte
Se disfatto in rovesci e cataratte
Poi l’alba è giunta in un velo di gocce
A dissetare il mondo appena nato

La pozzanghera riflette le galassie
Tutte le cime son gonfie di latte
S’apre l’umida valle al caldo soffio
Del vento fresco carico di semi.

23/05/2006 22.26
genseki

martedì, maggio 15, 2007

Gramsci

GRAMSCI e L'ISLAM

L'Evoluzione dell'islam
E' conciliabile l'Islam con il progresso moderno?
Mi pare che il problema sia più semplice di quello che lo si voglia far apparire, per il fatto che implicitamente si considera il cristianesimo come inerente alla civiltà moderna, o almeno non si ha il coraggio di porre la quistione dei rapporti fra il cristianesimo e la civiltà moderna.
Perché l'Islam non potrebbe fare ciò che ha fatto il cristianesimo?
Mi pare anzi che l'assenza di una massiccia organizzazione ecclesiastica del tipo cristiano cattolico dovrebbe rendere più facile l'adattamento.
Se si ammette che la civiltà moderna nella sua manifestazione induindustriale-economica-politica finirà col trionfare in Oriente (e tutto prova che ciò avviene e che anzi queste discussioni sull'Islam avvengono perché cè una crisi determinata appunto da questa diffusione di elementi moderni) perché non bisogna concludere che necessariamente l'islam si evolverà? Potrà rimanere tal quale? No: già non è più quello di prima della guerra. Potrà cadere d'un colpo? Assurdo. Potrà esssere sostituito da una religione cristiana? Assurdo per le grandi masse...
In realtà la difficoltà più tragica per l'Islam è data dal fatto che una società intorpidita da secoli di isolamento e da un regime feudale imputridito (...) è troppo bruscament messa a contatto con una civiltà frenetica che è già nella sua fase di dissoluzione.
Il Cristianesimo ha impiegato 9 secoli a evolversi, a adattarsi, lo ha fatto a piccole tappe.
L'islam è costretto a agire vertiginosamente, ma in realtà esso reagisce proprio come il Cristianesimo: la grande eresia su cui si fonderanno le eresie propriamente dette è il "sentimento nazionale", contro il cosmopolitismo teocratico.
Appare poi il motivo del ritorno alle origini tale e quale come nel cristianesimo; alla purezza dei primi testi religiosi contrapposta alla corruzione ufficiale. I Wahabiti rappresentano proprio questo.

Quaderno I
p. 247

*

Cazorla

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giovedì, maggio 10, 2007

Fenomenologia dello Spirito II



In qualche punto dell'opera immensa di Agostino, Vescovo di Ippona, si trova una commovente prova dell'immortalitá dell'anima, che mi colpì, molto tempo fa, nel corso di una mia superficiale navigazione nel mare di quelle pagine.
La prova, che riferisco qui secondo quanto si è depositato nella mia memoria, è la seguente:

“Il sapere è infinito e non può essere conosciuto nella sua totalitá per mezzo di una vita mortale. Conoscere, tuttavia, è lo scopo per il quale l'uomo è stato creato. O forse, non ricordo bene, conoscere il Bene è lo scopo supremo della vita umana. Se le cose stanno così vi è una contraddizione che solo l'immortalitá puó sanare. Una contraddizione che da scacco alla morte e che parrebbe garantire all'anima in angoscia una speranza piú solida del grido del desiderio: uno scopo infinito non puó essere in ordine a una vita finita. La vita non potrebbe mai raggiungere il sapere. Come Achille non puó raggiungere la tartaruga”.

Piú o meno è questo, il pensiero di Agostino, come lo ricordo adesso.
Vorrei, invece, poterlo citare in latino, inciso nella bellezza marmorea di quella lingua, preciso e tagliente e nello stesso tempo impotente a consolare.

Purtroppo non mi ricordo nemmeno in quale opera lo avevo letto, anche se ora, scrivendo mi pare sin trattasse di un dialogo.

Mi é ritornato alla mente, ora, mentre leggevo il noto e terribile passo della Fenomenologia Hegeliana:

Se, infatti, la bellezza impotente odia l'intelletto, ció avviene perché si vede richiamata da questo a compiti che essa non è in grado di assolvere. La vita dello Spirito, invece, non è quella che si riempie di orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa. Lo Spirito conquista la propria veritá solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta. Lo spirito è questa potenza, ma non nel senso del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo, come quando ci sbarazziamo di qualche cosa dicendo che è o che non è falso, per passare subito a qualcos'altro. Lo Spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e si sofferma presso di esso. Tale soffermaris è il potere magico che converte il negativo nell'essere.
Hegel, Fenomenologia della Spirito

Qui il conoscere integra il nulla. O meglio il conoscere integra la nullificazione. Il soggetto che conosce conosce l'infinito solo facendo esperienza della sua finitezza. L'infinito senza la finitezza non sarebbe nemmeno definibile come infinito, non sarebbe infinito perchè per essere tale debe contrapporsi a qualche cosa che lo neghi come tale.
Questa cosa è il soggetto. Esso conoscendosi nella “disgregazione assoluta” permette all'assoluto di essere conoscibile in quanto tale.
Insomma, la prova di Agostino è la prova di qualcuno che si riempie di orrore davanti alla morte e si preserva integro dal disfacimento e dalla disgregazione. In questo modo, tuttavia, precludendo il cammino che porta dal sapere all'essere, che unisce l'essere con il conoscere.
Pare che tutte le prove dell'immortalitá dell'anima siano matrici di questa preclusione.
Così in poche righe vado trascorrendo dal luminoso riposo miniato della speranza del retore africano alla notte germanica.
La notte famelica dei lupi. La notte del gelo che corrode la carne e l'anima.
Eppure il cesto di frutta, mele e arance che fisso davanti a me, è un cesto di frutta solo per chi scompare, solo per chi accetta di non essere davanti al non essere la frutta è luminosa come il mondo, ed egli non necessitá altro nutrimento che il suo succo.
genseki

martedì, maggio 01, 2007

Corniglia


Fenomenologia dello Spirito


Sono linee molto conosciute, quelle che seguono, molto commentate, e che tuttavia, rilette ancora una volta, senza averle cercate, nelle note a pié di pagina di un libro negletto catturano, avvincono, avvolgono il pensiero in un movimento che lo porta di stupore in paura.
Qual è qui la relazione tra Spirito e coscienza? Perché ció che incontra la morte è la coscienza in quanto autocoscienza e non lo Spirito in quanto Spirito.
Lo Spirito che diventa chiaro e trasparente a se stesso, autoevidente nello svolgimento completo della sua vicenda è come tale anche autocoscienza, non solo coscienza, è soggetto Il nulla, la morte è solo della coscienza del soggetto, è essa che le va incontro e quindi è solo attraverso di essa che lo spirito conosce la negatività.
Perché v`è morte solo dove c'è coscienza. Tutto il resto è immune alla morte anche se non è libero dal nulla.
La morte è la forma che l'incontro con il nulla prende per la coscienza. Cosí la morte è sempre esperienza di un soggetto. È la possibilitá, la necessitá dell'incontro con il nulla che permette l'emergere del soggetto.
Il soggetto è lo spazio dell'attesa della morte. Il soggetto è il punto necessario in cui lo Spirito raggiunge la pienezza del contatto con il negativo.
Come vi si mantiene?

Se, infatti, la bellezza impotente odia l'intelletto, ció avviene perché si vede richiamata da questo a compiti che essa non è in grado di assolvere. La vita dello Spirito, invece, non è quella che si riempie di orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa. Lo Spirito conquista la propria veritá solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta. Lo spirito è questa potenza, ma non nel senso del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo, come quando ci sbarazziamo di qualche cosa dicendo che è o che non è falso, per passare subito a qualcos'altro. Lo Spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e si sofferma presso di esso. Tale soffermaris è il potere magico che converte il negativo nell'essere.
G.F. W. Hegel Fenomenologia dello Spirito, a cura di V. Cicero, Milano 1995 p. 87

genseki


venerdì, aprile 27, 2007


Maresa di Noto

L’albero secco riposa
oltre la coltre dei grigi e la neve
che lo ripara.
Non c’è fretta, pare,
nel nucleo intanto tutto risorge.

Kunming

Accanto a Dio é la bellezza del ritorno
Corano III, 12-14

*

A Kunming fioriscono i ciliegi
Senza interruzione
Per mesi e per distese
Dove dormono e lottano
Bufali e leopardi
Avvinti in corna e denti
Tra gli alberi del te
Superbe colonne vegetali
Arroganti come divinitá
Non credute
Non venerate
A Kunming fioriscono i ciliegi
In nuvole di rose accese
Fior di ciliegio
Foglia di te, torri di bambú
Son vecchi sogni congiunti
Esplorali!
A Kunming fiorsicono i ciliegi
I sogni nuovi
Sono leggeri
Li porta la Primavera
Che resta qui per sempre
Dove la storia é morta
Sono incubi sottili
Appena un po´nauseabondi
Tra gli alberi del te
Nella luce di Kunming

*

Fu da dentro una lacrima

Fu da dentro una lacrima
Che finii per vederla
Madida di primavera
Gocciolante di luce
La cittá che durava
Di pietra melancolica
Con le sue scalinate
Le cascate di fiori
Libera dal mio sguardo
Pura senza i miei passi
Ormai che io non c'ero
Esisteva davvero

*

Se mi distolgo
È il mondo che ritorna
Ad essere davvero
Luce per occhi morti
Frutto per mani vuote
E stillare di succhi
Dal cuore delle palme
Solo
Se mi distolgo
Mi sorge
Vero il Mondo

*

Perché le cose siano
Soltanto è necessario
Distogliere la vista
E rallentare il cuore

Per un istante
Allora
Saranno veri i pini
Che il calore del sole
Dissolve in luce verde

genseki

mercoledì, aprile 04, 2007

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La dialettica


Non è evidente che la tendenza a porre l'infinito nel finito e viceversa è dominante in tutte le indagini e in tutte le conversazioni filosofiche? Questo modo di pensare è eterno come l'essenza di ciò che in esso si esprime, non è cominciato ora, non terminerà mai. E', come dice Platone, l'immortale, immarcescibile caratteristica di ogni indagine. Il giovane che lo ha provato per la prima volta se ne rallegra come se avesse trovato un tesoro di saggezza, e reso ardito dalla propria gioia, intraprende con piacere qualunque indagine, ora riunendo tutto quello che capita nell'unità del concetto, ora scomponendolo e dividendo tutto di nuovo in una pluralità. Questa forma è un dono degli dei agli uomini che Prometeo trasse dal cielo alla terra con il fuoco.
Dal: Bruno

lunedì, aprile 02, 2007

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Il gelo le aveva serrate, strette

Il gelo le aveva serrate, strette
Nella sclerosi delle sue dita bianche
Le fonti
Tra il muschio fatto gioiello,
Come gioiello spento
E perfetto, immoto
Nel tempo.
Ora un lieve calore di febbre
Sale dalla terra sabbiosa
Si addensa sotto la coperta
Delle foglie morte.
E piano piano cominciano a stillare
Vorrebero scorrere
Le lacrime da occhi
Che più non vedono il cielo
Sul bosco fitto del pensiero.

genseki
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Peter Sloterdijk

Filosofia e tossicomania


I medici omeopati del XIX secolo pensavano che il praticante deve per prima cosa sperimentare su se stesso le medicine che prescrive poi alla sua clientela. Diciamo che un buon filosofo e’ una specie di tossicomane illuminato e che il suo sapere consiste precisamente in una polifonia dell’avvelenamento. Questo per me significa che il sapere filosofico non e’ soltando il risultato di una riflessione approfondita, e nemmeno un’espressione di se’ come soggetto, ma il risultato di una specie di suceso immunologico. La verita’ deve essere interpretata, secondo me, come un fenómeno immunitario che il discorso del filosofo contemporaneo genera alla fine di una serie di vaccinazioni o di autoavvelenamenti. Nelle reazioni del pensatore moderno emerge un nocciolo di verita’ che non e’ che la lotta del sistema che sopravvive in una serie di produzioni di anticorpi, logici come semantici, che fanno barriera all’invasione di virus ostili: questo modello e’ secondo me una buona risposta alla
domanda: che cos’e’ una saggezza contemporanea? Il pensatore cotemporaneo e’ il multitossicomane, forte di una lunga serie di piccole morti e di reazioni immunitarie, che sfugge alla definizione classica e universitaria di logico discursivo. Io avvicinerei questo alla poesia contemporanea che libera la capacita’ di allucinare del suo autore.

Shelling

L'universo dorme come in un germe infinitamente fertile, con la pletora delle sue forme, la ricchezza della sua vita, l'esuberanza delle sue manifestazioni, senza fine nel tempo, ma qui immediatamente presenti, in'unità eterna: passato e futuro, entrambi infiniti per il finito, uniti, qui sotto manto comune.

*

Unamuno

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Aquila

Aquila bianca che bevendo luce
Del sol eterno con lucide pupille
A noi la doni, pellicano, nel sangue
Delle tue stesse viscere mutata
Aquila bianca perché nei tuoi occhi
Veglia una nube nera, cupa chioma
Di nazareno? Ci fa luce, o torcia!
Il cuore tuo che ci illumina ardendo
Ci avezza a far del nostro sangue luce
Della tua luce, Tu che sei quell’Uomo
Che il mondo rischiara pei mortali.
Luce, Cristo Signor, la luce é vita!
Quando moriam nelle tue bianche braccia,
Le ali della Morte Imperatrice,
Ci sollevano su fino a quel sole
Ove si perdon gli occhi nostri e miran
Volto di Veritá quello che uccide
L’uomo perche’ rinasca, Aquila bianca
Che a gran sorsi bevendo viva luce
Del Sole Eterno con occhi divini
Ce la doni nel sangue che hai versato
Portaci a gustar del Sole eterno,
Con gli occhi nostri, qual ne sia la luce,
A contemplar la Verità nel viso.
Cerchi la nottola che la luce abbaglia
Nel buio la sua preda. Aquile sono
L’anime nostre che vivono morendo
Per contemplare il volto del Signore
Sguardo di pura fede che non pieghi
Al raggio di quegli occhi abbacinanti
Di Verità del Sol che non si estingue
D’Iddio dal volto che ci da la vita
Quando con il suo sguardo ce la toglie.!
***
Bianco lino il tuo corpo, frágil tela
Che dalla grigia terra Iddio filando
Tessé e tinse e ne vesti’ il Pensiero
D’un nudo ed invisibile vestito
Donando al mondo di che illuminarsi
Luce della Parola, eterna cappa
Ricamata di stelle innumerevoli.
Si tinse il lino di porpora regia
Estratta dall’abisso dell’oceano
- Ove giunti riposano coloro
Che furo e che saranno – e della Morte
Fu sudario d’amor nell’immolarla.
Con mano irata il popolo a strattoni
Denudo’ la Parola creatrice,
Ma Ella raccogliendo il suo vestito
Di nuovo se lo cinse come un manto
E lo tese qual volta al nostro cielo.
Il Fattor del paesaggio illimitato
Di greggi d’astri e soli pellpellegrini
Che l’orbe nostro – spenta scintilla traen –
Dalle ceneri sue ando’ tessendo
Con incorporee mani tenebrose
- Che son strumenti dell’onnipotenza -
Per nove lunghi mesi dentro il seno
Oscuro d’una vergine la tunica
Che rivestito al fine lo mostrasse
All’anime sgorgate dal suo senno.
Trad. genseki

mercoledì, marzo 28, 2007

Rivelazioni

La Rivelazione di Muhammad è, temporalmente, la terza delle grandi rivelazioni semitiche. Il nucleo della Rivelazione di Muhammad é il tawhid ovvero l'unita, il farsi Uno di Dio, o il fare che Dio sia uno. Dio, nella prospettiva del tawhid non è separato dal mondo, non è altra cosa rispetto al mondo ma, piuttosto la totalità di tutto il Reale, il Reale che è Uno E non si tratta di un Reale statico ma che si ampia senza sosta e si modifica. Il Reale nella prospettiva del tawhid non é un dato, ma deve essere realizzato, vissuto, trasformato, ampliato.
L'Uno Reale integra il divenire.
In questo quadro la Rivelazione di Muhammad non è la negazione delle Rivelazioni precedenti, secondo il Corano, infatti, tutti i profeti sono uguali e Muhammad è soltanto l'ultimo di essi in ordine cronologico. La molteplicitá delle Rivelazioni è manifestazione di un Dio che diviene ampliandosi, modificandosi, estendendosi come Reale. Il Corano è l'ultima Rivelazione peró essenzialmente, non contiene un messaggio differente da quello delle altre due. La torah e il Vangelo sono contenuti in esso nella loro totalità. Contemporaneamente il loro nucleo è interpretato, realizzato e ampliato. Il succedersi temporale delle Rivelazioni corrisponde a un Dio, a un Reale che muta divenendo incessantemente.
Lo spazio del Reale in cui sono possibili le Rivelazioni è il Mondo Intermedio, il Mondo Imaginale, il Malakut.
In questo spazio e secondo le leggi che governano le relazioni di causa ed effetto e di successione al suo interno si svolgono anche tutte le Rivelazioni che restano nell'ambito della coscienza individuale e tutte le Rivelazioni che non giungono mai ad essere attuali nel mondo fenomenico.
Qui tutti possono incontrare Yibril e morire alla sua voce e dissolversi al vento della sua parola. Qui ogni Rivelazione si comprende alla luce di tutte le altre. La Realtà Unica, infatti, contiene tutte le Rivelazioni sia quelle effettive che quelle solo possibili e tutte le loro interpretazioni. Ne consegue che tutte le Rivelazioni sono vere proprio in quanto sono reciprocamente contradditorie.
Aprirsi alla Rivelazione significa aprirsi al divenire Uno del Reale.
In questo senso l'ultima Rivelazione, quella di Yibril a Muhammad è anche quella che ponendosi con le altre due nella particolare relazione che ho tentato di descrivere nelle linee precedenti definisce la Rivelazione come apertura assoluta all'assoluto.
genseki

giovedì, marzo 22, 2007

Biclette di Pechino II

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Omaggio alle biciclette di Pechino




Era un fiume nero e grigio
Un serpente di polvere e fatica
Calde nubi di fiati
Sudori
Bambini come gomitoli di sporcizia e
Stanchezza
Nell'alveo dei grandi viali di pioppi
Nel profumo acido della primavera
Nel molle calore di agosto
E nel freddo fumoso dell'inverno
Era un fiume nero e grigio
Che cigolava, crepitava
Frusciava
Sotto il cielo altissimo
Punteggiato di aquiloni neri
Rotanti attorno a un asse inestimabile
Il Fiume delle Biciclette di Pechino.
Biciclette da trasporto pesante
Portavano acqua pacchi vetri
Verdura escrementi carne rossa penzolante ai lati
Foglie morte
Viluppi di fili metallici palle di vestiti
Giocattoli rotti scarpe e pneumatici
Biciclette ristoranti
Con fornelli ravioli e secchi di salsa di soya
Biciclette di mamme
Con un bambino che faceva i compiti
Era un fiume di povertá e coraggio
Il fiume delle biciclette di Pechino
Che mi trascinava da Xizhimen a Haidian
Come un atomo di carne esotica
Dissolto in un grande corpo affaticato
Dedicato ad uno sforzo senza fine.
Presto scompariranno
Le biciclette di Pechino
Le biciclette nere con le scritte rosse
Le ultime riposano ai lati delle strade
Agili ma invecchiate, eleganti ed ingenue
E io non so perché provo
nostalgia vergognosa
Di una povertá che si allontana.

genseki
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giovedì, marzo 01, 2007


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Ibn Arabi e il Mondo Imaginale



"Barzakh" è la congiunzione di due mari: il mare dei significati spirituali e il mare degli oggetti sensoriali. Le cose sensoriali non possono essere significati e i significati non possono essere sensoriali. Peró il mondo Imaginale o "barzakh", da forma corporea ai significati.
Il Mondo Imaginale è uno dei concetti piú significativi dell'opera di Ibn Arabi: esso coincide in parte con il "barzakh" e con il ""barzakh"”.
Nella teologia classica islamica il "barzakh" è lo stato intermedio che segue inmediatamente la morte:

Li ognuno esperimenterá di nuovo quello che fece in vita poi saranno restituiti ad Allah il lo vero Signore e si dissolveranno tutte le loro illusioni”- Corano 10, 30.

Lo spazio nel quale avviene questa esperienza è quello che nella teologia viene chiamato "barzakh".
Nel "barzakh" il contenuto del proprio sé si riversa all'esterno e il suo contenuto si esperisce come quello di un universo che ruota intorno a noi, proprio come in un sogno in cui paure e ansie possono assumere forme e apparenze concrete, nel "barzakh" si esperimenta come concreta la sostanza propria dell'anima che si manifesta in un vero e proprio mondo di immagini reali. La realtá del "barzakh" é, tuttavia, piú reale della realtá del mondo in cui viviamo, relativamente alla gerarchia della creazione e, quindi la nostra esperienza nel "barzakh" é corrispondentemente piú intensa. Il se si trova ad interagire con un universo che non é nient'altro che una rappresentazione, un'immagine viva della nostra interioritá, uno specchio della nostra autentica natura.

Cosí il "barzakh" puó assumere l'aspetto di un giardino del Paradiso o di un incubo o di una mescolanza delle due cose, secondo il contenuto proprio del se di ciascuno..
Nel pensiero di Ibn Arabi questo concetto teologico è profondamente rimodellato, ferma restando la sua base coranica.

In Ibn Arabi, il termine "barzakh" ha un duplice significato. Egli lo impiega, in primo luogo, per indicare il mondo delle immangini (amtal) che rappresenta il quarto dei cinque mondi o awalim, in ordine discendente, ovvero il mondo che, dal punto di vista ontologico, costituisce il terreno intermedio di contatto tra il mondo puramente sensibile e quello puramente spirituale. Questo è il mondo nel quale viene a trovarsi l'anima dei defunti prima del Giudizio, ma è anche il mondo in cui ha luogo il “Tawhid”, la rivelazione profetica che quindi in qualche modo coincide con l'esperienza della morte, così che morire sembra significare aderire definitivamente al “Tawhid”, farsi uno con la propria profezia.
Il secondo significato di "barzakh" in Ibn Arabi è quello di: “stato intermedio che si situa sempre tra due Awalim”. Tra due Awalim c'è sempre un "barzakh".
Gli awalim sono 5 e quindi i "barzakh" possibli sono 4, secondo lo schema seguente:

Mondo dell'essenza
"barzakh" 1
Mondo dei Nomi
"barzakh" 2
Mondo dell'azione
"barzakh" 3
Mondo delle Immagini
"barzakh" 4
Mondo sensibile

Il primo impiego del termine "barzakh" si situa sul piano esistenziale, sul piano dell'esperienza individuale e dell'esperienza profetica.
Il secondo impiego invece si situa sul piano ontologico.
Per comprendere come sia possibile l'impiego di questo stesso termine in due accezioni apparentemente tanto diverse occorre tener presente che il Mondo delle Immagini è esso stesso un "barzakh", dal momento che è un piano intermedio tra il mondo sensibile e gli altri mondi che sono tutti mondi assolutamente spirituali.
Il Mondo delle Immagini, cioè, è un Mondo-"barzakh".
Estendendo questa interpretazione si puó giungere anche ad affermare che anche il Mondo dei Nomi e il Mondo delle Azioni, sono "barzakh" uno relativamente all'altro e il primo al Mondo dell'essenza, il secondo al Mondo delle Immagini.
Lo schema precedente dovrebbe quindi essere riletto nel modo seguente:

Mondo dell'Essenza
Mondo-"barzakh" dei Nomi
Mondo-"barzakh" delle Azioni
Mondo-"barzakh" delle Immagini
Mondo Sensibile.

Effettivamente scrive Ibn Arabi:
Tra questo mondo e la resurrezione ci sono i livelli intermedi "barzakh" ciascuno con i suoi limiti ... essi non né realtá essenziali, né puri effetti. Essi dicono a Dio: “Sia” e Dio li crea, come puó un uomo mortale fugire alla loro influenza? ...
Attraverso di loro appaiono i segno e i miracoli...
La parola “"barzakh
"” è l'espressione di qualche cosa che separa nel modo in cui una linea separa la luce dall'ombra senza che una si confonda con l'altra, ma nessuno dei sensi puó percepire che cosa separi i due elementi anche se l'intelletto comprende che c'è qualche cosa che separa, la separazione percepita dall'intelletto è per l'appunto il “"barzakh"”.

A questo punto dell'esposizione si puó intuire che qualche cosa di analogo al "barzakh" si trova nella tradizione buddista degli stati di bardo.

Continua Ibn Arabi:

“Il “"barzakh"” è qualche cosa che separa il conoscibile dall'inconoscibile, l'esistente dal non esistente, l'intellegibile dall`inintellegibile, l'affermato dal negato.
Esso è comprensibile in se stesso ma non é nient'altro che immagine immaginata. Questa immagine immaginata non é nè interamente esistente e neppure interamente inesistente, non é interamente conoscibile né inconoscibile, affermata o negata.
È come quando si percepisce in uno specchio: la persono sa che in un certo senso ha percepito qiualche cosa e in un certo senso non ha percepito nulla.
Alcuni uomini percepiscono questa dimensione nel sogno, e altri dopo la morte. La perana vede allora qualitá e caratteristiche
morali e spirituali come forme autosussistenti con le quali conversa come se fossero corpi umani”.

Qui, invece, quello che viene irresistibilmente in mente sono le conversazioni di Dante nel corso dl suo viaggio. Che si tratti di un viaggio nel “"barzakh"”?

Il ""malakut"" è la parola con cui il "barzakh" è definito nella tradizone iraniana dell '”Ishraq”.
"malakut"" e "barzakh" coincidono. "barzakh" peró è anche il mondo dgli angeli “malaika” , delle anime. In "malakut" si svolgono tutti i riti e si ripetono tutti i miti, hanno luogo tutte le rivelazioni. È il mondo dell'immaginazione oggettiva. Questo mondo ha una sua storia e una sua geografia. La sua storia possiamo conoscerla grazie al taw'il. La geografia del "malakut", il suo paesaggio, sono la proiezione dei nostri stati interiori, in questo mondo essi prendono la forma di fiori o di alberi, di palazzi, di vergini, di laghi e di montagne. Queste forme di "malakut" sono esteriori ma contemporaneamente costituiscono realmente l'interioritá psichica dell'uomo che si trova immerso in esse. Sono i suoi attributi, i suoi modi di essere. Per questo, secondo Ibn Arabi, l'atto stesso è la sua retribuzione e la retribuzione è l'atto stesso.
Oggi, nella nostra societá ogni forma di fiducia nelle rivelazioni e nel “taw'il” è letteralmente scomparsa dal senso comune.
Uno spazio immenso è rimasto vuoto: lo spazio oggettivo della rappresentazione degli stati interiori.
Esso viene riempito con i prodotti dell'industria dell'immaginario: il Mondo Intermedio, il “barzakh” è per moltissimi il mondi della televisione, dei Grandi Fratelli, dei videogiochi, il mondo delle rivelazioni e delle profezie è considerato superstizione, esoterismo, ignoranza esotica.
L'aggressione della merce penetra nel mondo interiore e lo inaridisce, chiude l'accesso alla veritá del corpo, alla realtá del nostro essere nel mondo.
Al nostro interno dentro di noi, cerchiamo la nostra terra la patria che ha il nostro stesso volto.


Gli Arconti


Sottile è la presenza degli Arconti
Appena un incresparsi
Della Luce
Ad avvertirla per primi
Sono i topi
Si stringono nei cappottini
Di pelo grigio
Con consumata umiltá
Poi egli distende le braccia
Nell'aria tiepida, profumata
Ad accogliere i chiodi
Nei palmi
E tutto si bagna
Di sangue
Di luce.
*
La cittá di Jabalsa
È tutta di rame
Gli Arconti sono voci concave – qui -
Rintocchi
Tra i vicoli rossi
Sulle piazze roventi.
La ali di Yibril
Hanno il suono
Di mille vetrate
Frantumate
In una notte di nebbia
Ma non c'è nebbia
A Jabalsa
Solo un cielo
Azzurro o nero
Puro come uno smalto.
Accanto
A questo antico pozzo
Lo attendiamo
Fedeli
Nell'ora esatta dell'appuntamento
Una brezza leggera
Ci sfiora
Profumata di fieno
Montano
Nella terra di Hurqalya.
*
genseki

mercoledì, febbraio 21, 2007

Sarà più bella

Sará piú bella Genova
Quando non ci sarò
Genova di latte, marina
Bagnata di luce sottile
Che piove sul grigio dei tetti
Genova di pietre antiche
Di fiori a cascata dai muri
Di pietre che stillano amore
Di pietre che covano il dolore
Sará piú bella Genova ancora
Sará davvere Genova ai miei occhi
Se non potranno vederla
Svegliarsi nei nodi dei ponti
Di ferro e cemento
Salati
Nel tepore dei fiati
Nello sporco dei treni
Pendolari
Genova nel mio abbandono
Nel mio lasciare doloroso
Di certo non potró rivederla
E questo la rende perfetta
Che esista senza la mia vista
Che resti
Senza di me la stessa.

genseki

20/02/07

mercoledì, febbraio 14, 2007

Islam zen



Yarir Ibn 'AbdAllah al-Bayili raccontò:

Eravamo seduti con il Profeta quando questi guardò verso la luna, ed era a quattordicesima notte del mese, notte di luna piena e disse:

- Vedrete il Vostro Signore direttamente, come ora state vedendo questa luna, senza che nulla turbi la Visione -.

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lunedì, febbraio 12, 2007

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Nainuema

Canto della creazione Huitoto
Non esisteva nient'altro
Solo un fantasma esisteva
Il Padre toccó una chimera, afferrò qualcosa di misterioso
Non esisteva nulla. Con un sogno il padre Nainuema
Trattenne quell'immagine e cominció a pensarla
Non c'era nemmeno un palo per legarla; con un filo immaginario del suo fiato
La legó.
Fu alla ricerca del fondamento della pura chimera.
Ma laggiú non c'era proprio niente.

“Eppure, qualcosa la sto allacciando!”.

E non c'era niente.
Continuó la sua ricerca il Padre,
A tentoni cercó la base di quella cosa il suo posto vuoto e fittizio.
Avvolse il vuoto con il filo sognato. Un filo di fumo.
Gli appiccicó una gomma magica,
Con un altro sogno magico lo legó.

Afferró il fondo illusorio e lo calpestó molte volte.
Si sedette su terra piana per livellarla.
Possedeva la terra chimerica,
Su di essa sputó la sua saliva,
E germinarono le acque.
Seduto su questa terra immaginaria
le distese sopra il cielo; azzurro e bianco.
Piú tardi raccontó tutto
Nel suo mondo sotterraneo,
Perchè noi potessimo raccontarlo quassù, sulla terra.

Poi sulla terra nacquero alberi selvatici
E la palma Canaguche ci diede frutti perché avessimo da bere.
Nell'acqua del Padre crebbero alberi e rampicanti.
Egli, da solo, creò la cicala,
Le scimmie che mangiano gli alberi
La scimmia del mais che apre i frutti,
Il tapiro che mangia i frutti sul suolo,
I grandi cinghiali, che divorano il bosco,
Creó tutti gli animali, come il cervo
I formichieri grandi e quelli piccoli.
Le aquile nel cielo e i pappagall
L'ararà rosso e la pernice con gli altri uccelli,
Il pavone e l'avvoltoio
Insomma creó gli uccelli
E persino le rane
Le grandi e le piccole.

La vespa ci taglió la coda
Prima ce l'avevamo
La taglió prima alla rana
E poi agli uomini
E quando si stancó di tagliare
Quelli che rimasero ritornarono scimmie
Anche se prima erano stati uomini.

A cura di genseki

*

Il Sognatore

Il Sognatore sogna
Sempre anche se stesso
Si sogna nel suo sogno
Si sogna come una parte
necessaria -
Del suo sogno
Non ci potrebbe essere
Nemmeno il sogno
Se il Sognatore
No si sognasse:
Nel sogno c`è anche un filo di fumo
Lontano
Perfettamente verticale
Sullo sfondo del cielo grigio
Su una pianura
Un altopiano? -
Di erica e rovo
Nel silenzio
Il fumo è l'anello
Che unisce il Sognatore
E il sognato
C'è odore di potassio
Intorno
E alcuni sassi bianchi
Taglienti
Il sognato no conosce
Il Sognatore
Ma può coincidere con Lui
In questo istante di unione
Supremo
Poco prima che il sorgere della Luna
Bagni di azzuro
Tutto la spazio
Contenuto nel circolo della percezione
Il sognato pronuncia questa frase:

“Videtur mihi sicut in somnio esse”

E finisce per fondersi
Con chi lo sta sognando

La brezza fredda
Un filo di vento gelido
Paralizza le lucertole
Nere
Sulle pietre umide di Luna

*

genseki

mercoledì, febbraio 07, 2007

Tutte le giornate di Minne Midons


Quelle che seguono sono le poesie d'amore per Minne Midons. Sono un po' claudicanti nel ritmo e troppo vegetali. Ma sono calde come le mani di Minne Midons, e mi da gioia copiarle e rileggerle, scorrendole col movimento leggero del cursore.
Sono state scritte in spagnolo e quella che segue è una traduzione affrettata, il che peggiora ancora lievemente le cose.

genseki

Sulla Vetta

Sulla vetta d'amore
Il vento ci schiaffeggia
Come la neve
Che copre ossa adorate
Sulla vetta d'amore
I gabbiani hanno artigli
Di falco
Con cui ferirci
Finché le nostre grida
Portate via dal vento
Si fondano in un solo battito
Sulla vetta d'amore.

*

Ogni anno

Ogni anno
Si stacca
Una foglia d'argento
Dall'albero dell'Anima
Ogni anno
Vi sboccia
Fior di fiamma
Ogni anno
Matura
Un frutto di luce
Fino a che l'anima
Si disciolga in Rosa
Brillando
A riva
Del fiume del tempo.

*

Quanto più t'amo
Meno ti conosco
Se ti guardo con gli occhi dell'amore
Quasi non ti vedo
Mi avvicino
Con il cuore che batte
Ti allontani
Con corpo di nebbia
Tu che sei carne e latte
Tiepido fiume
Sono il freddo
L'Altro
Che ogni giorno
Ti cerca
La dove solo resta
La traccia del tuo corpo.

*

Amarci é abbandonare
Tutti i giorni
La nostra cara terra solatia
Il deserto interiore
Coi suoi venti
I palmizi bruciati
Amarci é abbandonare
La terra solitaria
Nostra patria
E i suoi monti
I suoi pozzi profondi
Come occhi di falco
Per vivere tra il vento
E gli spruzzi
Dell'onda

Due
Uno.

*

Forse che il muschio

Non ama
Le lacrime di resina del pino?
O il fiume
La sua riva?
E la pioggia le rocce
Che ferisce
Di freddi baci
Lungo lenti secoli?
Ci amiamo
Come la natura insegna
Con silenzio
Con crepe
Con dolore
E riposo.

*

AdessoIn Autunno
Ci accorgiamo
Che non abbiamo corpo
Ma qualche cosa di piú
Di un corpo
Qualcosa d'altro
Che sono i nostri corpi
Uniti
Cercandosi
Piú il corpo invisibile
Dell'Amore
Che li unisce
Che li spinge
A cercarsi.
Come l'autunno
Non è solo una stagione
Ma il cercarsi
Degli ultimi fiori
Nei primi frutti.

*

Quante cose
Bisogna imparare
Quando si vive insieme:
Dove stanno i nostri occhi
Di chi sono quelle palpebre
Se il piede disperso
Tra le lenzuola
È il mio o è il tuo
Chi deve vederci al buio
Chi deve proteggersi gli occhi
Dai radianti
Lampi
Del sole
Siamo uno per l'altro
Albero e terra nutrice
Abbiamo radice e foglie
Negli stessi medesimi cuori.

*

Amare é specchio
Amando siamo acqua
Che riflette
L'azzurro
Il grigio del cielo
E voli e nubi
E il movimento degli aghi
Dei pini
Sotto la brezza
E trascina il ricordo
Di tutti i riflessi
In mulinelli d'argento
E spruzzi
Fino al mare
Dove si fonde
In quell'amore
Che di tutti fa
Uno.

*

Nell'Antico EgittoSi metteva uno scarabeo
Al posto dei cuori
Per ragioni religiose
Che mi sfuggono
I nostro vecchi cuori
Gli abbiamo scambiati
Con due scarabei cardiaci
D'eternitá d'amore
Nella pagina vuota
Che precedeva queste parole
Se en poteva vedere uno
Disegnato di mano
Di Midons.

*

Nella foresta d'Amore
Fitte crescono le male piante
Di menzogna, invidia ed orgoglio
Se insieme le tagliamo
Faremo un gran deserto
Terra
E cielo
Soli e nudi
Duri
E nel mezzo
Tra essi
I tuoi occhi
I miei occhi
Che si guardano.
Un giardino
Di acque profonde.

*

Questa poesia fu scritta in occasione del viaggio di Minne Midons a Brusela.

Se te ne vai al Nord
È nel mio Sud
Che la pioggia trascina
Le sue melanconiche ragnatele
Di dolce solitudine
Tenerezza obliata.
Nel Brabante
Il sole accarezza vecchie pietre
Verdi
Il muschio si muta
Nel solare lichene
Le foglie gialle in sabbia
Sulla riva del mar
Delle scintille.

*

Ci stancano, a volte,
I giorni che ci battono,
Son come il vento
I giorni
Come la pioggia;
Come la terra
Sono le nostre anime
Ci spoglia il tempo
Ci lavano le ore
Ci prosciugano
Ci fanno rinsecchire
Come alberi
Nell'estremo autunno
Ah! Le nostre anime
Che i giorni perseguono
D'amore
Del lucido amore
Dell'amore rovente
Che ferisce
Ferisce
E ci fa vivere.

*

Non ci mancheranno giorniCelesti di luce
Di mar diamantino
Di muschi dorati
Li avremo ancora
I giorni dei castelli
Dei bianchi padiglioni
Dei nostalgici boschi
E un giorno ancora:
Tremiti di colomba
Profumi verdi
E di foglie autunnali
Insetti come gioielli
In un raggio di sole
Il nostro abbraccio
Sará un tappeto d'erbe.

*

Mare d'AutunnoGiace in abbandono
Nella sua tomba di verde cristallo
La spuma traccia
Effimeri disegni
Sopra gli schermi
Di luce spezzata
Nello specchio dei tuoi occhi
Volano liberi
Gabbiani in fiamme.

*

Nella forestaDi frutta
Crescono banane lunari
Mele del peccato amare
Kaki di dorata polpa
I Kiwi sono testuggini
Le pere bottiglie di liquori bianchi
Arance
Limoni
Son astri
Son stelle
Bagnati di succhi
Fragranti
Noi, nudi, nuotiamo
Nel mar della frutta
Polposa
Cristalli di luce e di acqua
Le onde di fronde verdastre
Si rompono in sabbie
Di zucchero
Son baci conchiglie rosate
L'amore è un sogno
Più giallo.

*

Non c'è vuotoSe ti attendo
Solo un battito di rosso
Tra nuvole e sale
Il nostro cuore d'arancio
Si cela di verde in verde
Dammi la mano
Amara è la vita
Il nostro abbraccio
Un albero.

*

Saranno frutti
Le anime nostre
Di dolce polpa
Di noce amara
Di dorato sangue
Sarnno frutti
Le anime nostre
Rotondi
Macchiati di rame
Vellutati
Con foglie verdi
Como diamanti organici
Saranno frutti
La nostre anime
Sui rami
D'argento
Dell'albero
D'Amore.

*

genseki

martedì, gennaio 23, 2007

Poesie


Le poesie seguenti probabilemente non sono molto curate, non quanto dovrebbero esserlo per rispetto di chi casualmente dovesse leggerle.
Le ho scritte su un grosso quaderno grigio con pennarelli cinesi di diversi colori, in treno, in un fast food in una terrazza sul mare, sul divano, forse in un albergo.
Sono imprecise e sfuocate con qualche immagine gradevole. Parlano di questo mondo di sole e di polvere.

Thader

Non potevamo smettere di guardarlo
Piangere
Il cielo
Di osservarlo perdere ciuffi
Di grigio ovattato
Gocce di opaco sudore
Sulle guglie dei centri commerciali
E i nostri riti
Si facevano piú ardenti
Si sgranavano come fiamme
Rinchiuse in un pomo di vetro
Laggiú
Sotto le lastre di marmo
Finto
Gli ultimi limoni
Maturavano a soli
Privati del loro pascolo
Celeste.

*

Thader sarebbe un nome antico, il nome del povero fiume che bagna queste terre aride. Un nome preromano, adottato dai romani. Adesso è uno stremato strumento pubblicitario, amercaneggiante, vago, stupido, dal suono ambiguo, perduto tra altri sonagli e richiami porcini.
*

Autunni

L'autunno incide meraviglie
Sulla superrficie
Della luce
Smalti
Graffiti
Sulla lamina del cielo
Ogni colore
Corrisponde a un altro
Colore
Simili
Per occulta somiglianza.
Per nostalgie di petali
Si intenerisce
Il cuore di chi vive
All'altezza della luce
Nell'attesa di una chiamata
Che giá non è più che spina
Tra vertebra e vertebra
Tra cielo e roccia.

*

Improvvisamente

La ritrovi al suo posto
Prorio là
Dove
Ti aspettavi che ci fosse
La palma
Con il suo collare dorato
Amuleto di datteri
Diritta tra i cotogni
Polverosi
Consapevoli di essere
Un'immagine del passato
E ti conforta
Il sapere
Che chi non ha un posto
Dove ritrovarsi
Quello
Sei tu.

*

I cotogni giunsero dall'arabia, sono alberi vecchi, impolverati, dimenticati negli interstizi tra i condomini, i loro grandi frutti gialli, furono soli di dolcezza per palati resi nobili dall pronuncia incessante dei Nomi. Ora sono grigi fantasmi.
*

Adesso, finalmente,La hai raggiunta
O forse, meglio,
Te la sei conquistata
La solitudine
Che tanto hai amato
Che hai fuggito tanto
Per giorni e per boschi
Per settimane e nevi
Proprio ora la hai raggiunta
Quando non ti è dato piú
Non ti è concesso
Restare solo.
*

UN UOMO CHE È STATO IN UN ALTRO MONDO NON RITORNA UGUALE
È IMPOSSIBILE ESPRIMERE LA DIFFERENZA IN PAROLE.

Lewis – Perelandra

*

Huerta


Per lunghi secoli vissero
In un verde mare di foglie
Nell'ombra profonda di giardini
Come pelaghi
Tra odori acidi e dolciastri
Di polpe e di resine
Per lunghi secoli vissero
Nel crepuscolo acquoso
Degli orti
Alla luce stellare dei limoni
I monti, intorno,
Erano lingue di fuoco
Congelate in uno slancio
Verticale
Getti di rame
Cesellati in salmi
Il ritmo bronzeo
Dell'acqua nei canali
Organizzava il tempo e lo spazio
Poi si svegliarono
Scorsero altri azzurri
Cercarono l'orizzonte
E il volo.
Trovarono arene
Bagliori di ferro amaro
Il bacio ruvido
Dell'ariditá.

*

C'erano case nella huerta, quando ancora c'era la huerta, in cui vivevano uomini e piccioni e che le mattine le salutavano con voli tra i limoni. Ora ci sono rovine, troppo recenti per essere indecifrabili, cespugli, rifugio di coiti mercenari.

Vita

Non v'è davvero altra pena
Che vivere in trasparenza
Una vita come questa
Trafitti da consapevolezza
Spogliati dall'evidenza
Dell'elementare
Natura
Corrotta
Della mente
Caduca
Non v'è
Davvero
Altra pena che questa.

*

Foreste


Avremmo tanto desiderato
Muoverci in una foresta
Dai colori caldi
Dalle ramificazioni azzurre
Di rami e radici intrecciati
Alle falangi
Angeliche della luce
Consapevoli dell'acqua
Solo in quanto suono
Profondo
A volte anche oscuro
Più spesso cristallino.
Avremmo voluto
Afferrare i frutti
Con queste stesse mani
Con le quali eravamo abituati ad afferrare
Astri
Per bagnarci nel loro succo
Per nuotare nel loro liquido splendore
Le nostre stesse vene
Azzurre
Sarebbero diventate radici
A irrorare la carne tellurica
Prima che la notte deglutisse.
Ora siamo rimasti
Nudi
Lontani dall'olio della luce
Tra gli scoppi intermittenti
Dell'assenzio.

*

Palme

Che dire, poi, delle palme
Della loro natura i coltelli
Di lame luminose
In lotta con il sole
Lavate
Affilate dalla luce.
Che dire, del loro cuore
Dorato
Delle collane-amuleto
Ad allacciare la chioma
Guerriera?
Così lontane
Dal mio cuore
Assenti in tutti i racconti
Che mi sono raccontato
Si fanno di colpo
Evidenti per l'Occhio
Si adagiano nella mia vista.

*

Lichene

D'istante in istante
Su scalini di muschio
Cerchiamo foglie di pioppo
Monete morte
Piume di nebbia
D'istante in istante
Su scalini di muschio
Cerchiamo i licheni
Che tatuano di luce
Che incidano luce
Nelle nostre pupille.

*

Il fine della vita è farsi un'anima, un'anima immortale. Un'anima che sia la propria opera, perché morendo si lascia uno scheletro alla terra, un'opera alla storia.
Unamuno.
Agonia del Cristianesimo

*

La Rosa


Cresce la rosa
Ad un limone avvinta
E il giallo splendore
Inghiotte il rosso
Cupo
Dei petali vellutati
Nella notte delle foglie.

*

FEDE CHE NON DUBITI È FEDE MORTA
Unamuno

*

Il corpo
Dove posarlo
Il nostro corpo?
Dove sarebbe possibile riporlo
Dimenticarlo per un po'
Come quella camicia a quadri
Rossi e neri
Regalo di Nicoletta
Come il quarzo raccolto
Durante una gita in montagna
Con Edo
Quando incontrammo
Quel cagnolino privo di un occhio?
Dove abbandonarlo
Accuratamente
Protetto
Profumato
Pallido?
Fino a ritrovarlo
Un giorno
- quando ormai non ci stavamo già più pensando -
Laggiù
Nelle profondità dello specchio del bagno
Nell'odore del sapone di Marsiglia
E del vapore caldo
E domandarsi che cosa stiano guardando
Quegli occhi appena ritrovati
Che ora guardiamo con altri occhi
Che forse ora rivelano il senso di quelli
Che ora sta velando
Uno specchio.

*

Avrei voluto avvicinarmiA lei
Avrei voluto adeguarmi
Al ritmo dispari
Dei suoi passi
Che risuonavano
Sulle mattonelle nuove del porticato
Avrei voluto tirare fuori il desiderio dalla tasca
In cui lo avevo riposto
Molto tempo fa
e restare a guardare come si rianimava
A contatto con l'aria fresca
Portava stivali
E calze grige
Come se si trattasse di una nuova piccola morte supplente
In un pomeriggio di gennaio
Senza l'abbandono del pomeriggio
Ormai da tempo i pomeriggi non sapevano più di abbandono
Gli ultimi pini del monte
Asceti profumati
Sognavano dune color rame
Mentre seguivo il ritmo dei suoi passi
Con le orecchie ben tese
Il desiderio se en stava chiuso
Nella scatoletta di pastiglie Valda
Nella tasca di un altro cappotto.

*

Anche la morte ormai
S'è fatta precaria
Non è più certa
Come lo era un tempo
Non è puntuale
Non è più affilata
Ora resta ad aspettare alla fernata del bus
Come tutti gli altri impiegati
Che le ruote di un qualche camion
Schiaccino il volo di un passero
O di un colombo
Sull'asfalto bagnato di pioggia grassa
Poi, se en va contenta
Nei suoi jeans stretti
Comprati in un negozio cinese
Nell'impermeabile nero plastificato
Dalla forma di fungo
Scostando con la mano
Una ciocca di capelli
Che la pioggia le ha incollato
Sulla fronte.

*
genseki