giovedì, settembre 21, 2006

Yasmina

Di
Isabelle Eberhardt
1902


***
*


Ella era cresciuta in un luogo funereo dove, nel cuore della desolazione circostante, fluttuava l’anima misteriosa di aboliti milllenni.

Laggiù aveva trascorso la sua infazia, tra le grigie rovine, tra le macerie e la polvere d’un passato di cui ignorava ogni cosa.

La cupa grandezza di quei luoghi pesava su di lei come un carico troppo gravoso di fatalismo e di sogno. Così strana, così malinconica, tra tutte le fanciulle della sua razza: questa era Yasmina la Beduina.

I gourbis del suo villaggio si elevavano accanto alle rovine romane di Timgad nel mezzo d’un’immensa pianura polverosa, cosparsa di pietre senza età, anonime, macerie disseminate nei campi di cardi spinosi dall’aspetto malvagio, la sola vegetazione che potesse resistere al caldo torrido delle estati roventi. Erano di tutte le dimensioni, di tutti i colori quei cardi: ve n’erano di enormi dai grandi fiori azzuri, setosi tra le spine lunghe e acute, di più piccoli, stelline d’oro e tutti strisciavano coperti di fiorellini d’un colore rosa pallido. Qua e là uno stento cespuglio di giuggiolo o un lentisco reso rosso dal sole

Un arco di trionfo, ancora in piedi, si apriva in una curva ardita sull’orizzonte ardente. E colonne giganti, alcune coronate dai loro capitelli, altre spezzate, una legione di colonne dritte contro il cielo in una rivolta rabbiosa e inutile contro l’ineluttabilità della morte.

Un anfiteatro dai gradini recentemente liberati, un foro silenzioso, strade deserte, lo scheletro di una grande città defunta, tutta la trionfale gloria dei Cesari vinta dal tempo e riassorbita dalle viscere gelose di questa terra africana che lentamente ma inesorabilmente divora tutte le civiltà straniere o ostili alla sua anima…

All’alba quando lontano il Djebel Aurès s’iridava di luci trasparenti, Yasmina usciva dal suo umile gourbi e se ne andava lentamente attraverso la pianura spingendo davanti a sé il suo magro gregge di caprette nere e di pecore grigiastre.

Di solito ella li conduceva nella gola tormentata e selvaggia di un oued abbastanza lontano dal douar.


Là erano soliti raccogliersi i pastorelli della tribù. Yasmina, però, restava in disparte e non prendeva parte ai giochi degli altri bambini.

Passava tutte le sue giornate nel silenzio minaccioso della pianura senza preoccupazioni, senza pensieri, immersa in vaghi sogni, indefinibili, intraducibili in qualunque lingua umana.

Talvolta per distrarsi raccoglieva, sul fondo secco dell’oued qualche strano fiorellino risparmiato dal sole e cantava delle nenie in arabo.

Il padre di Yasmina, El Hadj Salem era già vecchio e curvo. Sua madre Habiba, a trentacinque anni soltanto non era ormai più che una vecchia mummia senza età, dedita ai duri lavori del gourbi e del campicello d’orzo.

Yasmina aveva due fratelli più grandi, entrambi arruolati negli Spahis. Li avevano mandati entrambi lontanissimo nel deserto. Sua sorella maggiore, Fathma, era sposata e abitava il douar principale di Ouled-Meriem. Al gourbi restavano soltanto i bimbi più piccoli e Yasmina, la maggiore, che aveva quattordici anni.

Così dall’aurora radiosa al malinconico crepuscolo, solo alloraYasmina rientrava con il suo gregge risalendo verso Timga illuminata dagli ultimi raggi del sole declinante. La pianura anch’esssa risplendeva in uno spolverio rossato dalle sfumature infinitamente delicate. E Yasmina se ne tornava cantando un lamento sahariano appreso da suo fratello Slimène che era ritornato per il congedo l’anno precedente e che lei amava molto.

Ragazza di Costantina
Che sei venuta a fare
Tu non sei del mio paese
Tu non sei fatta per vivere
Tra le dune abbaglianti
Ragazza di Costantina
Sei venuta e mi hai preso il cuore
E lo riporterai nel tuo paese
Hai giurato di ristornare, sul Nome dell’Altissimo
Ma quando ritornerai a El Oued,
Non mi ritroverai
Nella DIMORA DEI FIORI
Tu cercami allora in quella DELL’ETERNITA’

Lentamente la canzone lamentosa prendeva il volo nello spazio illimitato, lentamente il sole maestoso si spegneva sulla pianura.

Era tranquilla la piccola anima solitaria e ingenua di Yasmina, calma e dolce come quei laghetti puri che le piogge formano per un istante nelle effimere praterie africane, in cui nulla si riflette salvo l’azzurro infinito di un cielo senza nuvole.

Quando Yasmina rientò sua madre le annunciò che l’avrebbe sposata a Mohammed Elaour mercante di caffè a Batna.

Dapprima Yasmina pianse perché Mohammed era orbo e bruttissimo e perché era così rapido e imprevisto, quel matrimonio.

Poi si calmò e sorrise, perché era scritto. I giorni passarono; Yasmina non andava più al pascolo. Ella cuciva con le sue manine goffe il suo umile corredo di fidanzata nomade.

Nessuna delle donne del douar pensò a domandarle se fosse contenta di quel matrimonio. La davano a Elaour come l’avrebbero data a qualunque altro musulmano. Era nell’ordine delle cose, non c’era nessuna ragione di essere oltremodo contenta ma nemmeno di essere desolata.

Yasmina sapeva anche che la sua sorte sarebbe stata un poco migliore di quella delle altre donne della sua tribù perché avrebbe abitato in città e che avrebbe dovuto soltanto, come le Moresche, occuparsi della casa e allevare i bambini.

Solo i bambini qualche volta la prendevano in giro gridandogli: “Marte-el aour – la moglie dell’orbo!” Così evitava di andare a prendere l’acqua all’oued con le altre donne quando calava la sera. C’era una fontana nel cortile del bordj degli scavi, ma il guardiano roumi, impiegato delle belle arti non permetteva alla gente della tribù di attinngervi l’acqua pura e fresca e così erano ridotti a servirsi dell’acqua salmastra dell’oued dove passavano mattima e sera le greggi. Da qui l’aspetto malaticcio dellea gente della tribù continuamente colpita da febbri maligne.

Un giorno Elaour venne a dire al padre di Yasmina che prima dell’autunno non avrebbe potuto fare fronte alle spese delle nozze e pagare la dote della ragazza.

Yasmina aveva terminato il suo corredo e il fratellino Ahmed che l’aveva sostituita al pascolo, si era ammalato, ella riprese allora la sua attività di pastorella e le sue lunghe corse attraverso la pianura.

Continuva a seguire i suoi sogni di vergine primitiva che l’approssimarsi del matrimonio non aveva in nulla modificati.

Non sperava nulla e nulla nemmeno desiderava, per questo era felice.

C’era allora a Batna un giovane tenente distaccato dal Bureau Arabe, appena sbarcato dalla Francia. Aveva chiesto di venire in Algeria, perché la vita di caserma che aveva condotto per due anni dopo aver lasciato Saint-Cyr, l’aveva profondamente disgustato. Aveva un’anima di sognatore e di avventuriero.

A Batna, bene presto, era diventato cacciatore, per il bisogno di perdersi in quell’aspra campagna algerina che fin dall’inizio l’aveva particolarmente affascinato.

Tutte le domeniche, da solo, partiva all’alba, seguendo a caso le strade accidentate della pianura e talvolta gl’irti sentieri dei monti.

Un giorno, sfinito dal calore del mezzogiorno, spinse il suo cavallo nel burrone selvaggio ove Yasmina teneva il suo gregge.
Seduta su di una pietra, all’ombra di una roccia rossastra dove crescevano ginepri profumati, Yasmina giocherellava distrattamente con dei ramoscelli verdi e cantava un lamento beduino in cui, come nella vita, l’amore e la morte procedono fianco a fianco.

L’ufficiale era stanco e la selvaggia poesia del luogo gli piacque.

Quando ebbe trovato una sriscia d’ombra sufficiente a proteggere il suo cavallo, avanzò verso Yasmina, e, non sapendo che cosa fare, senza conoscere una sola parola di arabo, gli disse in francese:

- C’è dell’acqua qui intorno?

Senza rispondere, Yasmina si alzò per andarsene, inquieta, quasi selvatica.

- Perché hai paura di me? Non voglio farti del male, disse, già divertito da questo incontro.

Ella però fuggiva il nemico della sua raza vinta e se ne andò.

L’ufficiale la seguì a lungo con gli occhi.

Yasmina gli era apparsa, snella e sottile sotto i suoi stracci azzurri, il viso abbrozzato d’un puro ovale, in cui i grandi occhi neri della razza berbera scintillavano misteriosamente, con la loro espressione cupa e triste e si opponevano stranamente al contorno sensuale e contemporaneamente infantile delle labbra sanguigne e un po’ spesse. Appesi al lobo dell’orecchia graziosa due anelli di ferro inquadravano il suo volto affascinante. Proprio in mezzo alla fronte la traccia azzurra della croce berbera, simbolo sconosciuto, inspiegabile presso queste popolazioni autoctone che mai non furono cristiane e che l’islam colse ancora completamente selvagge e feticiste, con la sua grande fioritura di fede e di speranza.
Sulla sua testa dai pesanti capelli lanosi, nerissimi, Yasmina portava soltanto un fazzoletto arrotolato in forma di turbante piatto e svasato.

Tutto in lei portava il marchio d’un fascino quasi mistico di cui il tenente Jacques non sapeva spiegarsi la natura.

A lungo se ne restò là, seduto sulla pietra che Yasmina aveva lasciato. Pensava alla beduina e a tutta la sua razza.

L’Africa dove era giunto volontariamente gli appairva ancora come un mondo quasi chimerico, profondamente sconosciuto, e il popolo arabo, in tutte le manifestazioni esteriori del suo carattere, lo immergeva in uno stupore costante. Egli non frequentava quasi per nulla i commilitoni del Circolo, non aveva ancora imparato a ripetere i luoghi comuni correnti in Algeria e nettamente ostili, a priori, a tutto ciò che è arabo e musulmano.
Egli risentiva ancora dell’immenso incanto, dell’ebrezza dell’arrivo, e vi si abbandonava con voluttà.

Jacques discendeva da una nobile famiglia delle Ardenne, educato nell’austerità di un collegio religioso di provincia, aveva conservato, attraverso gli anni di Saint-Cyr, un’anima da montanaro, ancora relativamente chiusa a quello spirito moderno di scettico scherno partigiano, che mena rapidamente a tutte le decrepitudini morali.

Tuttavia, intelligente e poco espansivo, era già portato a analizzare le proprie sensazioni, a classificare in qualche modo i propri pensieri.

Così, la domenica successiva, quando si accorse di star riprendendo il cammino di Timgad, egli ebbe nettissima la sensazione di andarvi per rivedere la piccola Beduina.

Ancora molto puro e nobile non cercava per niente di barare con la sua coscienza. Ammetteva senza difficoltà di non aver saputo resistere alla voglia di comprare delle caramelle con l’intenzione di far conoscenza con quella ragazzian la cui strana grazia lo afferrava in modo così invincibile e a cui non aveva mai smesso di pensare per tutta la settimana.

E ora, partito all’alba per la bella strada di Lambèse, incitava il cavallo, preso da un’impazienza che stupiva lui stesso. Era il vuoto del suo cuore emerso appena dal limbo incantato dell’adolescenza, la sua vita solitaria lontano dal apese natale, i suoi pensieri quasi virginali, che i vizi di Parigi non avevano potuto macchiare, era questo vuoto profondo che lo spingeva verso ciò che di sconosciuto e emozionante egli cominciava a scorgere oltre questo abbozzo di un’avventura beduina.

Alla fine si inoltrò nella gola stretta e profonda dell’oued secco.

Qua e là, sul grigio della sterapglia spiccava la macchia nera di un gregge di caprette o quella bianca di uno di pecore

E Jacques cercò subito con una certa ansia quello di Yasmina.

- Come si chiamerà? Quanti anni ha? Mi vorrà parlare, questa volta, o, invece, scapperà come la volta scorsa?

Jacques si faceva tutte queste domande con un’inquietudine crescente. D’altra parte come avrebbe potuto parlarle, dal momento che, di sicuro ella non comprendeva una sola parola di francese ed egli non conosceva nemmeno il sabir?

Infine, nella parte più deserta dell’oued, scoprì Yasmina, sdraiata sul ventre tra i suoi agnelli, la testa appoggiata alle mani.

Non appena lo scorse ella si alzò, nuovamente ostile.

Abituata all’ostilità e al disprezzo degli impiegati e degli operai delle rovine ella odiava tutto ciò che era cristiano.

Jacques, però, sorrideva, non dava l’impressione di volerle fare del male. E poi ella vedeva bene quanto giovane e bello egli fosse sotto la sua divisa semplice di tela bianca.

Ella aveva accanto a sé una piccola guerba sospesa a tre paletti che formavano un fascio.

A segni Jacques le chiese da bere. Senza rispondere ella gli mostrò con il dito la guerba.

Egli bevve. Poi le porse una manciata di caramelle rosa. Timidamannte, senza ancora osar d’allungare la mano, ella disse in arabo, con un mezzo sorriso e alzando per la prima volta gli occhi verso quelli del roumi:

- Ouch-noua? Che cosa sono?
- Sono buone, disse lui ridendo della sua ignoranza, ma contento di aver infine rotto il ghiaccio.

Ella morsicò un caramella, poi, improvvissamente con un accento un po’ rude disse:

- Grazie!

- No, no, prendili tutti!

- Grazie, grazie! Signore, grazie!
- Come ti chiami?

Ella restò a lungo senza capire. Poi, siccome egli si era messo a citare tutti i nomi arabi di donna che conosceva, sorrise e rispose: “Smina” (Yasmina).

Allora lui volle farla sedere accanto a sé per continuare la conversazione, Ma colta da una paura improvvisa, ella se ne fuggì.

Ogni settimana, all’avvicinarsi della domenica, Jacques si accusava di comportarsi male, si diceva che il suo dovere era di lasciare in pace quella creatura innocente da cui tutto lo separava e che avrebbe soltanto potuto fare soffrire. Ma non era più libero di andare a Timgad piuttosto che di restare a Batna, e partiva.

Ben presto, Yasmina non ebbe più paura di Jacques. Ella veniva spontaneamente, ogni volta, a sedersi accanto all’ufficiale e cercava di spiegargli qualcosa il cui senso per lo più gli sfuggiva malgrado tutti gli sforzi della ragazzina. Allora, vedendo ch’egli non riusciva a comprenderla ella scoppiava a ridere. Questo riso di gola le faceva rovesciare la testa, scopriva i denti bianchi come il latte e trasmetteva a Jacques una sensazione di desiderio un presentimento di piacere inebriante.

In città, Jacques si dedicava con accanimento allo studio dell’arabo algerino, Il suo ardore faceva sorridere i commilitoni che, non senza ironia dicevano: “Deve averci una tipa lassù”.

Jacques amava già Yasmina, follemente, con quell’incontenibile intensità propria del primo amore in un uomo molto sensuale e sognatore in cui l’amore della carne si spiritualizza prendendo la forma di una vera tenerezza.

Tuttavia ciò che Jacques amava in Yasmina era la propria assoluta ignoranza dell’anima della Beduina, per lui era un essere di pura immaginazione, uscito dalla sua fantasia e sicuramente molto dissimile dalla realtà.

Sorridente, ma con un’ombra malinconia nello sguardo, Yasmina ascoltava Jacques, cantarle, ancora goffamente, tutta la passione ch’egli non cercava nemmeno di trattenere.

- E’ impossibile, ella diceva con nella voce una tristezza che andava già facendosi dolente. Tu sei un roumi, un kéfer, e io, io sono musulmana. Lo sai, da noi è haram che una musulmana prenda un cristiano o un ebreo; però tu sei bello, sei buono. Ti amo.

Un giorno, molto ingenuamente ella gli prese il braccio e gli disse con uno sguardo dolce e lungo: “Diventa musulmano. E’ facile! Alza la mano destra, così, ripeti con me: “La illaha illa Allah, Mahammed rashul Allah”: “Non c’è altro Dio che Dio e Maometto è il suo profeta”.

Lentamente, come per gioco, per farle piacere, ripeté queste parole solenni e armoniose, che, pronunciate sinceramente bastano a legare irrevocabilmente all’Islam.
Ma Yasmina non sapeva che certe cose si possono dire anche senza credervi, ella pensava che la sola enunciazione della professione di fede musulmana da parte del suo roumi ne avrebbe fatto un credente. E Jacques ignorando le idee fruste e primitive che il popolo illetterato si fa dell’Islam, non si rendeva conto della portata di ciò che aveva fatto.

Quel giorno, al momento della separazione, spontaneamente, con un sorriso di felicità, Yasmina gli diede un bacio, il primo… Per Jacques fu un’ebrezza senza nome, infinita.

Oramai, non appena era libero, anche solo per qualche ora, partiva al galoppo per Timgad.

Per Yasmina, Jacques non era più un roumi, un Kéfer… Egli aveva attestato l’unità assoluta di Dio e la missione del suo Profeta. Un giorno, semplicemente, con tutta la focosa passione della sua razza ella si diede a lui.

Fu un istante d’inesprimibile annientamento, poi come al risveglio, l’anima loro fu illuminata illuminata da una luce novella, quasi fossero emersi solo allora dalle tenebre.

Ormai Jacques poteva dire a Yasmina quasi tutte quelle cose dolci o commoventi che riempivano la sua anima, tanto rapidi erano stati i suoi progressi nello studio della lingua araba. Talvolta la pregava di cantare. Allora, sdraiato accanto a Yasmina, posava la testa sulle sue ginocchia, e, gli occhi chiusi, si abbandonava a un sogno impreciso, dolcissimo.

Da qualche tempo, un’idea singolare veniva ad ossessionarlo, e sebbene sapesse che era infantile, e del tutto irealizzabile si abbandonava ad essa trovandovi uno strano piacere… Abbandonare tutto, per sempre, rinunciare alla propria famiglia, alla Francia e restare per sempre in Africa con Yasmina. Anzi dare le dimissioni ed andarsene, sempre con lei, in burnous e turbante per condurre unì’esistenza pigra e lenta in qualche ksar del Sud. Quando Jacques era lontano da Yasmina, recuperava tutta la propria lucidità e sorrideva di questi maliconici infantilismi. Allorché però si ritrovava accanto a lei, si abbandonava a una sorta di assopimento intellettuale di una dolcezza indicibile. La prendeva tra le braccia e, tuffando il suo sguardo nell’ombra di quello di le, le ripeteva questa tenerissima parola araba:

- Aziza! Aziza! Aziza!

Yasmina non si domandava mai quale sarebbe stato l’esito de suo amore per Jacques. Sapeva che molte delle ragazze della sua razza avevano amanti, che si nascondevano con cura dai genitori ma che in generale tutto finiva con un matrimonio.

Ella viveva. Era felice, così, semplicemente, senza riflettere e senza altro desiderio che quello di vedere la sua felicità durare eternamente.
Quanto a Jacques, egli vedeva molto chiaramente che il loro amore poteva continuare soltanto in questo modo, indefinitamente, egli, infatti, si rendeva conto dell’impossibilità di un matrimonio tra lui che aveva una famiglia, lassù al paese, e questa piccola Beduina che non era nemmeno pensabile di portare in un altro ambiente, su di un suolo lontano e straniero.

Ella gli aveva ben detto che dovevano sposarla a un cahouadji di città, verso la fine dell’autunno.

Ma era così lontana, la fine dell’autunno… E anche lui, Jacques si lasciava andare alla felicità del momento.

- Quando vorranno darmi all’orbo, tu mi prenderai e mi nasconderai in qualche posto sulla montagna, lontano dalla città, perché non mi possano mai ritrovare. Mi piacerebbe vivere in montagna, ci sono alberi grandi più vecchi del più vecchio degli anziani, e acque fresche e pure che scorrono all’ombra, e uccelli dalle piume rosse e verdi e gialle e cantano…

“Come vorrei ascoltarli e dormire all’ombra e bere l’acqua fresca… mi nasconderai in montagna e verrai a trovarmi ogni giorno… imparerò a cantare il canto degli uccelli e lo canterò per te. Insegnerò loro a dire il tuo nome perché me lo ripetano quando sarai assente”.

Così gli parlava Yasmina, talvolta, con il suo strano sguardo serio e ardente.

- Ma, diceva, gli uccelli del Djebel Touggour sono musulmani… Non vorranno cantare il tuo nome cristiano, solo un nome musulmano canteranno e sono io che devo dartelo, sono io che devo insegnarlo anche a loro… Ti chiamerai Mabrouk, ci porterà fortuna.

… Per Jacques la lingua araba era diventata una musica soave, era la lingua di lei, e tutto quello che veniva da lei lo inebriava. Jacques non pensava più, viveva.

Era felice.

Un giorno Jaques apprese che era stato designato a un posto nel Sud oranese.

Lesse e rilesse l’ordine implacabile, che per lui significava una cosa soltanto, partire, lasciare Yasmina, lasciare che si sposi con un bottegaio orbo, non rivederla mai più.

Per giorni e giorni, disperatamente, cercò un modo per non partire, di farsi sostituire da un compagno… ma invano.

Fino al’ultimo momento, fin quando aveva potuto conservare una debolissima luce di speranza, egli aveva nascosto a Yasmina la sventura che stava per colpirli.

Nelle lunghe noti di insonnia e di febbre era giunto a prendere decisione estreme: ora era pronto allo scandalo supremo del rapimento e del matrimonio, ora a dare le dimissioni a lasciare tutto per la sua Yasmina, a diventare per davvero quel Mabrouk in cui ella sognava di trasformarlo. Ma un pensiero giungeva sempre che lo tratteneva; aveva un vecchio padre e una madre dai capelli bianchi, lassù nelle Ardenne ed essi sarebbero morti di angoscia se il loro figliolo, “il bel tenente Jacques”, come lo chiamavano al paese avesse davvero fatto tutte quelle cose che passavano per il suo cervello infiammato nelle lente ore di quelle brutte notti.

Yasmina aveva notato, naturalmente, la tristezza e l’inquietudine crescenti del suo Mabrouk e siccome lui non osava ancora confessarle la verità, le diceva che sua vecchia madre era molto malata, lassù, fil Fransa…

Yasmina cercava di consolarlo, di inculcargli il proprio tranquillo fatalismo.

- Mektoub, gli diceva. Siamo tutti in mano a Dio, morremo tutti, ritorneremo a Lui… Non piangere Ya Mabrouk, è scritto.

“Si, rifletteva lui con amarezza, tutti dobbiamo morire, un giorno o l’altro, separarci da tutto quello che ci è caro… Perché allora la sorte, quel Mektoub di cui lei mi parla, ci separa proprio adesso, adesso che siamo ancora in vita tutti e due?”

Alla fine, pochi giorni prima di quello stabilito irrevocabilmente per la sua partenza, Jacques partì per Timgad… Pieno di paura, di angoscia andava a dire la verità a Yasmina. Non voleva dirle, però, che la loro separazione aveva da essere, forse, anzi certamente eterna…

Le parlò soltanto di una missione che avrebbe dovuto durare tre o quattro mesi.

Jacques si aspettava uno scoppio straziante di disperazione.

In piedi davanti a lui ella non si scompose. Continuò a guardarlo diritto in faccia come se avesse voluto leggere nei suoi pensieri più nascosti. Questo sguardo pesante, che non poteva decifrare, lo turbò enermemente. O mio Dio, allora ella credeva che fosse lui che voleva abbandonarla?
Come spiegarle la verità. Come farle comprendere che non era padrone del proprio destino? Per lei un ufficiale francese era quasi onnipotente, completamente libero di far quello che voleva.

… E Yasmina continuava a guardare Jacques diritto in faccia, gli occhi nei suoi occhi. Restava in silenzio…

Non seppe sostenere più a lungo quello sguardo che pareva condannarlo.

La prese tra le braccia:

- O Aziza! Aziza! Disse. Tu ti arrabbi contro di me! Non capisci che il mio cuore si spezza, che io non me ne andrei mai, se solo potessi restare!

Ella agrottò le sottili sopracciglia nere.

- Menti! Disse. Tu menti! Tu non ami più Yasmina, la tua amante, la tua donna, la tua serva , quella cui hai preso la verginità. Sei tu che vuoi andartene! E poi menti ancora quando mi dici che tornerai presto… No, tu non tornerai, non tornerai mai più, mai più, mai più!

Questa parola ripetuta con ostinazione risuonò alle orecchie di Jacques come il rintocco funebre della sua giovinezza.

Abadane! Abadane! Nel suono stesso di questa parola v’era qualche cosa di definitivo, d’inesorabile e di fatale.

- Si, te ne vai… Vai a sposare la tua roumia, lassù in Francia…

Una fiamma cupa si accese nei grandi occhi rossi della nomade. Ella si era liberata quasi bruscamente dall’abbraccio di Jacques, sputò per tera, con sdegno, con un movimento selvaggio di indignazione.

- Cani e figli di cani, voi tutti roumis!

- O Yasmina, quanto sei ingiusta con me! Ti giuro che ho implorato tutti i miei compagni, uno dopo l’altro di partire al posto mio… non hanno voluto.

- Ecco lo vedi anche tu, quando un ufficiale non vuole partire, non parte!

- Ma i miei compagni sono io che li ho pregati di partire al mio posto e loro non dipendono da me, io invece dipendo dal generale, dal ministro della guerra…

Ma Yasmina incredula restava ostile e chiusa.
E Jacques rimpiangeva che lo scoppio di disperazione che aveva tanto paventato nel viaggio non si fosse davvero verificato.

Restarono a lungo così, silenziosi, un abisso ormai li separava, tutte quelle cose europee che dominavano tirannicamente la sua vita e che lei, Yasmina, non avrebbe mai potuto comprendere…

Infine con il cuore gonfio d’amarezza Jacques pianse, la testa abbandonata sulle ginocchia di Yasmina.

Quando lo vide piangere così disperatamente, ella comprese la sua sincerità… Strinse il capo tanto amato contro il suo, piangendo anch’ella, infine.

- Mabrouk, O tu, pupilla deglli occhi miei! Tu, luce mia! O macchiolina del mio cuore! Non piangere mio Signore! Non andartene, Ya Sidi. Se tu vuoi partire, mi sdraierò sul tuo cammino e morirò. Passerai sul cadavere di Yasmina. Ma se devi partire, assolutamente partire, ebbene, portami via con te. Sarò la tua schiava, Mi prenderò cura della tua casa e del tuo cavallo… Quando sarai malato, ti guarirò con il sangue delle mie vene… No, morirò per te. Ya Mabrouk! Ya Sidi! portami via con te…

Siccome egli restava in silenzio, spezzato dall’impossibilità di quello che lei chiedeva, ella riprese:

- Allora vieni, vestiti da arabo. Scappiamo insieme sulle montagne, no, più lontano ancora, nel deserto, nel paese dei Chaamba e dei Tuareg. Ti farai musulmano, la Francia, la dimenticherai…

- Non posso… Non chiedermi l’impossibile. Ho i miei vecchi genitori lassù, in Francia, ne morirebbero… Dio solo sa come vorrei tenerti accanto a me per sempre.

Sentiva le calde labbra di Yasmina accarezzargli dolcemente le mani mentre le loro lacrime scorrevano confondendosi… Questo contatto risvegliò in lui altri pensieri, ebbero ancora un istante di gioia così profonda come non ne avevano mai goduto di simile nemmeno nei giorni della loro tranquilla felicità.

- Come possiamo lasciarci! Balbettava Yasmina mentre le sue lacrime continuavano a scorrere.

Ancra due volte Jacques ritornò e ancora essi conobbero l’indicibile estasi che pareva stringerli l’uno con l’altra per sempre, indissolubilmente.

Poi suonò l’ora solenne degli addii… che l’uno sapeva e l’altra presentiva eterni…

Tutta la loro anima l’infusero nell’ultimo bacio…


Trad. genseki

mercoledì, settembre 20, 2006

Sulla materia e il linguaggio


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Non ha l’ottimo artista alcun concetto,
Ch’un marmo solo in sé non circoscriva
Col suo soverchio, e solo a quello arriva
La man che ubbidisce all’intelletto.

Michelangelo.

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Qual è il soverchio del linguaggio posto che esso sia la materia del verso?

· Si potrebbe forse vedere l’attività poetica come quella che libera il Senso della parola eliminando uno per uno tutti i significati e tutti i sensi che la parola ha nel suo essere in potenza così come nel suo realizzarsi come atto linguistico comunicativo.

· forse sono proprio il senso e la comunicazione, qualunque siano le relazioni che li legano a dover essere intesi come il soverchio michelangiolesco?

· Allora, si dovrebbe cercare di indagare cosa sia ciò che nella parola il senso e la comunicazione velano e forse velando rivelano, almeno talvolta, a qualcuno.

· Indubbiamente la parola rende possibile il senso e la comunicazione.

· Comunicando e significando, tuttavia, essa pare dimenticarsi o assottigliarsi e svanire.

· Il comunicare, il significare, che non sono in alcun modo coincidenti, sono il modo di darsi della parola.

· Essa dandosi si vela, si fa senso, cioè altro da quello che è in sé, comunicazione, cioè nulla di sé.

· Nella comunicazione la parola si svuota assolutamente del suo essere parola.

· Nel significato la parola copre di un velo il suo essere parola, di un velo che pare impenetrabile.

· Ma non ci sarebbe né senso né comunicazione se non ci fosse parola.

· E non ci sarebbe parola se non ci fosse il senso, se non ci fosse la comunicazione.

· In questo modo la parola è essenzialmente l’atto di velarsi e di annullarsi della parola medesima.

· Oppure nella forma dell’interrogazione?

· Qual è il rapporto tra il verso e la domanda?

· Il verso è una domanda che presuppone nel suo fondamento più intimo l’assenza di ogni eventuale risposta.

· Se la risposta appartenesse, come pare, al dominio della comunicazione, al dominio del senso.

· Il senso è la risposta alla parola che si da nella forma di una interrogazione?

· L’interrogazione è l’unica forma possibile di comunicazione, qui la risposta è implicita nella domanda. Vi è comunicazione quando per ogni domanda è implicita una risposta.

· L’interrogazione che parte dall’impossibilità essenziale della risposta è la poesia.

· La possibilità di questa interrogazione è la parola.

· Così il fare poetico consiste, infine, nel liberare l’interrogazione dalla possibilità della risposta.

· La risposta è il soverchio del linguaggio.

genseki



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martedì, settembre 19, 2006

Lucian Blaga




Poesie

Autoritratto

Luciano Blaga è muto come un cigno
Nella sua patria
In luogo di parole c’è la neve.
La sua anima è in cerca
Muta da secoli cerca
Da sempre
Fino al limite dell’ultima frontiera.

L’acqua egli cerca ove l’arcobaleno beve
Quell’acqua va cercando
Ove l’arcobaleno
Beve la sua bellezza ed il suo nulla.

***

Biografia

Ignoro il luogo e il tempo ove venni alla luce
Solo, nell’ombra mi convinco di credere
Che il mondo intero è un canto
Che in esso stupito mi compio
Un sorriso straniero sulle labbra nella magica ascesa.
Talvolta pronuncio parole non mie
Talvolta amo cose che non mi corrispondono.
Son pieni gli occhi miei di venti, di prodezze sognate
Come tutti cammino
Ora come un peccatore sui tetti dell’inferno,
ora innocente sui monti ove crescono i gigli
Nel cerchio dello stesso focolare
Scambio segreti con gli antenati
Popolo dall’acque reso puro sotto le antiche pietre
A sera tranquillo m’accade d’udire in me stesso
L’ininterrotto sgorgare
Delle favole d’un sangue da tanto dimenticato
E benedico il pane
Benedico la luna.
Vivo di giorno in balìa della tempesta
La bocca colma di parole spente
Io canto ed ho cantato il grande varco,
Del mondo il sonno, gli angioli di cera.
Tacendo sposto da una spalla all’altra,
come fosse un fardello la mia stella.

***

Io non calpesto la corolla di meraviglie del mondo

Io non calpesto la corolla di meraviglie del mondo
Non uccido
Co’ miei ragionamenti i misteri che incontro
Sul cammino
In fiori, in occhi, sopra labbra e tombe
La luce d’altri
Soffoca la magia impenetrabile celata
Nel profondo delle tenebre
Ma io
Con la mia luce amplio il mistero del mondo
Come i candidi raggi della luna
Non spengono
Ma rendono più vivo l’oscuro fremito della notte
Così rendo più ricco l’orizzonte tenebroso
Vasto di brividi del Santo Mistero.
Ciò che non è compreso
Cresce ad incomprensione ancor più grande
Per gli occhi miei
Ed amo
I fiori, gli occhi, le labbra e le tombe.

***

Paradiso in rovina

Tiene il guardiano alato ancora tesa
L’impugnatura d’una spada spenta
Non lotta con nessuno
Ché già vinto si sente
Per le pianure e per i campi ovunque
I serafini dalle chiome argentee
Del vero han sete
Ma l’acqua delle fonti
Fugge dai loro secchi.

Arando senza fede
Con aratri di legno
Si dolgono gli arcangeli
Del peso delle ali.
Vola tra i soli prossimi
Dello Spirito Santo la colomba;
e con il becco spenge le ultime scintille.
Nudi la notte gli angeli si coricano
Tremando nei covoni:
Sventura a me, sventura a te
Ora che l’acqua viva invade una coorte di ragni
Gli angeli marciranno, un giorno, nell’argilla
Taciterà la terra le leggende
Del corpo triste.

***

Fumo caduto

Sulle fredde pianure il volo delle oche
S’ode eco illusoria e passeggera
Lontano canto si lascia raggiungere
Dai richiami dell’eternità.
Inaridisce un flauto, un altro si fa muto
Alleluia il mio sguardo s’empie d’ali e di vento
Io non devo alla vita alcun ragionamento,
ma per tutta la vita le sono debitore.
Spesso con gesti spezzati
Vedo volte crollate nelle acque,
appaio tra i cespugli del villaggio
Qual da biblico carro
Sono il fratello stanco
Oggi come non mai
Del cielo di laggiù
E del fumo che cade dal camino.

***

Crepuscolo d’autunno

Da rosse labbra
Il crepuscolo sui monti
Soffia sopra la cenere di nuvole
Per attizzare la brace celata
Dal loro grigio velo sottile.

Un raggio
Che dall’occidente è accorso
L’ali ripiega e si posa tremando
Sopra una foglia
Ma troppo grave è il peso
Cade la foglia.

Anima mia
Resta bene celata nel mio petto
Nel più profondo,
Sì che raggio di luce non ti sfiori,
Ne crolleresti.

E’ autunno.

***

Il campo

D’oro a bizzeffe scoppiano le spighe.
Rosse gocce disseminano i papaveri
Nei campi
Una fanciulla
Di lunghe ciglia come spighe d’orzo.

Abbraccia con lo sguardo fasci di cielo puro
E canta.

Resto sdraiato all’ombra dei papaveri
Non ho rancori, rimorsi, desideri
Né slanci, solo un corpo
Un po’ di creta
Ella canta
L’ascolto
Sboccia l’anima mia sulle sue labbra
Come corolla.

***

La morte di Pan

IV. Aria di siringa

Solo ora sono e colmo di cardi
Io che un tempo regnai su stelle e il cosmo
Con la siringa m’udiva cantarlo.

Tende il nulla le corde.
Nessun straniero più
Penetra la mia grotta,
Solo le salamandre variopinte
E talvolta:

La luna.

***

Silenzio tra vecchie cose

Vicina vicina mi è la cara montagna
Da vecchie cose sono circondato
Coperte di muschio dal principio dei tempi
Nella sera dai sette soli neri
Che portano le tenebre buone
Dovrei esser felice.
Regna un silenzio adeguato nel cerchio
Che reggono le doghe della volta.
Ma mi sovviene il tempo in cui non ero
Come fosse un’infanzia lontanissima,
Ho nostalgia di non esser restato
Nella contrada senza nome.
Eppur mi dico
Stanno in cielo le stelle senza chiasso.
Davvero dovrei essere felice.

***

La grande traversata

Regge il sole allo zenith la bilancia del giorno
Ed il cielo si dona all’acque della terra
Gli animali che passano, occhi saggi,
Senza paura guardano l’ombre loro nell’onda
Ed il fogliame eleva le sue volte profonde
Sull’eterna leggenda.

Nulla vuol esser altro da se stesso
Solo il mio sangue corre per i boschi
Della lontana infanzia sempre in caccia
Siccome un vecchio cervo
Che chiama la compagna persa in morte

Ell’è forse perita tra le rocce
O forse è sprofondata nella terra
Attendo in vano qualche sua notizia
Solo risponde l’eco da caverne
Solo ruscelli in cerca dell’abisso.

Sangue senza risposte
Ché solo nel silenzio si udirebbe
L’avanzar della cerva nella morte.

Sempre più lungi esito sul cammino
E come l’assasino che con la sciarpa soffoca
Una bocca ormai vinta
Serro nel pugno tutte le sorgenti
Ché finalmente tacciano per sempre.

***

Salmo

Sempre mi fu dolore la tua solitudine celata
Ma cos’altro avrei potuto fare, mio Dio?
Da bambino giocavo con te
Ti smontavo nei miei pensieri come si smonta un giocattolo.
Poi mi son fatto ancora più selvaggio
Sono morti i miei canti
E senza mai che tu mi fossi prossimo
Per sempre ti ho perduto
In terra, in fuoco, nell’aria e nell’acqua.

Tra il sole che si leva e quello che declina
Di me non resta più che piaga e fango
Tu sei murato nella bara dei cieli.
Se tu non fossi più prossimo alla morte
Che alla vita allora parleresti.

O svelati mio Dio tra questi rovi
Così ch’io sappia quello che mi chiedi.
Vuoi che nel volo afferri la lancia avvelenata
Che qualcheduno contro di te ha scagliata
Per poterti ferire sotto l’ala?
O forse non vuoi nulla?
Tu sei la muta identità immutabile
( In se stesso ravvolto a resta a)
Tu non chiedi. Nemmeno la preghiera.

Ecco, nascono stelle
Nascono insieme alle mie tristezze
Ecco la notte che non ha finestre
Che ne sarà di me Signore Iddio?
Nel tuo cuore depongo i miei vestiti. Il corpo mio
Lo lascio, come si lascia un abito in cammino.

***

Trad. genseki

lunedì, settembre 18, 2006

Chateaubriand


La natura del mistero

Cosa vaga non v'è né dolce, né grande nella vita che non sia da annoverare tra le misteriose. I sensi piú meravigliosi son quelli che ci commuovono in modo un po' confuso: il pudore, l'amor casto, l'amistà virtuosa, son colmi di segreti; si direbbe che i cuori innamorati appena si intendano con le parole e restino come dischiusi.
L'innocnza, poi, che altro non è se non santa ignoranza, non è il più inesprimibile dei misteri?
L'infanzia è felice soltanto perchè non sa nulla, la vecchiezza perché sa tutto: fortunatamente quando si esauriscono i misteri della vita, ecco che iniziano quelli della morte.

Il Genio del Cristianesimo

trad. genseki

domenica, settembre 17, 2006

Castelli


Le loro torri erano scolpite
Nel grigio del loro cielo
Nel bianco del loro sole
Senza ombra - nella vastità
Cinerea degli altopiani

I cristiani sapevano ferire
Allora
Scambiare sale con sangue
Amore con ferro terso
Gelo con edera e spine

Ed era amore, infatti,
Quello che scintillava sulla punta delle nostre lance
Delle loro lance, feconde
Come le palme

Le nostre torri erano guglie sottili
Raggi azzurri nella rete verde dei canali
I nostri monti
Atalaye
Di fiamma solidificata
Come dita di angeli
Come sangue di fiori del paradiso
Come il rame
Generato dal silenzio

Nel mistero concavo
Dell’Uno.

17/09/2006 23:19
genseli

mercoledì, settembre 13, 2006

Wallada bent al-Mustakfi


Wallada bent al-Mustakfi nacque a Cordova verso la fine del secolo X. Suo padre Muhammad III fu proclamato Califfo con il titolo di al-Mustakfi bi-l-Lah il 17 Gennaio del 1024, il 27 di Maggio del 1025, dovette però fuggire verso gli oliveti di Jaén di fronte alla reazione del Califfo si i Yahyà ben Hammud che riconquistò di nuovo la cittá. Quivi per sopravvivere dovette rassegnarsi a chiedere l'elemosina e, finalmente, fu assassinato a Uclés.

A proposito di Wallada leggiamo presso Ibn Bassam

"il suo salotto era il luogo di incontro dei nobili del paese, il suo cortile era il campo di gara per i cavalli della poesia e della prosa. Gli uomini di lettere erano illuminati dalla luce della sua fronte, poeti e scrittori si raggruppavano attratti dalla dolcezza della sua compagnia e dalla facilità della sua accoglienza, nonostante il gran numero di ospiti. Tutto armonizzava con l'altezza del rango, la nobiltà della stirpe e la purezza delle vesti. non si preoccupava di celare le proprie passioni".

Gli olivi di Al-Andalus profumano di oceano, la primavera li bagna di una luce schiumosa e salata.
Questo spazio comprende Damasco e Kandahar. Fa parte con Qom e Ispahan di un'unica cartografia.

Di Wallada ci restano pochi versi, come questi che portava ricamati sulla veste

Lo giuro per Allah sono degna di maestà e nobiltà
Con orgoglio cammino, con il capo altezzoso
Lascio che gli amanti mi tocchino le chiome
Accetto i baci di chi desidera provare la mia bellezza.

genseki

martedì, settembre 12, 2006

Ibn Arabi





Secondo quanto insegna Borges, l’elenco è un vero e proprio genere letterario. In esso si trovano capolavori che si elevano come modelli: la lista delle navi di Omero, le enumerazioni di Rabelais, gli appelli dei Bodhisattva della letteratura Mahayana. Il seguente elenco, di Ibn Arabi, è una vetta e uno scoglio, uno faro nella tempesta delle tassonomie, lo svelarsi della meraviglia della successione che collega oceani vuoti.

Ibn Arabi nacque a Murcia il 28 di Luglio del 1165. In questa città lo ricorda una via abbastanza centrale, di una moderata eleganza, con uno spartitrafico di alte palme.
Ibn Arabi contemplò qui i minareti celesti e respirò l’odore dei fichi e dei datteri che si disfano nell’umidità degli orti. Ora degli orti non resta che il ricordo. Restano rosse guglie tra i monti, e dune di sabbia bianca che rimandano alle città di rame e allo spazio che le allontana dall’anima.

L’anima di Ibn Arabi è una torre caucasica nella verticalità della visione, una catarratta di suoni estatici

Quello che segue è l’elenco dei settanta Veli (che velano e disvelano la Presenza):


Le contemplazioni dei misteri

(Dio) mi disse : alza i veli uno a uno. Alzai il primo e vidi la inesistenza. Poi continuai a sollevare uno dopo l’altro i seguenti veli:

L’esistenza
L’esistente
I patti primordiali
Il ritorno
I mari
Le tenebre
La sottomissione
L’istruzione
La derivazione
La licenza
L’interdizione
La trasgressione
La collera
La prigione
Le lettere
La generazione
La morte parziale
La morte totale
La direzione
La trasmissione
La presa
I due piedi
Il privilegio universale
L’involucro
La partizione
La purificazione
La ricomposizione
La proibizione
La santificazione
Il paio
La cavalcata
La via
Il latte
La chiamata
La miscela
Gli spiriti
La bellezza
L’elevazione
L’autorità
La conversazione intima
La dissoluzione
L’arrivo
L’abbandono
L’amore
La sospensione dei mezzi
Il centro segreto
I semi
La veracità
Il dominio
Il pudore
Il vigore
Il limite
L’eredità
La combustione
L’annichilazione
La sussistenza
Lo zelo
L’aspirazione
Lo svelamento
La contemplazione
La maestà
La bellezza
La scomparsa dell’entità
L’impercettibile
L’inudibile
L’incomprensibile
L’intransmissibile
L’allusione simbolica
Il tutto.

genseki

mercoledì, settembre 06, 2006


Jorge Eduardo Eielson

***



Dio sorride nello schermo

Del cielo. Vedo il suo sembiante
Fatto di righe e punti
Luminosi. Non sono sicuro, però
Che sia il suo. Se fosse il mio?
Spengo la televisione
Sorrido anch’io

*


Vedo una sfera gialla

Ma quadrata che brilla appena.
Già non è più nulla. Vedo migliaia
Di sfere gialle
Che non sono quadrate
E che non brillano nemmeno

*

Dopo tutto quello che ho visto

Nella vita continuo a credere
Che non v’è nulla di più semplice
Né di più bello
Che una bottiglia di vino
Quando piove
E solo il fuoco ci resta
Per amico

*

So perfettamente

Che la mia casa è una stella
Che si chiama vita
Che questa stella è la terra
E che ne avrò un’altra di casa più tardi
Su un’altra stella
Chiamata morte

*

Nonostante tutto quello che ho vissuto

E sognato la mia unica corona
È la mia povertà
Il mio sangue porporino e stanco
Il mio unico manto nella vita
Principe eterno di niente
Nulla mi rende più felice
Nulla più leggero
Che la mia corona

*

Faccia dei coriandoli con questo foglio di carta

E li getti dalla finestra
Con le sue angustie
I suoi calzini e le sue unghie
Qualcuno giú di sotto finirá per riceverli
Como chi riceve
La pioggia dal cielo.

*

Gli uomini d’affari non respirano

Non singhiozzano non conoscono
Le magnolie. Solo a gran pena orinano
E defecano come possono. Neppure
Amano qualcuno e nessuno
Li ama. Non vi sono animali piú veloci
E piú prossimi a la morte
Che questi esseri vacui
Non c’è nulla che non desiderino
O che sia loro negata ma al loro contatto
Tutto diventa nulla
Gli uomini d’affari
Sono tanto veloci e tanto stupidi
Che non conoscono
L’ozio.

*

Trad. genseki

martedì, agosto 22, 2006

Supervielle


Io cerco di donarti
Ombra d'albero verde
Che, per te, tale resti
Anche se il tempo oscura
Tu di cui ben conosco
Il bel viso vivace
Anche se vuoi celarlo
Un po' di più ogni giorno
Donna morbido manto,
Timida bestiolina
Senza posa sfuggente
Begli occhi senza sponda
Circondati da lance
Sorte dal mio silenzio.

Trad. genseki

giovedì, luglio 27, 2006

Ben Waddah


Ben Waddah, Ahmed (Murcia, 1135)



Mi meraviglio dell’ingratitudine dell’arco
Non è leale con i colombi della macchia

Quando era ramo fu loro amico
Ora ch’è arco non ne ha pietá.
Tali le metamorfosi del tempo

Trad. genseki

Ben Waddah scrive queste righe immerso negli orti, nella profonditá verde dei palmeti e delle canne con l’odore dell’acqua verde come il bronzo.
L’acqua ha un odore, nel fondo degli orti, la geometria degli orti è perfetta
L’acqua delinea i perimetri, circoscrive, separa, definisce e traccia.
Intornio la terra è rossa e bianca e i pini montani si disfano in vaghe trasparenze.
Il bianco e il grigio dei colombi in fondo alla macchia è fresco, appartiene al mondo dell’acqua, al gorgogliare, al mormorio. Naturalmente tutto questo non lo sappiamo, possiamo solo immaginarlo ampliando scorci casualmente sopravissuti alla calcificazione.
Lontano sta la cittá. Ma pure la cittá è un labirinto di cortili e di giardini, dove gli animali, cani soprattutto sono importanti protagonisti.
Sulla cittá i minareti
Come funghi azzurri.

Questo testo puó evocare il momento in cui nacque come pura calligrafia, come gioco di parallelismi.

Il primo movimento è circolare e va dall’arco ai colombi e dai colombi all’arco.
Esso è diviso in quattro segmenti, il primo e il terzo, il secondo e il quarto sono in relazione metamorfica l’uno cn l’altro. L’arco si trasforma in ramo, i colombi passano dall’immobilitá al volo (dalla sicurezza al timore).
L’ultimo verso introduce la direzione: il tempo che corrisponde al diametro
del circolo appena descritto.
La direzione é antioraria, il tempo va dall’arco al ramo, come in una pellicola proiettata all’indietro.

Vediamo l’arco ritornare legno nella mano dell’artigiano e poi ramo nelle mani del boscaiolo che delicatamente pare ricollocarlo nel suo punto di incastro sul tronco del vecchio albero frondoso.
Ecco il frullo palpitante del volo dei colombi si immobilizza in un punto impercettibile di quiete e come attratti da una forza invisibile essi si appoggiano di nuovo su ramo che un attimo prima li seguiva sotto forma di freccia.

Poi di nuovo udiamo lo sciacquio pigro dell’acqua tra le canne scure e l’odore delle pesche che marciscono nell’orto.

Questo breve testo inutile è dedicato a Hezbollah a Hassa Nasrallah ai suoi combattenti, ai suoi martiri.

genseki

giovedì, luglio 20, 2006

Canti di Lontananza


Laura Silvestri


Qui intorno non c’é proprio miente, anche la luce bianca e spessa sembra un limite, un blocco livido, diffuso, una gelatina appiccicosa che copre le pietre, si fa trascinare dal vento, fino a trattenere perfino la notte oltre il confine.

martedì, luglio 18, 2006

Autografa Gamma



Poesie di genseki

*

La terra nutre le ali
La terra le nutre e le rende alla notte
La notte al fuoco
Alla morte delle stelle

Son ali e furono polvere
Son ali della sete
Consumate di povertá
Sono milioni di milioni di ali
Sui vostri giardini, nei vostri guardaroba, nei nostri cuori
Attraverso i nostri sguardi

Son ali polverose nei vostri quartieri
Ali grige nei nostri polmoni
Sfrigolerebbero se vi fossero candele

Ali
A sparire in un fruscio di ali

Quando la prima lacrima
Si specchierà nell’ultima goccia
Di pioggia
A stento trattenuta
Da un lembo di sonno.

14/07/2006


*

Calasparra

Quanti olivi per fare un paesaggio!

Senza ombre
Dove il verde é un getto
E sale verso il rosso
E si fa trasparente

E l’acqua é luce

Lo sguardo si assottiglia
Fino a farsi lamina
Di vista

Il sole schiaccia il mondo
E lo solleva

Nel suo sogno
Verticale.

*

16/07/2006

*

L’acqua ha il colore del bronzo
La pesantezza sferica
Dello specchio
Che riflette la colonna del sole
Nell’ora verticale
Delle palme.

*

17/07/2006 13:56

*

Troverò il suono
Un giorno,
Il suono cavo
La pulsazione sorda
Che collega le ali delle palme
A quello che resta di me
Scuoiato dal mare
Disperso dalle tenaglie del sale
Sulla graticola delle conifere
Sulla clessidra di colori
Della risacca ?

*

17/07/2006 17:03:29

*

L’ora rovente
Vetrifica il passo e lo sguardo
Sono asceti i pini
In ginocchio sui ciottoli di lava
Il fuoco verde della linfa
Risana
La piaga
Dei conversi..

*

17/07/2006 17:07:28

*

In un via vai di colori
Si perde la trasparenza
Resto fatto di ossa
Sensibili
A ogni soffio
Di sguardo.

18/07/2006 11:36:39

*

Dove raccoglieró i miei occhi
In questo pozzo di luce?
Quando ritroveró il lago
Dove la pupilla si spoglia
Tra guizzi di dorsi
Squamosi
E riflessi di mirti?

18/07/2006 11:40:11

*

I minareti azzurri
Tra i limoni,
L’odore dell’acqua
Tiepida, del legno delle norie
I canali calligrafano il nome di Dio
Sulla pelle degli orti

I cristiani sono carnivori
Hanno orrore delle mosche
E del cuoio

Ci saranno solo coltelli

18/07/2006 14:44

*

mercoledì, luglio 12, 2006

Cristo Arboreo


Ezequiel Martinez Estrada
(1895-1964)


Nella simbologia cristiana la croce è chiamata albero: l’albero della croce. Il suo frutto è il Cristo.
Estrada segue questo cammino simbolico e va oltre. L’albero stesso è il crocifisso. L’albero è natura cristica, la croce è il Cristo.
La natura vegetale è il primo segno profetico del sacrificio divino.
Il sacramento della clorofilla.

genseki




L’amore nella linfa



Strinse la terra le sue matrici
E si fece più urgente
Il martirio clemente
Delle sante radici.

L’albero sedentario
La sua libertà volle
Offrire sottomesso
Al mobile fratello

Si rassegnò a una sorte
Di paralisi fiera
Affinché il mondo fosse
Libero dalla morte

E dentro i sonni atroci
Dell’assogettamento
Si diede in alimento
Ai nipoti feroci

Col temperare il clima,
Rendendo digeribili
I tossici terribili
Della materia prima.

Dié agilitá alla scimmia
E le piume al serpente
Purificó l’ambiente
Che avvelena il carbonio

In fiori e frutta diede
Sua bontá naturale
Si aprí nell’aria uguale
Ad una man che scruta

Ei fece santo il suolo,
Verde, dolce, fecondo
Da lui ebbe l’uccello
La facoltá del volo

Al vegetale deve
La vita l’animale
Che sfugge nelle selve
Alle crudeli belve

Offerse contro l’acqua
La grande chioma aperta
E suggerí al selvaggio
E capanna e piroga.

Patí eterni dolori
Il suo martir fin tanto
Che imparó quel pianto
Che ne profuma i fiori.

Santa é ogni era
Vegetale, ed io sento
Che vi pensa un pensiero
Sottil d’un altro tipo.

Nel mondo non son tante
Le virtú quanti i fiori,
E forse son migliori
Dei santi le piante.

In esse si riassume
Ogni pena e saggezza
Fino a che giunga il giorno
Che ne sveli il profumo.

Anche la meraviglia
Primordiale ne sgorga
Al copiare alle stelle
La semina dei chicchi

Bene é qui ricordare
Quell’antico proverbio
Che nulla piú ci acquieta
Dell’azzurro e del verde

Il mondo verde e azzurro
Ha una legge infallibile
Dare pascolo al bove
E ceppi al Re Saul;

Fiori, alberi, piante
Regno profumato e soave
Cosí rigido e grave
Come gli antichi marmi!

Che in te l’angoscia umana
Le sue ruggini scuota
Mondo che desti al Budda
L’intuizion del Nirvana.


Trad. genseki

martedì, maggio 30, 2006

SonettiIl tuo volto si staglia su una foglia Miniata in luminosa meraviglia Di colore marino ove le ciglia Son ali di gabbiano ed una soglia E' l'iride screziata che assotiglia Il raggio dove l'anima si spoglia D'ogni sua volontà, d'ogni sua voglia Per solcare il tuo mar con nova chiglia. Mare d'amor disdegna la memoria E 'l navegante mai non lascia traccia Del suo passaggio over della sua storia Perché colui che il disio allaccia Perde se stesso e nulla lo minaccia Che non sia risvegliarsi in quella gloria. * Tra quelle rocce che, aride e sparse Nutrono macchie di licheni gialli, Nella rete di crepe grige ed arse Ginestre secche frammenti di talli E ruggine di felci ed erbe scarse Su cenge frali di scisti e cristalli D'orme miniate di speci scomparse Dove s'incrocian le creste delle valli I miei ultimi passi vo' guidando A mesurar l'arena solitaria Con gli occhi bassi, in me stesso mirando E me stesso non vedo nella varia Corrente di pensier che spumeggiando Vuota si va frangendo in luce ed aria. * Foglie che liete all’aria trasparenti Cedete la sostanza del colore Che verdeggiare vi fece insolenti Quando del bosco eravate l’onore Sciami di voci al fremere dei venti Dei grigi tronchi sillabe sonore E della fresca vita fiamme ardenti Che le chiome incorona di dolore. Or vi dissolve la luce quieta Come le nostre mani il vecchio sangue Rami del corpo ormai più non disseta Or vi manca la linfa e sulla creta Vi lasciate cadere e con voi langue L’anima nostra che vede la sua meta. * I cavei d’oro attorti come vite Stringe i rami rugosi dell’ulivo Della memoria alle foglie spaurite Fanno di me sol l’ombra di quel vivo Tronco che le radici presso un rivo Di purpureo licor inumidite Affondava nel grasso sol boschivo Ebbro del pullular di tante vite Dolci e taglienti, impietosi lor fili Sono una rete che ben salda serra Il Cuore alla sostanza della terra, E Tu l’intessi con le dita ostili, O Tempo, alle speranze più gentili, Per renderLo alla morte che l’afferra. * Il tempo vive solo nella mente Che l'alimenta come proprio figlio Restando immota nel mare del presente All'assalto dell'ore non dà appiglio Onde d'istanti s'infrangono lente Or con fracasso, ora in un bisbiglio In spruzzi di pensieri contro il niente Da cui sorge la brama ed il consiglio. Essa permane quieta nell'eterno Carosello che genera il momento Come colei che di se stessa è perno; Né il tempo può causarle nocumento Ché l'effetto non può, se ben discerno, Di sua causa produr l'annullamento. * Voyage à Cythère Uniti nel vascello di un abbraccio Navighiamo nel mar color del vino Vela è l'amore e qual chiglia di pino Offende il nostro petto duro ghiaccio Che il Tempo Antico stringe come un laccio Al doppio cuore che ritma il cammino: Bussola rossa: comune destino. Regge il carneo timone un solo braccio; Viola è la meta di questo sghembo viaggio L'accarezzano i drappi della pioggia Screziato la cinge un caldo raggio Illesa degli scogli dall'oltraggio La prua dei nostri corpi, infine, poggia Sull'arena dell'Isola di Maggio. * WANSHI Sonetto della meditazione seduta dalla Massima del maestro Wanshi Shogaku. Del fenomeno aver pura conoscenza, La cosa rischiarar che non sta inante Davvero è ben sottile sapienza Quando pensier non v’è discriminante; Ove non ha il fenomeno apparenza Maraviglia la luce abbacinante. Se nella mente non v’è differenza Questo sapere non ha simigliante. E’ diafana l’acqua fino al fondo Ed il pesce vi nuota lentamente Libero e lieto nell’umido suo mondo; Il falco sale nel cielo profondo In larghe rote con ala possente Di sé s’oblia nel volo suo giocondo. La dinamica essenziale dei risvegliati è l’essenza dinamica dei patriarchi, essa conosce i fenomeni senza macchiarli, illumina l’oggetto senza averlo di fronte. Conoscendo l’oggetto senza macchiarlo questa conoscenza è in se stessa sottile. Rischiarando l’oggetto senza averlo di fronte, questa chiarità è in se stessa meravigliosa. Questa conoscenza è in se stessa sottile, poiché in essa non v’è pensiero discriminante. Questa chiarità è in se stessa meravigliosa perché non ha la minima apparenza fenomenica. Non avendo il minimo pensiero discriminante, questa conoscenza è indefinibile e senza pari. Non avendo la minima apparenza fenomenica questa chiarità e completa e non afferra. L’acqua è trasparente fino al fondo; il pesce vi nuota tranquillamente. Il vasto spazio è senza limiti; lontano vi vola l’uccello. Massima della meditazione seduta del maestro Wanshi Shogaku Dal Zazenshin del maestro Dogen. * Ruben Dario Conchiglia Sulla spiaggia ho trovato una conchiglia d'oro Massiccio, con un fregio di perle, vago, fine Europa l'ha toccato con le mani divine Mentre varcava l'onde sovra il celeste toro Ho portato alle labbra il mitile sonoro Risuscitando l'eco delle diane marine L'ho accostato alle orecchie e le azzurre colline M'han narrato la storia d'un segreto tesoro Così a me giunse il salso di quegli amari venti Che della nave Argo gonfiarono la vela Quando Giason godette dei Celesti il favore Odo i suono dell'onde, i lor segreti accenti E l'aroma profondo che nel soffio si cela (La conchiglia sonora ha la forma del cuore). Trad. genseki * Sulla soglia Ecco la soglia che s’apre sul mare Conchiglia rosa tra l’alghe, barbaglio Che alla pupilla intermittente appare Stillando vino acre come un taglio Aperto in cielo tra le nubi chiare. Lo sguardo va colpendo come un maglio Quel ricamo lucente che dispare Ad ogni urto in disperato abbaglio Ah! Se potessi aprirmi alla freschezza In un getto di luce come faro Sboccar nell’oltre frastagliato e spoglio Graffiato dagli artigli d’ogni scoglio Ubriaco di sale viola e amaro Per riposare, infine, alla tua brezza. * Sonetto del deporre Lascia che il tempo segua la sua fama Tagli d’un colpo le gemme del ricordo Cali su ogni promessa la sua lama Spenga ogni suono in un gemito sordo Che nulla duri di ciò che si ama Né il pioppo lieve, né il volo del tordo Né il biancospino né il grembo della dama Né l’eco bianca del limpido accordo. Resti l’anima nostra vuota e spoglia E s’intessa dei raggi d’ogni stella Tremando al vento come fosse foglia Vento che soffia dal gorgo alla soglia Ove si forma quello che s’appellaI l sé che lieto di se stesso si spoglia. * José Garcia Nieto Alla tua riva Son giunto alla tua riva. Con un autunno, un passero E una voce arrocchita. Mi attendi: un fiume, Una passione e un frutto. Possiede il nostro incontro Il volo e la corrente, sicuri proclamati Son giunto alla tua riva con le braccia distese Ed ora sono l'erba che non termina mai Il fango dove l'acqua dispone i suoi messaggi E la curva dell'alveo per mescere il tuo sogno. Dimmi se ho meritato col mio duro lavoro Se basta alle tue orecchie il mio verso tristissimo, Se sotto la mia ombra vive in Maggio il tuo corpo. Lascerei la tua riva se ora mi dicessi Che il mio amore è l'amore comune a tutti gli uomini Che suona la mia voce come quella di tutti. Trad. genseki * Il tuo sogno A M.J. Per il tuo sogno penetro nel tuo mare Tra l'alghe del tuo sonno mi rinfresco Sfioro il velluto di meduse rare In succo d'ambra e di giada mi invesco. Per il tuo mare nel tuo sogno mi stendo Come nel fresco d'una bara d'occhi Verso il pelo dell'acqua mi protendo Prima che l'ansia nel tremore sbocchi Nel tuo sonno ritrovo la mia veglia E con l'orecchio sulla tua conchiglia Ascolto l'eco della tua risacca Ecco fremente al porto va la chiglia Il suo terso splendore l'onda abbaglia E con urto di vento, infine, attracca. * Joachim Du Bellay Sonetto La nostra vita è una breve giornata Nel cerchio eterno e l'anno nel suo corso Ne caccia i giorni né mai volge 'l dorso Ché tanto frale è ogne cosa nata. Che pensi, dunque, anima 'mprigionata Che ti compiaci in questo cupo giorno Se per volar a più alto soggiorno Hai pur di penne un'ala ben dotata? Lassù è quel bene ch'ogne spirto desira, Lassù il riposo cui ciascuno aspira, lassù l'amore ed il piacere ancora. Al Sommo Ciel guidata, anima mia, Vi potrai riconoscere l'idea Della beltà che questo mondo adora. Trad. genseki *

Sonetto dell'Unione

Il tuo volto si staglia su una foglia
Miniata in luminosa meraviglia
Di colore marino ove le ciglia
Son ali di gabbiano ed una soglia
E' l'iride screziata che assotiglia
Il raggio dove l'anima si spoglia
D'ogni sua volontà, d'ogni sua voglia
Per solcare il tuo mar con nova chiglia.
Mare d'amor disdegna la memoria
E 'l navegante mai non lascia traccia
Del suo passaggio over della sua storia
Perché colui che il disio allaccia
Perde se stesso e nulla lo minaccia
Che non sia risvegliarsi in quella gloria.

*

Tra quelle rocce che, aride e sparse
Nutrono macchie di licheni gialli,
Nella rete di crepe grige ed arse
Ginestre secche frammenti di talli
E ruggine di felci ed erbe scarse
Su cenge frali di scisti e cristalli
D'orme miniate di speci scomparse
Dove s'incrocian le creste delle valli
I miei ultimi passi vo' guidando
A mesurar l'arena solitaria
Con gli occhi bassi, in me stesso mirando
E me stesso non vedo nella varia
Corrente di pensier che spumeggiando
Vuota si va frangendo in luce ed aria.

*

Foglie che liete all’aria trasparenti
Cedete la sostanza del colore
Che verdeggiare vi fece insolenti
Quando del bosco eravate l’onore
Sciami di voci al fremere dei venti
Dei grigi tronchi sillabe sonore
E della fresca vita fiamme ardenti
Che le chiome incorona di dolore.
Or vi dissolve la luce quieta
Come le nostre mani il vecchio sangue
Rami del corpo ormai più non disseta
Or vi manca la linfa e sulla creta
Vi lasciate cadere e con voi langue
L’anima nostra che vede la sua meta.

*

I cavei d’oro attorti come vite
Stringe i rami rugosi dell’ulivo
Della memoria alle foglie spaurite
Fanno di me sol l’ombra di quel vivo
Tronco che le radici presso un rivo
Di purpureo licor inumidite
Affondava nel grasso sol boschivo
Ebbro del pullular di tante vite
Dolci e taglienti, impietosi lor fili
Sono una rete che ben salda serra
Il Cuore alla sostanza della terra,
E Tu l’intessi con le dita ostili,
O Tempo, alle speranze più gentili,
Per renderLo alla morte che l’afferra.

*

Il tempo vive solo nella mente
Che l'alimenta come proprio figlio
Restando immota nel mare del presente
All'assalto dell'ore non dà appiglio
Onde d'istanti s'infrangono lente
Or con fracasso, ora in un bisbiglio
In spruzzi di pensieri contro il niente
Da cui sorge la brama ed il consiglio.
Essa permane quieta nell'eterno
Carosello che genera il momento
Come colei che di se stessa è perno;
Né il tempo può causarle nocumento
Ché l'effetto non può, se ben discerno,
Di sua causa produr l'annullamento.

*

Voyage à Cythère

Uniti nel vascello di un abbraccio
Navighiamo nel mar color del vino
Vela è l'amore e qual chiglia di pino
Offende il nostro petto duro ghiaccio
Che il Tempo Antico stringe come un laccio
Al doppio cuore che ritma il cammino:
Bussola rossa: comune destino.
Regge il carneo timone un solo braccio;
Viola è la meta di questo sghembo viaggio
L'accarezzano i drappi della pioggia
Screziato la cinge un caldo raggio
Illesa degli scogli dall'oltraggio
La prua dei nostri corpi, infine, poggia
Sull'arena dell'Isola di Maggio.

*

WANSHI
Sonetto della meditazione seduta dalla Massima del maestro Wanshi Shogaku.
Del fenomeno aver pura conoscenza,
La cosa rischiarar che non sta inante
Davvero è ben sottile sapienza
Quando pensier non v’è discriminante;
Ove non ha il fenomeno apparenza
Maraviglia la luce abbacinante.
Se nella mente non v’è differenza
Questo sapere non ha simigliante.
E’ diafana l’acqua fino al fondo
Ed il pesce vi nuota lentamente
Libero e lieto nell’umido suo mondo;
Il falco sale nel cielo profondo
In larghe rote con ala possente
Di sé s’oblia nel volo suo giocondo.

La dinamica essenziale dei risvegliati è l’essenza dinamica dei patriarchi, essa conosce i fenomeni senza macchiarli, illumina l’oggetto senza averlo di fronte.
Conoscendo l’oggetto senza macchiarlo questa conoscenza è in se stessa sottile.
Rischiarando l’oggetto senza averlo di fronte, questa chiarità è in se stessa meravigliosa. Questa conoscenza è in se stessa sottile, poiché in essa non v’è pensiero discriminante. Questa chiarità è in se stessa meravigliosa perché non ha la minima apparenza fenomenica. Non avendo il minimo pensiero discriminante, questa conoscenza è indefinibile e senza pari. Non avendo la minima apparenza fenomenica
questa chiarità e completa e non afferra. L’acqua è trasparente fino al fondo; il pesce vi nuota tranquillamente. Il vasto spazio è senza limiti; lontano vi vola l’uccello.
Massima della meditazione seduta del maestro Wanshi Shogaku
Dal Zazenshin del maestro Dogen.
*

Ruben Dario

Conchiglia

Sulla spiaggia ho trovato una conchiglia d'oro
Massiccio, con un fregio di perle, vago, fine
Europa l'ha toccato con le mani divine
Mentre varcava l'onde sovra il celeste toro
Ho portato alle labbra il mitile sonoro
Risuscitando l'eco delle diane marine
L'ho accostato alle orecchie e le azzurre colline
M'han narrato la storia d'un segreto tesoro
Così a me giunse il salso di quegli amari venti
Che della nave Argo gonfiarono la vela
Quando Giason godette dei Celesti il favore
Odo i suono dell'onde, i lor segreti accenti
E l'aroma profondo che nel soffio si cela
(La conchiglia sonora ha la forma del cuore).
Trad. genseki
*

Sulla soglia
Ecco la soglia che s’apre sul mare
Conchiglia rosa tra l’alghe, barbaglio
Che alla pupilla intermittente appare
Stillando vino acre come un taglio
Aperto in cielo tra le nubi chiare.
Lo sguardo va colpendo come un maglio
Quel ricamo lucente che dispare
Ad ogni urto in disperato abbaglio
Ah! Se potessi aprirmi alla freschezza
In un getto di luce come faro
Sboccar nell’oltre frastagliato e spoglio
Graffiato dagli artigli d’ogni scoglio
Ubriaco di sale viola e amaro
Per riposare, infine, alla tua brezza.

*

Sonetto del deporre

Lascia che il tempo segua la sua fama
Tagli d’un colpo le gemme del ricordo
Cali su ogni promessa la sua lama
Spenga ogni suono in un gemito sordo
Che nulla duri di ciò che si ama
Né il pioppo lieve, né il volo del tordo
Né il biancospino né il grembo della dama
Né l’eco bianca del limpido accordo.
Resti l’anima nostra vuota e spoglia
E s’intessa dei raggi d’ogni stella
Tremando al vento come fosse foglia
Vento che soffia dal gorgo alla soglia
Ove si forma quello che s’appellaI
l sé che lieto di se stesso si spoglia.
*

José Garcia Nieto

Alla tua riva

Son giunto alla tua riva. Con un autunno, un passero
E una voce arrocchita. Mi attendi: un fiume,
Una passione e un frutto. Possiede il nostro incontro
Il volo e la corrente, sicuri proclamati
Son giunto alla tua riva con le braccia distese
Ed ora sono l'erba che non termina mai
Il fango dove l'acqua dispone i suoi messaggi
E la curva dell'alveo per mescere il tuo sogno.
Dimmi se ho meritato col mio duro lavoro
Se basta alle tue orecchie il mio verso tristissimo,
Se sotto la mia ombra vive in Maggio il tuo corpo.
Lascerei la tua riva se ora mi dicessi
Che il mio amore è l'amore comune a tutti gli uomini
Che suona la mia voce come quella di tutti.
Trad. genseki
*

Il tuo sogno
A M.J.

Per il tuo sogno penetro nel tuo mare
Tra l'alghe del tuo sonno mi rinfresco
Sfioro il velluto di meduse rare
In succo d'ambra e di giada mi invesco.
Per il tuo mare nel tuo sogno mi stendo
Come nel fresco d'una bara d'occhi
Verso il pelo dell'acqua mi protendo
Prima che l'ansia nel tremore sbocchi
Nel tuo sonno ritrovo la mia veglia
E con l'orecchio sulla tua conchiglia
Ascolto l'eco della tua risacca
Ecco fremente al porto va la chiglia
Il suo terso splendore l'onda abbaglia
E con urto di vento, infine, attracca.

*

Joachim Du Bellay
Sonetto

La nostra vita è una breve giornata
Nel cerchio eterno e l'anno nel suo corso
Ne caccia i giorni né mai volge 'l dorso
Ché tanto frale è ogne cosa nata.
Che pensi, dunque, anima 'mprigionata
Che ti compiaci in questo cupo giorno
Se per volar a più alto soggiorno
Hai pur di penne un'ala ben dotata?
Lassù è quel bene ch'ogne spirto desira,
Lassù il riposo cui ciascuno aspira,
lassù l'amore ed il piacere ancora.
Al Sommo Ciel guidata, anima mia,
Vi potrai riconoscere l'idea
Della beltà che questo mondo adora.
Trad. genseki
*

lunedì, maggio 29, 2006

Tudor Arghezi


Cherubino Malato

L’angelo mio ancora si ricorda
Della sua felicità di un tempo
Ora che il cielo gli versa nella bocca
Sorsi di latte inacidito, amaro
Gli nega le bandiere delle stelle
Le sue sacre orifiamme
Il vento della sera non lo innalza
Negli aromi dell’olio e del vino
I campi ed i frutteti hanno perduto
I fiori, i frutti, le foglie ed i colori
Le acque nere sotto il cielo ardente
Traggono fanghi di pece bollente
Ovunque cerchi di posare il capo
Crescono spine e l’erba si fa dura
Vanno pel cielo senza lui le gru
E il loro volo non è più richiamo
La vita eterna, il nido dell’ogiva
Hanno cessato di nutrirne il cuore
S’insinua poco a poco nel suo intimo
Nel tempo che si sbriciola, la noia
Segretamente comincia a germinare
Nel corpo bianco un terrestre bubbone.


*

Salmo

Davvero son colpevole, Signore
Ché tutti i beni sempre ho desiderato
Di notte ho penetrato le fortezze
Ho saccheggiato nel sonno e nel sogno
Il braccio teso ed il pugno serrato
Sul marmo era silenzioso il mio passo
Come se camminassi sull’argilla
La bandiera notturna dispiegata di stelle
Copriva le mie gesta
Dormivano le guardie nelle calli
Appoggiate alle lance
Fuggivo cavalcando col bottino
Con una donna dai capelli bruni
I seni scuri gli occhi di rondinella
Le tentazioni dolci, quelle facili
Non furono mai la mia scelta
Nella mia ciotola come nella mente
Io cerco il gusto avvelenato, forte
Il mio bagno è nel ghiaccio
Sui sassi il mio giaciglio
Dove c’è buio attizzo le scintille
Dov’è silenzio scuoto le mie catene
Con i miei ceppi infrango le porte
Dalle alte vette suscito pericoli
Cerco il sentiero stretto per passare
Sulle mie spalle porto interi monti.

Ma il mio vero peccato, imperdonabile
È di aver cercato, o Signore
Di trafiggerti con il mio arco.

Ladro di cieli a me stesso ho giurato
Di saccheggiare con le aquile il tuo cielo
In segreto bramando tutti i beni
Nel segreto ho udito il tuo divieto.

*

trad. genseki

giovedì, maggio 25, 2006

Poesie di genseki

Mantello verde che di varchi azzurri

Mantello verde che di varchi azzurri
Disseminato copri questo mondo
Come dell’orso fulvo la pelliccia
Copre la calda densità del corpo
Copri la mente mia che verticale
Scorrere lascia tutti i sentimenti
Coprila col tuo freddo senza verbo
Estraneo nel tuo morbido lamento
Che si disgreghi infine in ogni foglia
Esperimenti in ogni cellula il morire
Del carbonio partecipi alle doglie
Che ricombinano alte leggi feconde
Gocciolo come pioggia dalla gronda
Sui sassi esplodo in mille gocce grigie
Che riflettono ognuna interamente
Le nervature che tessono il mondo

*

Si sbriciola la sfoglia della vista
Al vento verticale che la investe
E vede da ogni scheggia che si stacca
Tutta la verde vita che rinnova

*

È morbida la vita senza verbo
Zattera sono nella sua corrente
I secoli attraverso dolcemente
Tra i dorsi di testuggini e caimani
E guardo le mie mani che si formano
Mutando squame e piume in dita in unghie
I miei occhi che creano quella sfera
Che si screpola in rami di molecole
È una spugna pulsante non un frutto
Gonfio di sangue e di brividi elettrici
Il mio cervello che lento si aggomitola
In grotte di granito in cavi ceppi
È il grido di un varano che mi sveglia
All’umida coscienza del fluire
Madido d’ogni liquido del mondo
Che utero mi fu di muschio e stelle

*

Con luce in scoppi mi scorgo avvistato
Da un volto in cui mi accorgo del mio volto
Apre la bocca ed io odo il mio grido
Nel fiato suo m’accoccolo in me stesso
L’odio e mi creo in crepe di volere
Come distante dal viscoso abbraccio
Dell’indistinta unità di fame e caccia
Mi raddrizzo mi accorgo dei miei piedi
Eretto infine brandisco lampo e rabbia
Mi afferro a un ramo ed una lancia scaglio
Sento la pietra tra le dita il bronzo
Uccidendo mi intaglio sullo sfondo
Dell’essere screziato che trascorre

*

23/05/2006 22.26
genseki

*

Se c’era Dio è piovuto questa notte
Se disfatto in rovesci e cataratte
Poi l’alba è giunta in un velo di gocce
A dissetare il mondo appena nato
La pozzanghera riflette le galassie
Tutte le cime son gonfie di latte
S’apre l’umida valle al caldo soffio
Del vento fresco carico di semi

lunedì, maggio 22, 2006

Congedo dall'Universo vegetale

Adesso lasciami andare

adesso lasciami andare
Scioglimi dall’abbraccio vegetale
Da questo adesso che si sforza ovunque
Da questa ora che afferra il trascorso
Lasciami solo
Solo per il piatto
Solo per la forchetta e per la sedia,
Per il bollire della caffettiera
Per alzarsi da letto e andare in bagno
Scegliere un libro
Oliare le catene
Stringere i denti
Stridere all’incrocio
Solido e solo
Come di potassio
Sciolto da ogni edera e verbena.

*

13/05/2006 20.55
genseki

*

Guardo il sofà

Guardo il sofà
Cosciente di sparire
Senza cercare l’ombra delle gambe
Che il sole delinea sulle piastrelle
Di marmo del soggiorno
La domanda è comunque
La stessa:
Tutto questo giustifica Beethoven
Dietro il filo spinato
I gommoni che odorano di vomito
La traccia amara di vino nei flutti
Un piede tranciato dall’elica
I capelli crespi?
Il quadro alla parete raffigura una piazza alberata
Che si estende su due continenti.
Uno è il mio.
L’altro del mio occhio.
A quale, infine, posso appartenere?

*

13/05/2006 20.55
genseki

*

Finita infine questa finitudine

Finita infine questa finitudine
Tra la crema e lo spazzolino
Tra il capello e la condanna
Del rasoio
Il riflesso dello specchio rotto
Appena
Posso ora posso
Mi insinuo nella crepa
Mi raddoppio
La seguo dove si fa gocciolio nero
E mi sento coronato
Di quercia:
Goccia dopo goccia
Il prezzemolo appassisce
Nel bicchiere
E finisco e finisce
La finitudine:
La sfera.
*
C’è un’altra domanda forse su Beethoven
Sullo spazio dell’erba
Sulla traccia?
Non conosco altro passo
Che il riflesso
Altro movimento che il coltello
O aggiustare le pieghe d’un vestito
Quando non c’è più polvere
All’altare.
*
Ala invoco
E mi ritrovo il becco
Il rostro l’artiglio
E forse il coccio
Gorgoglia l’orzo nel bricco di alluminio
Il muschio copre il rame
Il raggio e il volo
Alla finestra scende a squama
E stuolo.

*

13/05/2006 22.19
Genseki

*

Queste parole tracciano un perimetro

Queste parole tracciano un perimetro
Lo tracciano intorno a un vuoto
Bianco
Lo tracciano poco a poco
Bisogna naturalmente immaginarsi il vuoto
E non è facile e immaginarsi le parole unite
E l’inchiostro
E la ghiandola
Che lo secerne
E poi tutto il resto
E stare attenti ai tiri birboni
Che

giovedì, maggio 18, 2006

Lo scarabeo



Lo scarabeo non conosce i battelli
Le carezze della schiuma, il sole delle valve
Dolce come le fragole in battigia,
S’adagia invece dove stagnano fanghi
Dove si vende il sangue
La vita le ore i sospiri e il senso
Dove si indeboliscono gli argini
A ridosso dei quartieri più sfavoriti
In modo che si infiltrino che si infiltrino
Negli acquedotti e che le infiltrazioni
Imputridiscano negli acquedotti
Marcendo i paragrafi di inchiostri scaduti di postille lacerate
Di carezze febbrili di strette ai fianchi tra lenzuola madide
Lo scarabeo è un ciottolo stridente
Che si condensa nei baci – delle filatrici –
Delle frese
Dei giocattoli cinesi a uneuro, nelle camicie
Di infima qualità dei mercati rionali
Dove ai tempi dell’Impero si quotavano sete e pece
Mirra e cloroformio
Quando il mare odorava di rabarbaro
E le onde erano lingue vinose che leccavano i tronchi dei pini
Lo scarabeo si posa sulle dita
Si posa sulle dita, sugli asparagi
Sulle dita più delicate
Sulle dita dei bambini
Sulle dita
E le sfiora
Come fossero cose.

*

A questo punto lo scarabeo
Dovrebbe infrangersi
Separarsi negli elementi che lo costituiscono, dividersi, insomma,
Farsi analisi delle sue rette dei
Vettori,
Degli ausiliari, degli specchi, delle spinte, delle suppliche
Di tesi e virgole,
- sarebbe un bel carosello di virgole vuote –
Davvero,
Penetrare lo spazio in un solo punto con tutti questi frammenti
E le speculazioni dell’industria farmaceutica
Trovarsi qui
E al tempo stesso di sopra
Come sasso e geranio, come mano e conchiglia, come foglia e chiocciola,
Lo scarabeo è dialettica e consiglio
Lampo rupe
Palma e dirupo
Si apre (come nel ’77) e scricchiola
Se è una buona annota
Ma non è una parola
Al massimo soltanto un accento.
Talvolta.

*

Cella cellula, cranio
Stupore
Scarabeo, arnia
Adesso apri la porta – dai! –
Vedrai che meraviglia:
Lavorano tutti! – Là fuori –
Cinesi marocchini sciiti; alla massicciata
Tra voli di scarabei
Porosi.

*

Parlavo della democrazia, allora
Parlavo della Democrazia, allora
Mi torcevo le mani
Recidevo fiori
Garantivo rimborsi
Correvo sui balconi
Sulle terrazze
Sugli spalti
Sui merli
Sulla biancheria stesa
Parlavo dell’Impero, allora
Lo esportavo
Per carità, non dimentichiamo la nonviolenza
Tagliavo qualche orecchio
Ascoltavo la radio spesso
In macchina
Nella cabine del telefono
Nella scatolette di tonno
Entravo in Europa, allora
Uscivo dalle bottiglie
Scorrevo a fiotti, poi
Fin dove scattano gli inizi,
Sfregiavo gatti.

*

Quello che non mi aspettavo
Quello che non mi aspettavo
Era ritrovarmi nell’orto
Ritrovarmi allo scoperto
Ritrovarmi senza orologio
Ritrovarmi più forte
Anche se avevo perso quella fluidità di movimento
Tanto caratteristica
Ma sempre rigorosamente bipartizan
Nel ritrovarmi dicotiledone
In un paese spaccato in due
Con una piccola coda
Come uno dei lombrichi meccanici
Del cugino Buckminster.

*

genseki

sabato, maggio 13, 2006

Grandizo Munis

Dalla Padella nella brace

Da molti decenni,ormai, ogni progresso e ogni sviluppo della società appare impossibile per via nazionale. Chi i promotori dell'indipendenza invochino Allah a quattro zampe, Geova battendola testa contro il muro del pianto, la versione cristiano oppure Marx e la rivoluzione atea, non cambia molto. Il risultato, in caso di vittoria e indipendentemente dalla buona fede di quanti servono da carne da cannone, è contrario all'emancipazione della grande massa dei poveri.

...

Bisogna gridarlo a pieni polmoni e senza tergiversazioni: i palestinesi non hanno diritto a costituirsi in nazione, a possedere un territorio e uno Stato. Il Diritto del Capitalismo,in un modo o nell'altro finirà per concedergliene uno con l'approvazione di Israele. Ma è proprio quedstoil Diritto che si deve abolire se si vuole parlare senza imbrogliare di rivoluzione.
La prova inconfutabile di quanto detto è Israele stesso, il popolo perseguitato per eccellenza, quello dell' "Olocausto" nazista, il popolo "senza distinzione di classe", immagine del povero ebreo errante perseguitato dall'inizio della dominazione religiosa del cristianesimo, appena costituito in entitànazionale, organizza uno stato semi-teocratico,super equipaggiato militarmente come le grandi potenze, dipendente da uno dei blocchi imperialisti e incapace, per esclusivismo nazionalista e ristrettezza mentale da "popolo eletto",di offrire ai propri coinquilini palestinesi una situazione economica e politica migliore di quella che esisteva prima della formazione dello stato di Israele. Questo sarebbe stato facile senza nemmeno rompere con la meschinità ebraico-capitalista. Il "Problema palestinese" avrebbe allora cessato di esistere in quanto tale. Sarebbe allora apparsa chiaramente la possibilità immediata - espressione della necessità sociale - di una lotta a-nazionale comune ai lavoratori israeliani e palestinesi contro i loro sfruttatori la cui umana personificazione attuale è quella di Begin e Arafat e che ideologicamente sono rappresentati dal giudaismo e dall'islamismo.
...
E' chiaro che neppure gli ebrei avevano il diritto di andare a vivere dove gli pareva e in modo particolare dove i loro antenati abitavano prima della diaspora; come i palestinesi giunti dopo nello stesso territorio. Creare una nazione è prima di tutto organizzare lo sfruttamento dentro frontiere determinate e crearsi le possibilità per sfruttare anche al di fuori di esse...
trad. genseki
testo del 14 settembre 1982
*

Georg Steiner

Nazionalismo

La unica cittadinanza dell'intellettuale e' un umanesimo critico. Questo non solo sa che il nazionalismo e' un tipo di follia, un'infezione virulenta che conduce i gruppi al reciproco massacro; sa pure che il nazionalismo significa una rinuncia al pensiero libero e chiaro e alla ricerca disinteressata della giustizia.

Georg Steiner
da "Passion no spent"
*

venerdì, maggio 05, 2006

José Carlos Mariàtegui




César Vallejo
Trad. genseki

Il primo libro di César Vallejo, “Gli Araldi Neri” è l’alba di una nuova poesia in Perù.

Vallejo è il poeta di una stirpe, di una razza. In Vallejo si trova, per la prima volta nella nostra letteratura, il sentimento indigeno sorgivamente espresso. … Vallejo, …, ottiene nella sua poesia un nuovo stile. Il sentimento indigeno ha nei suoi versi una propria modulazione. Il suo canto è integralmente suo. Al poeta non basta recare un nuovo messaggio. È necessario portare una tecnica e un linguaggio egualmente nuovi. La sua arte non tollera l’equivoco e l’artificiale dualismo dell’essenza e della forma. Il sentimento indigeno … in Vallejo è qualche cosa che affiora pienamente nel verso stesso cambiando la sua struttura. … Vallejo è un creatore assoluto.
Classificato all’interno della letteratura mondiale, questo libro, “Gli Araldi Neri”, appartiene, naturalmente per il suo titolo, al ciclo simbolista. Il simbolismo è però di ogni tempo. Il simbolismo, d’altra parte, si presta meglio di ogni altro stile all’interpretazione dello spirito indigeno. L’Indio, animista e bucolico, tende ad esprimersi in simboli e in immagini antropomorfe o contadine. Vallejo inoltre è solo in parte simbolista. Nella sua poesia – soprattutto della prima maniera – si trovano elementi di espressionismo, di dadaismo e di surrealismo. Il valore sostanziale di Vallejo è quello del creatore. La sua tecnica è in elaborazione continua. Nella sua arte il procedimento corrisponde a uno stato d’animo. Quando Vallejo, agli inizi, prende in prestito, per esempio, il suo metodo a Herrera e Reissig, lo adatta al suo lirismo personale.
Tuttavia fondamentale, caratteristico nella sua arte è il tono indio. In Vallejo c’è un americanismo genuino ed essenziale ; non un americanismo descrittivo o vocalista. Vallejo non fa ricorso al folklore. La parola quechua, il giro vernacolo non si inseriscono artificiosamente nel suo linguaggio; in lui sono prodotto spontaneo, cellula propria, elemento organico. Si potrebbe dire che Vallejo non sceglie i propri vocaboli. Il suo autoctonismo non è deliberato. Vallejo non si immerge nella tradizione, non si inoltra nella storia, per estrarre dal suo substrato oscuro emozioni perdute. La sua poesia e il suo linguaggio emanano dalla sua carne e dalla sua anima. Il suo messaggio è in lui. Il sentimento indigeno opera nella sua arte forse senza che egli lo sappia o lo desideri.
Uno dei tratti più chiari e netti dell’indigenismo di Vallejo mi pare la sua frequente attitudine nostalgica. … l’evocazione in Vallejo è sempre soggettiva. Non si deve confondere la sua nostalgia concepita con tanta purezza lirica con la nostalgia dei passatisti. Vallejo è nostalgico ma non puramente retrospettivo. Non rimpiange l’Impero come come il passatismo codino rimpiange il vicerè. La sua nostalgia è una protesta sentimentale o metafisica. Nostalgia d’esilio, nostalgia d’assenza.

Altre volte Vallejo presenta o predice la nostalgia che verrà.
Vallejo interpreta la stirpe in un istante in cui tutte le sue nostalgie, stimolate da un dolore di tre secoli si esacerbano. Tuttavia – e anche in questo si identifica un tratto dell’anima india -, i suoi ricordi sono pieni di questa nostalgia di mais tenero che Vallejo gusta malinconicamente…
Vallejo ha nella sua poesia il pessimismo dell’Indio. La sua esitazione, la sua domanda, la sua inquietudine, si risolvono tipicamente in un “a che scopo!” In questo pessimismo si trova sempre un fondo di umana pietà.. Non v’è nulla di satanico e neppure di morboso… . E’ il pessimismo di un’anima che soffre ed espia “il dolore degli uomini” come dice Pierre Hamp. Questo pessimismo non ha un’origine letterario. Non traduce una romantica disperazione di adolescente turbato dalla voce di Leopardi o Schopenhauer. Riassume l’esperienza filosofica, condensa l’atteggiamento spirituale di una stirpe, di un popolo. Non si cerchi una parentela con il nichilismo o lo scetticismo intellettualistico occidentale. Il pessimismo di Vallejo, come il pessimismo dell’Indio, non è un concetto ma un sentimento. Ha una vaga trama di fatalismo orientale che lo avvicina, piuttosto, al pessimismo mistico e cristiano degli slavi. Non si confonde mai, però, con questa neurastenia angosciosa che conduce al suicidio i personaggi di Andreiev e Arzibachev. Si potrebbe dire che così come non è un concetto non è nemmeno una nevrosi.
Questo pessimismo si presenta pieno di dolcezza e di carità. Il fatto è che non lo genera un egocentrismo, un narcisismo, disincantati e disperati, come in quasi tutti i casi del ciclo romantico. Vallejo sente tutto il dolore umano. Il suo dolore non è personale. La sua anima “è triste fino alla morte” della tristezza di tutti gli uomini. E della tristezza di Dio.

Altri versi di Vallejo negano questa intuizione della divinità. Nei “Dadi Eterni” si rivolge a Dio con amarezza e rancore. “Tu che sei stato sempre bene, non senti nulla della creazione”.

Questo gran lirico, questo grande soggettivista, si comporta come un interprete dell’universo, dell’umanità. Nulla nella sua poesia ricorda il lamento egolatrico e narcisista del romanticismo. Il romanticismo del secolo XIX fu essenzialmente individualista; il romanticismo del 900, invece, è, spontaneamente e logicamente, unanimista.
Quest’arte segnala la nascita di una nuova sensibilità. È un’arte nuova, un’arte ribelle che rompe con la tradizione cortigiana di una letteratura di buffoni e di lacché.
Vallejo, nella sua poesia è sempre un’anima avida di infinito, assetata di verità. In lui la creazione è, allo stesso tempo, ineffabilmente dolorosa ed esultante. Questo artista non aspira che ad esprimersi in modo puro e innocente. Per questo si spoglia di ogni ornamento retorico, si sveste di ogni vanità letteraria. Giunge alla più austera, alla più umile, alla più orgogliosa semplicità di forma. È un mistico della povertà affinché i suoi piedi conoscano la durezza e la crudeltà del suo cammino.

*

martedì, maggio 02, 2006

Vallejo



Vallejo
Da: "Poemi Umani"
trad. genseki

Ma prima che finisca
Ma prima che finisca
Tutta questa fortuna, perdila, accorciala,
Prendine la misura, se superasse il tuo cenno, superala
Guarda se ci sta, distesa nella tua estensione.
Ben la so dalla chiave,
Anche se spesso non so se la fortuna
Vada sola, appoggiata alla disgrazia,
O suonata, solo per darti gusto,
Nelle falangi tue.
Ben la so unica, sola,
In solitaria sapienza.
Nella tua orecchia bella è la cartilagine
E per questo ti medito e ti scrivo
Nel sogno ricordati di pensare che sei felice
Che profonda è fortuna al terminare,
Ma seco reca al giungere un aroma
Caotico di asta morta.
Fischiando alla morte
Cappello ad alta tesa,
Bersaglio ti defili a vincere la pugna delle scale,
soldato dello stelo , filosofo del seme, meccanico del sogno
(Animale mi senti?
Mi lascio comparare in quantità?
Taci e silente mi fissi
Attraverso le età della parola).
Schivando la fortuna, tornerà
A chiamarla la tua lingua, a congedarsi
Fortuna disgraziata nel durare.
Prima terminerà violentemente,
Dentata, dura stampa,
Allora sentirai come vo’ meditando
Come l’ombra tua è questa mia svestita
Allora fiuterai quanto ho sofferto.

*
Confida nella lente e non nell’occhio

Confida nella lente e non nell’occhio;
Nella scala, giammai nello scalino;
Nell’ala, non nell’uccello
E in te solo, in te solo, in te solo.
Nella malvagità confida, non nel malvagio
Nel bicchiere ma non nel liquore;
Nel cadavere, non nell’uomo
E in te solo, in te solo, in te solo.
Fidati dei molti non di uno;
Dell’alveo, giammai della corrente
Dei pantaloni, e non delle gambe
E in te solo, in te solo, in te solo.
Fidati della finestra, non della porta;
Della madre, ma non dei nove mesi;
Del destino, non del dado d’oro,
In te solo, in te solo, in te solo.

*

Due bambini anelanti

No. Non hanno spessore le sue caviglie; Non è il suo sprone
Dolcissimo, che colpisce le due guance.
Solo la vita è, vestaglia e giogo.
No. Plurale non ha la sua risata,
né per essere uscita da mollusco perpetuo, agglutinante,
Né per essere entrata in mare scalza,
Essa è quella che pensa e va, ed è finita.
È la vita; nient’altro che la vita.
Lo so, lo intuisco cartesiano, automa,
Moribondo, cordiale, infine splendido.
Nulla v’è
Sul crudele sopracciglio del teschio;
Nulla tra ciò che diede ed afferrò con guanto
La colomba, e con guanto,
L’eminente lombrico aristotelico;
Nulla davanti e nulla dietro il giogo
Nulla resta del mare nell’oceano
E nulla
Nell’orgoglio severo della cellula.
Solo la vita; tale; ed audacissima.
In estesa pienezza
Portata astratta, fausta, effettivamente,
glaciale ed impetuosa, della fiamma;
Freno del fondo, coda della forma.
Ma quello
Grazie al quale son nato, ventilandomi
E crebbi con affetto e dramma propri,
La mia fatica lo rifiuta,
Lo avvolgono i miei sensi e la mia anima.
Solo è la vita stabile e teatrale.
Su questa rotta,
L’anima mia estingue la serie dei suoi organi
E per questo indicibile cielo indemoniato,
Il mio apparato di sibili tecnici,
Passò la sera nel mattino triste
E palpito e mi sforzo e sento freddo.
*
Compagno, serve ancora po’ di calma
Compagno, serve ancora un po’ di calma
Un molto immenso, nordico, completo,
Feroce, d’una calma piccolina,
Al servizio minor d’ogni trionfo
All’audace servizio dello scacco.
Ubriaco fin troppo, e non havvi
Tanta follia nella ragione quanto
Questo tuo muscolare raziocinio, né
Fallo più razional che l’esperienza.

Ma, per parlar chiaro
A ben pensarci, sei fatto d’acciaio
Se sol tonto non fossi
A rifiutare
D’entusiasmarti tanto per la morte
E per la vita, sol con la tua tomba.
Occorre che tu sappia
Contenerti in volume senza correre né affliggerti,
La tua realtà molecolare intera
E più oltre, la festa degli evviva
E meno oltre, gli abbasso leggendari.
Tu sei fatto d’acciaio, come dicono,
A patto che non tremi, e che non fugga
A crepare, compare
Del mio calcolo, enfatico figlioccio
Dei miei Sali luminosi!
Vanne, nient’altro; decidi,
Considera la crisi, somma, avanti,
Tagliala, abbassala, guastala;
Il destino, le intime energie, i quattordici
Versetti del pane: quanti diplomi
E poteri, al bordo fededegno del tuo slancio!
Quanto dettaglio in sintesi, con te!
Quanta pressione identica ai tuoi piedi!
Quanto rigore e quanto patrocinio!
Idiota è
Questo modo di patire,
In luce modulata e virulenta,
Se solo con la calma fai segnali
Seri, caratteristici, fatali.
O uomo andiamo, fammi dunque vedere;
Dimmi quel che m’accade,
Che io anche se grido, resto sempre ai tuoi ordini.

*

Questo…

Questo
Avvenne tra due palpebre; tremai
Nella mia guaina, collerico, alcalino,
Immoto accanto al lubrico equinozio
Al piè del freddo incendio in cui m’estinguo,
Scivolata alcalina, vo dicendo,
Di qua dell’aglio, sciroppo sopra i sensi,
Più dentro, molto più di queste ruggini,
Quando va l’acqua al ritornar dell’onda.
Scivolata alcalina
Anche e soprattutto, nel montaggio ciclopico del cielo.
Che dardi e arpioni lancerò, se muoio
Nella mia guaina; sboccerò in foglie di banana sacra
I miei cinque ossicini subalterni,
E nello sguardo il medesimo sguardo
(dicono edificarsi nei sospiri
Tattili fisarmoniche di ossa,
Che morendo così quanti si estinguono,
Muoiono ahimé fuori dall’orologio,
Afferrando una scarpa solitaria)
Se tutto lo comprendo, il colonnello
E il resto, nel lacrimoso senso della voce
Da solo mi torturo, e tristemente estraggo,
Nella notte, le unghie;
E poi non ho più nulla e parlo solo
Correggo i miei semestri
E per gonfiar le vertebre mi tocco.

*

Al cavillar la vita, al cavillare

Al cavillar la vita, al cavillare
Pian piano nello sforzo del torrente,
Allevia, e un seggio offre all’esistenza,
Condanna a morte;
Cade tutto ravvolto in stracci bianchi,
Cade come pianeta
Bollito il chiodo nella pesantezza; cade!
(La mia sinistra, acredine ufficiale;
E tasca vecchia, in sé considerata, questa destra).
È tutto lieto, tranne la mia gioia
E tutto, lungo, meno il mio candore,
La mia incertezza!
Se giudico la forma, tuttavia vado avanti,
zoppicando all’antica,
Per le lacrime mi dimentico degli occhi (Interessantissimo)
Salgo fino ai miei piedi da una stella.
Tesso ; d’aver filato, vo tessendo.
Cerco ciò che mi segue nascosto tra arcivescovi,
Sotto l’anima mia e dietro il fumo del mio alito,
Tale era la delusione sensuale
Della vergine capra che ascendeva,
esalando fatidici petroli,
Ieri domenica in cui persi il mio sabato,
Tale la morte, con suo audace consorte.

*

Chitarra

Il piacer di soffrire e di odiare, mi tinge
La gola dei suoi plastici veleni,
Ma la setola che impianta ordini magici,
e taurina grandezza, tra la prima
E la sesta
E l’ottava mendace, tutte soffre.
Il piacer di soffrire… Chi? Per chi?
Chi, i denti? Per chi la società?
I carburi di rabbia dell’alveolo?
Come essere
E star senza dar collera al vicino?
Vali più del mio numero, uomo solo,
E valgon più che tutto il dizionario,
Con la sua prosa in verso,
Con il suo verso in prosa,
La tua funzione aquila,
Il tuo congegno tigre, dolce prossimo
Il piacer di soffrire
Di aspettare speranze sulla mensa
La domenica con tutte quelle lingue,
Il sabato d’ore della Cina o del Belgio,
La settimana con i suoi due sputi.
Il piacere di attendere in ciabatte,
Di attendere contratto dietro un verso,
Di attendere con forza a mala rabbia;
Il piacer di soffrire: inganno di femmina
Morta con una pietra alla cintura
E morta tra la corda e la chitarra,
Piangendo i giorni mentre canta i mesi.

*

Per il puro calore ho tanto freddo

Per il puro calore ho tanto freddo
Sorella Invidia!
Leccano i leoni la mia ombra
E il topo morto mi rosicchia il nome,
Madre, anima mia!
All’orlo dell’abisso vo,
Cognato Vizio!
Tintinna il bruco la sua voce,
E la voce tintinna il suo bruco,
Padre, corpo mio!
Mi sta innanzi il mio amore,
Nipotina colomba!
In ginocchio, il terrore
Di testa, la mia angoscia
Madre, anima mia!
Fin quando un giorno senza due
Tomba mia sposa,
Risuoni il mio ultimo ferro
Di vipera dormiente,
Padre, corpo mio!

*

Son restato a scaldare l’inchiostro in cui mi affogo

Son restato a scaldare l’inchiostro in cui mi affogo
Ad ascoltare la mia grotta alternativa,
Notti di tatto e giorni di astrazione.
Rabbrividì l’incognita in amigdala
E crepitai d’annua melanconia,
Notti di sole, dì di luna, tramonti di Parigi.
Ed ancora, oggi stesso, verso sera,
Digerisco sacratissime costanze,
Notti di madre, giorni di pronipote
Bicolore, lasciva, urgente, bella.
E ancora
Giungo fino al mio aereo da due posti,
Nel mattino domestico brumoso
Che emerse eternamente da un istante.
E ancora,
Anche ora
In fondo all’aquilone ove ho raggiunto
Il bacillo felice e dottorale,
Eco che caldo, udente, terro, sole e luno,
Incognito attraverso il cimitero,
Prendo a sinistra, fendo
L’erba con alcuni endecasillabi,
Anni di tomba, litri di infinito,
Inchiostro, penna, laterizi e perdoni.

*

La ruota dell’affamato

Dentro i miei propri denti vo fumando,
Dando voce, spingendo,
Calandomi le brache …
Vuota stomaco mio, vuota budella,
Dai denti miei mi tira la miseria
Con uno stecco infilzato ad un polsino.
Una pietra ove sedermi
Non c’è per me?
Nemmeno la pietra in cui inciampa la donna che ha partorito,
La madre dell’agnello, la causa, la radice,
Non ci sarà adesso per me?
Oppure l’altra
Che ha trafitto l’anima piegandosi!
Almeno una calcarea o cattiva (umile oceano)
O quella che non serve nemmeno per tirarla contro l’uomo,
Datela a me, quella li!
Almeno quella che troveranno sola e trafitta in un insulto,
Datela a me, quella li!
Almeno la contorta o coronata, ove risuona
Solamente una volta il passo di rette coscienze,
o, almeno, quest’altra, che gettata in degna curva,
Va a cader da se stessa,
Professando da autentica interiora,
Datemela adesso quella li!
Un pezzo di pane! Non v’è neppure quello ora per me!
Ormai essere devo ciò che sempre sarò,
Ma datemi
Una pietra per sedermi,
Datemi
Per favore, un pezzo di pane ove sedermi,
Datemelo,
In spagnolo
Qualcosa che io possa infine bere, mangiare, vivere, riposare,
Poi me ne andrò…
Trovo strana la forma, strappata
E sporca la camicia
E non ho proprio nulla, e questo è orrendo.

*
30/04/2006 22.21

*