giovedì, febbraio 16, 2012

La nonna racconta


 Questo breve teso, è di ma madre e raconta la vita della nonna. È il solo scrtto che ha lasciato e che compose direttamente con il suo computer dal quale ora lo invio,


Cancellara è un minuscolo paese della Basilicata, situato su una altura posta nel fondo di una vasta valle chiusa tra monti e colline e arroccato intorno ad un antico castello. D'inverno vi fa molto freddo, nevica e il paese resta isolato dal resto del mondo. D'estate fa molto caldo e l'acqua scarseggia. Non ha vicino fiumi. Ci sono le fiumare; bisogna camminare parecchio per raggiungerle. Durante la stagione calda sono asciutte, in primavera, l'acqua del disgelo le rende impetuose.
In località "Santa Croce", nella parte più alta del paese, sorge un edificio di tre piani: la stalla, la cucina enorme, le camere da letto.
Vicino alla casa, campi, orti,la via asfaltata che porta al Capoluogo, la strada per la masserie e più in là il piccolo cimitero.
Per entrare in casa bisogna salire una scalinata che ti porta sull'aia dove trovi
la porta di casa e a fianco la "cappella", un ampio locale che forse una volta era una chiesetta, ma noi l'adoperavamo come legnaia da quando il governo fascista aveva proibito le cataste di legna vicino alle case. Infatti al mio paese c'era l'abitudine di accatastare la legna per l'inverno davanti alle case, vicino alla porta.Era anche una dimostrazione di ricchezza. Quando Mussolini, il capo del Governo Fascista, venne a visitare Cancellara rimase stupito e ritenne pericolose le grandi cataste di legna, di qui il decreto che proibiva di ammucchiare i ceppi davanti alle case.
Ritornando ai miei ricordi , in quella casa sopra descritta, il sei gennaio del 1914, in una notte fredda, in un mondo coperto di neve nacqui io.

Quella notte mio papà, era a Brindisi. Ritornò il mattino dopo con un regalo per la sposa, due finocchi, i regali di quei tempi.
Io ero la settima figlia. C'erano già: Angela, Maria, Michele, Raffaele, Carmela, Rosina. La mia nascita fu accolta con moderata gioia, avrebbero preferito un altro figlio maschio.
I maschi , da grandi, avrebbero aiutato nel lavoro dei campi. Le femmine davano solo preoccupazioni: bisognava trovare loro un buon marito, dare una dote in biancheria e soldi, controllare che non disonorassero in qualche modo il buon nome della famiglia.
Dopo di me nacquero Carolina, Pietro, Biagio e una sorella che morì all'età di diciassette anni. Si era fatta suora con il nome di Rosina. A quei tempi le ragazze che non desideravano il matrimonio, la vita delle donne era molto faticosa: partorire e crescere numerosi figli, aiutare il marito nei lavori dei campi, occuparsi della casa, andavano in convento anche perchè avevano una fede profonda.
Mio papà, Domenico Basile, proveniva da una famiglia povera. Aveva
come soprannome "Saccone" perchè suo nonno era stato in America (allora molti emigravano in cerca di fortuna) ed era tornato, dicevano i paesani, con un grosso sacco pieno di soldi che nessuno vide mai.
Mia madre, Caterini Maria Carmela, apparteneva a una famiglia benestante che abitava nel centro del paese. Anche questa era una famiglia numerosa. Tra i miei zii c'era anche un ex prete: il prete "sfatto" , come dicevano i paesani in segno di disapprovazione.
Mio padre e mia madre si amavano molto come dimostra anche la numerosa prole: "Hanno tanti figli perchè sono assai affiatati" dicevano i loro parenti.
I genitori di mia mamma desideravano per la figlia un marito più ricco e per parecchio tempo si opposero al matrimonio. Quando finalmente ottennero il permesso di sposarsi, mio padre promise in cuor suo che avrebbe fatto vedere a tutti - cosa valeva Minco Saccone -.
Mia madre era una brava donna di casa. Non andò mai a lavorare nei campi, come le altre donne. Mio padre voleva che fosse una signora.
In campagna andava qualche volta a portare il mangiare ai mietitori.
Veniva accolta con segni di gioia anche perchè, in quelle occasioni, portava cibi un po' diversi, le seppioline ripiene, per esempio.
-Allora in campagna si mangiava posando , un grosso piatto, con il pranzo, per terra, si sedevano tutti intorno e
pescavano a turno forchettate di cibo che poi era accompagnate dal buon vino fatto da noi.
Mio padre era un uomo di azione, sempre in movimento, sempre con qualche nuova idea. In paese era molto stimato: lo volevano eleggere Podestà nonostante fosse analfabeta. (l'analfabetismo era molto diffuso allora in Italia e soprattutto nelle regioni più povere come la Basilicata).
Non era mai volgare nel parlare, soprattutto quando eravamo presenti noi ragazze ( a quei tempi i linguaggi volgari era riservati agli uomini quando si trovavano soli). Qualche volta, se era proprio fuori di sè, diceva:”Cazz cazz, come diceva la buonanima di Caio Cazzi”.
Se in paese si celebrava un matrimonio tra persone molto povere o poco intelligenti usadi dire con rammarico:” Si sposa mara a is, sposa mara ad essa, mara a loro i figli che avranno “( si sposa povero lui, sposa povera lei ancora più poveri i figli che nasceranno).
Spesso pensava al futuro ed ere solito dire: “Poveri noi, poveri i figli miei, ma più poveri ancora i figli dei figli miei”, intendendo che il futuro non sarebbe stato roseo per nessuno.
Era aperto alle novità. Fu tra i primi in paese a comprare la trebbiatrice, il biroccio e a comprare i concimi chimici (il nitrato) facendoli venire da San Giuseppe di Cairo (Sv)
Io crebbi in questa famiglia come tutti i bambini del tempo, senza tanti vizi o giocattoli. Ancora molto piccola mio padre mi metteva in una cesta che legava alla sua cavalcatura (lui cavalcava una cavalla che bisognava curare con attenzione, un compito dei figli) e mi portava alla masseria, potevo essere utile. Ricordo , quando più grandina, a cavallo dell'asino , tornavo a casa piangendo, avevo i piedi gelati, coi geloni. Arrivata a casa la mamma me li avvolgeva in una calda coperta per riscaldarli lentamente. La nostra era una famiglia numerosa. con noi vivevano anche una vecchia nonna e una sorella di mio papà cieca e sorda che riempiva la casa di urla, ma aiutava a sbucciare i legumi.
Trai miei fratelli Michele, il più grande, era un uomo tranquillo, un grande lavoratore. Raffaele era un buontempone, a tavola spesso raccontava storie disgustose e si divertiva a vedere le nostre smorfie. Quando sulla nostra aia arrivò la mietitrice, fu l‘unico che imparò velocemente a usarla. I due più piccoli Pietro e Biagio erano i più difficili da gestire. Biagio era nervoso e prepotente. Da ragazzo fu molto malato e fu in pericolo di vita. Anche mia sorella Rosina ebbe per lungo tempo una malattia di stomaco e, fino a quando rimase con noi, ogni tanto si lamentava:” Ahime in pitti” e perciò non andò mai a lavorare in campagna come tutte noi.
La nostra vita scorreva tranquilla. Mia padre, inizialmente era fattore di una contessa che possedeva un vasto latifondo, era riuscito, facendo molti debiti, ad acquistare gran parte della proprietà. I paesani pensavano che si sarebbe rovinato del tutto. Lui riuscì con tenacia a superare tutte le difficoltà e a dimostrare, soprattutto ai parenti di sua moglie, di essere capace di migliorare le condizioni di vita della sua famiglia. I figli crescevano e, i maschi aiutavano nei lavori dei campi.
Fare il contadino, come si sa, non è facile: si zappa, si semina, ma il raccolto dipende dall'andamento delle stagioni. Una nevicata, una gelata fuori tempo. una grandinata e tutto è compromesso. Molto spesso eventi inattesi distruggono il raccolto curato con tanto amore. Mio padre produceva un buon vino,ma ecco che tutte le piante di vite si ammalano, la famosa filossera, e muoiono, una vera disgrazia. Fu necessario comprare le barbatelle di vite americana, già resistente alla malattia, e innestare su di loro , una volta attecchite, la vite italiana e attendere che crescessero e diventassero produttive. Occorreva avere soldi e non tutti potevano risolvere così il problema, dovettero rinunciare ai loro poveri vigneti.
All' età di nove anni cominciai a frequentare la scuola elementare.
Ero una buona scolara attenta e volenterosa. I maestri di allora picchiavano e castigavano con severità. Io una volta ricevetti dalla maestra parecchie bacchettate sul palmo della mano, invece di seguire la lezione giocavo con una bambola di pezza che avevo portata da casa. Molti insegnanti usavano metodi correttivi corporali.C'era chi portava a scuola una lunga bacchetta, arrivava fino all'ultimo banco, con colpi in testa gli alunni venivano richiamati all'attenzione. Un maestro prendeva a calci gli alunni e, perchè la cosa fosse più dolorosa, portava scarpe molto appuntite.
Mia sorella Maria rifiutò di andare a scuola dopo che la maestra le ebbe strappato un bel ciuffo di capelli. Preferì andare per dieci anni a lavorare in campagna.
Nella classe di mia sorella Carmela ci una fu vera rivolta verso il maestro.
Egli aveva l'abititudine di verificare ogni mattina la pulizia delle sue scolare. Tra le altre parti del corpo: viso, orecchie, unghie, ecc. , guardava anche le ginocchia. Alle alunne la cosa non piaceva, dovevano sollevare la gonna. Una mattina, quando il maestro si chinò a controllare la prima scolara, si alzarono tutte e con un bastone che avevano nascosto sotta le lunghe e ampie gonne, cominciarano a bastonare il loro insegnante il quale, intuito il motivo della rivolta, non guardò più le ginocchia delle sue scolare.
Avevo circa dodici anni quando mia mamma morì. Non ho mai saputo il nome della malattia che ne provocò la morte. Forse non lo conobbe nemmeno mio padre, il medico del paese non era in grado di capire tutti i problemi dei suoi pazienti. La mamma, al momento del trapasso, aveva quarantasette anni.
Io soffrii molto per il distacco, andavo in campagna, mi nascondevo tra le erbe alte e piangevo, chiamavo la mamma che non sarebbe più ritornata tra noi.
Come tutti i familiari, presi il lutto che significò sette anni di vestito nero.
Tutto il paese partecipò al nostro dolore, alcuni con affetto e simpatia. "Come faranno tutti questi ragazzi a crescere senza una mamma?" si chiedevano le donne; altri con indifferenza mista alla voglia di giudicare e condannare:
"Gli sta bene a Minco Saccone si è messo la camicia nera prima del tempo". La camicia nera era la divisa fascista e mio padre, simpatizzante di Mussolini, aveva partecipato ad alcuni cortei indossando tale indumento.
Con la morte della mamma molte cose cambiarono in famiglia.
Mio padre decise che noi ragazze dovevamo occuparci della casa e perciò ci disse che non saremmo andate più a scuola.
La cosa mi rattristò moltissimo, piansi , spiegai che desideravo andare a scuola, promisi che mi sarei impegnata al massimo. Mio padre fu irremovibile: " Non c'è più la mamma, il vostro compito è stare a casa e lavorare.
Allora feci un atto di forza, andai dai carabinieri a denunciare la cosa. Vennero a parlare con papà che riuscì a convincerli delle sue buone ragioni. "Addio scuola per sempre" .
Una sola di noi avrebbe potuto continuare a studiare, Carmela. Era zoppa e quindi sicuramente avrebbe avuto difficoltà a lavorare nei campi.
Papà voleva studiasse da maestra. Lei rifiutò e da quel momento cominciò a occupparsi della casa. Fu una solerte ed attenta madre per tutti noi e un grande aiuto per papà. Si sposò tardissimo, a quarant' an
ni, quando tutti noi eravamo sistemati e papà era morto da tempo.
Non potendo andare a scuola, io cominciai ad imparare il lavoro nei campi. infine trovai un lavoro adatta a me. Mio padre aveva affittato un piccolo terreno vicino alla nostra casa. ne facemmo un meraviglioso orto di cui io mi occupai con amore e passione. La mattina all'alba ero in piedi per lavorare : toglievo le erbacce, zappettavo, curavo le numerose piante. Soprattutto raccoglievo le fresche verdure , ne facevo graziosi mazzetti e le andavo a vendere casa per casa alle signore-bene che attendevano il mio arrivo per acquistare verdure freschissime. Guadagnavo qualche soldo che consegnavo diligentemente a mio padre che era molto soddisfatto vendendomi lavorare con impegno.
Mi ricompensò per la mia diligenza. Al momento del mio matrimonio mi fece un corredo più ricco di quello che aveva dato alle due sorelle maggiori già sposate. Una mattina mentre ero nell'orto a lavorare una mia sorella chiese a mio padre il perchè di questa sua preferenza ed egli indicandomi rispose: "Guarda dov'è tua sorella tutte le mattine all'alba".
La mia condizione di orfana di madre era molto triste, non avevo una persona a cui chiedere spiegazioni per i vari problemi di ogni giorno. Crescevo, avevo quindici anni e non era ancora mestruata. Le mie amiche dicevano che non era una buona cosa. A chi chiedere aiuto. Andai in farmacia , esposi il mio problema. La farmacista si interessò e mi prescrisse una cura ricostituente e il problema fu risolto. Se ci fosse stata la mamma avrebbe sicuramente pensato lei ad aiutarmi.
In quel tempo frequentavo molto anche la chiesa, Ero "figlia di Maria" un' associazione religiosa del tempo. Mi occupavo delle più giovani, andava casa per casa a chiedere loro di venire in chiesa o di partecipare alla processione della festa patronale: la Madonna del Carmine. Ero molto soddisfatta quando in molte accoglievano il mio invito.
La festa patronale era l'avvenimento dell'anno. I più ricchi del paese partecipavano alla gara per l'acquisto della statua.Chi vinceva doveva organizzare la festa, pagare i trasportatori e soprattutto pagare da bere a tutti. Bere che cosa? Ma un buon vino naturalmente! Una volta mio padre riuscì a vincere la gara e organizzò tutto in grande, anche le bevute a cui prese parte . Si ubriacò e dormì per tre giorni facendoci preoccupare molto.
Nei nostri paese la vita era un po' monotona. La maggior parte delle persone si recavano la mattina presto al lavoro nei campi e la sera al tramonto ritornavano stanchi a casa. Si andava a dormire presto.
I campi erano lontani dalle abitazioni. Per raggiungere le masserie bisogna fare tutti i giorni un lungo cammino a piedi, o a cavallo di un asino. Mio padre, quando le cose andarono meglio economicamente, si comprò una cavalla di cui era molto fiero. Con essa andava alla masseria e controllava il lavoro dei miei fratelli e dei dipendenti.
Alla masserie c'era chi si occupava degli animali, chi dei lavori nei campi. Nel periodo della mietitura venivano i mietitori dalla Puglia. Mio padre, come tutti coloro che possedevano vasti terreni, al mattino presto si recava nella piazza principale dele
paese e assumeva i migliori.

Nei momenti di maggior lavoro si assumevano anche alcune donne, era compito mio andare a cercarle una per una la mattina all'alba.
Alla fine della mietitura, quando erano state ammucchiate in covoni e biche tutte le spighe, quelle che rimanevano per terra venivano raccolte dalle spigolatrice. Le spigolatrice erano donne che non possedevano campi propri andavano a "giornata". Il salario era modesto ma lo aumentavano un po' con le spighe raccolte spigolando.
Mio padre, qualche volta cedeva gratuitamente, a alcune donne in difficoltà un piccolo pezzo di terreno da coltivare, naturalmente per un periodo limitato.
Alla masseria (casa di campagna) c'era anche una donna molto attenta che si occupava del pollaio, di tenere pulita e in ordine la casetta, di preparare il mangiare per i lavoratori quando non veniva mia mamma a portarlo. Questa donna viveva sempre lì, notte e giorno, era una brava massaia. Secondo alcuni tra lei e mio padre c'era qualcosa di più che un semplice rapporto
tra padrone e "serva" come si diceva allora. Comunque quando noi bambini eravamo lì era una seconda mamma.

A Cancellara la maggior parte della popolazione era costituita da poveri contadini che passavano la giornata in campagna e la sera tornavano a casa stanchi, mangiavano una frugale cena e andavano a dormire molto presto in letti con i materassi imbottiti di foglie di granone e quindi scomodi e scricchiolanti.
Nelle case spesso dormivano anche gli animali e naturalmente l’igiene era una cosa quasi sconosciuta anche se si cercava di pulire e tenere un minimo d’ordine.
Ho già detto che la maggior parte delle persone viveva poveramente. Le calzature più comuni, per le donne, erano gli zoccoli di legno. Le scarpe, e non per tutte, erano un lusso della Domenica. Camminando facevano un forte rumore . In tutta la Basilicata ci deridevano per questo: eravamo quelle che camminando sul selciato facevamo:”CIC CIAC”, ci si sentiva da lontano.
Vivere al mio paese non era divertente specialmente d’inverno. Qualcuno cercava di uscire dalla monotonia frequentando il “caffè” fino a tarda ora. Anche i miei fratelli, diventati giovanotti, uscivano di casa la sera. Mio padre non voleva che si facesse tardi. Per questo noi ragazze aspettavamo sveglie e, appena li sentivamo arrivare, aprivamo la porta cercando di fare meno rumore possibile.
Qualcuno cercava di animare il paese percorrendone le vie suonando empirici strumenti musicali e cantando canzoni in cui venivano raccontati episodi di vita realmente accaduti. Come quei tre che si erano costruiti una “caccavella” (?u cubba cub) e si annunciavano cantando:”Ruggero, Ruggero e Ginnarino e Eugenio Cacafava”.
Cosa raccontavano questi improvvisati cantastorie? Per lo più avvenimenti che colpivano la fantasia popolare: la fanciulla sedotta ed abbandonata che “disonorava la famiglia”; i delitti d’onore o per vendicare soprusi vari.
Un fatto che fece molto scalpore, al mio paese, fu quello di “Maria Patrafesa” : Era rimasta vedova con due figlie piccole, aveva un campo ben coltivato. Un uomo del paese, al momento del raccolto, andò a raccogliere ciò che il campo offriva sicuro di uscirne impunito. La donna attese che ritonasse a ripetere l’ impresa, senza esitazione, gli sparò e l’uccise. Molti la considerarono una persona coraggiosa e la guardavano con un misto di approvazione e timore.
Noi ragazze potevamo occuparci della casa, andare a lavorare in campagna e frequentare la chiesa.
Per andare a ballare durante le feste più importanti del paese dovevamo farci accompagnare da un fratello maggiore. I miei fratelli ci accompagnavano volentieri . A me piaceva molto ballare, ero brava nella polca, il valzer, il tango, la tarantella.Una volta sposata dovetti rinunciare a questo divertimento, mio marito non ballava.
L’ argomento sesso era per noi un tabù. Nessuno ci spiegava le cose perciò spesso arrivavamo al matrimonio con un misto di curiosità, ma anche timore.
La prima notte di matrimonio io costrinsi mio marito ad attendere di aver riordinato la biancheria portata in dote (secondo la consuetudine era stata esposta perchè i paesani potessero ammirarne il tessuto e i ricami da me eseguiti),perchè temevo di affrontare la nuova esperienza.
Quando mi sposai io non conoscevo la parola prostituta. Sapevo sì che alcune ragazze frequentavano uomini , ma non pensavo che si potessero avere rapporti sessuali per guadagnarsi la vita. Avevo sentito qualche volta parlare di ragazze perdute che non bisognava frequentare, ma non capivo con chiarezza di che cosa si parlasse , era quasi un mistero. Fu mio marito che mi informò di queste cose ridendo della mia ignoranza.


Anche se non eravamo poveri, la campagna rendeva bene e le dispense erano sempre fornite di ogni ben di Dio, i nostri pasti erano frugali. La carne si mangiava raramente, nelle feste. Quotidianamente si mangiava la pasta con le verdure, patate, fagioli, ceci. La cicoria bollita e messa a insaporire in un brodo preparato con l’osso di prosciutto e gusti vari, era una leccornia.
Si impastava il pane una volta alla settimana. si facevano dei pezzi (panelle)da circa un chilo l’una, chi aveva il forno le cuoceva in casa. Altrimenti si portavano al forno pubblico. Non si usava lievito di birra, ma la pasta fermentata che si conservava di settimana in settimana. Quando si impastava si preparavano le focacce e sulla brace
si faceva cuocere il “cunculicchio” piccola focaccia con il sale.
Tra i cibi più appetitosi ricordo: le patate sane bollite e condite con olio e polvere di peperoncino. Erano piccole patate che si facevano bollire con la buccia. Buona era anche la”laina chiapputa”, larghe tagliatelle fatte in casa e condite con pan grattato, uva passa,ecc. buono era il calzone ripieno con pomodoro e mozzarella, fette di salame. Per il giorno dei morti si faceva bollire il grano e si offriva ai ragazzi che venivano a chiedere per l’anima dei morti. In altre occasioni si preparavano le bugie, le zeppole, i mastacciuoli, e i taralli , duri e salati che invitavano a bere il vino. Un piatto molto appetitoso erano le patate cotte al forno con la carne d’agnello , spesso la testina, e l’origano.
Molti cibi erano ottimi per stimolare il desiderio di bere un buon bicchiere di vino: i finocchi , si diceva:” Finocchi bevo due volta a cchiucco”, i sedani ( in dialetto accio):Accio ,accio, che buon vino ca saccio”.
Con il vino cotto si faceva il pan dei morti (pan minisc) La vigilia di Natale, giorno di astinenza, si cuocevano gli spaghetti e si condivano con aglio, olio. acciughe salate e peperoncino.
Una festa era l’uccisione del maiale. Veniva allevato con cura per tutto l’anno e vicino a Natale si uccideva. Tutti eravamo chiamati a collaborare: si preparavano le salsicce ( le famose salsicce lucane ) da conservare sott’olio, sotto sugna o appese alle travi. Con il sangue di maiale si faceva il sanguinaccio, dolce e salato. A proposito del maiale una cosa che ricordo con chiarezza è quando veniva il sana porcelle per rendere improlifiche le maialine.



Pensando alle feste mi viene in mente la Pasqua. Durante la Settimana Santa, quando le campane non suonavano, per le strade si udiva il gracidare delle “raganelle” che i ragazzi faceva suonare correndo per le strade.

Ai miei tempi il Gloria della Resurrezione suonava il sabato a mezzogiorno: ai rintocchi delle campane finalmente sciolte, uscivamo tutti e andavamo a lavarci il viso alla fontana in segno di purifcazione. Non sapevamo cos’erano le uova di cioccolata. L’unico dolce erano i canestrini di pasta dolce con dentro l’uovo. Eravamo contenti lo stesso. Con la Pasqua arrivava la primavera e la rinascita della natura ci riempiva di gioia.
Uscivamo per lavarci il viso” perchè non c’erano ancora gli acquedotti che portavano l’acqua nelle case. Per avere l’acqua in casa si andava più volte al giorno a prenderla alla fontana nela piazza del paese. A volte molte si racco-
glievano lì e, in attesa, del proprio turno si raccontavano petegolezzi sulle persone del paese. L’acqua si metteva nei secchi o in barili di legno che si portavano sulla testa. frapponendo tra il recipiente e il capo la “sarcina” di stoffa. Per lavarsi il viso appena alzati si usava la brocca e il catino. Il bagno era una cosa da signori; il corpo si lavava a pezzi . Per lavare la biancheria si andava al fiume, dove era bello, anche se faticoso, lavare e stendere il bucato sull’erba profumata. Anch’io sono andata spesso a lavare al fiume. Il ricordo più bello è quando andai a lavare il corredo da sposa ricamato nelle lunghe sere invernali. Questo si poteva fare in primavera e in estate.
D’inverno si lavava in casa, come si poteva. Si candeggiava il bucato con la cenere. Si poneva la biancheria lavata in un largo recipiente di metallo, si copriva con uno straccio pulito e si versava sopra l’acqua in cui si era fatta bollire la cenere la quale era trattenuta dallo straccio. L’acqua così preparata conteneva sostanze sbiancanti che rendevano le lenzuola più bianche dei detersivi odierni . Per accentuare il candore dei tessuti spesso si risciacquavano con l’acqua in cui si era disciolta una polvere azzurra.
Poichè allora procurasi vestiti nuovi non era facile, costavano molto, spesso si rifrescavano i tessuti tingendoli con polverine colorate.
Non esistevano abiti confezionati perciò molto importante era il lavoro delle sarte e dei sarti. In tutte le famiglie c’era una donna che sapevga cucire e rammendare.
A casa mia una o due volte all’anno veniva la sarta, si fermava alcuni giorni e cuciva, riparava e rivoltata vestiti per tutti. Sì gli abiti, ma soprattutto le giacche e capotti si rivoltavano: si scucivano, si ridava il taglio mettendo all’esterno la facciata dell’interno che si era conservata perchè protetta dalla fodera. Di qui forse è nata la produzione dei tessuti double face. Noi però non portavamo quasi mai il cappotto. D’ inverni ci avvolgevamo in pesanti ed enormi scialli di lana. Gli uomini portavano il mantello a ruota o a mezza ruota. Il costume tradizionale prevedeva lunghe ed amplissime gonne pieghettate di tessuto molto pesante. Mia suocera con una sua gonna riuscì a fare per il figlio, già adulto, un bellissimo mantello.
Le donne anziane, non più in grado di lavorare in campagna, trascorrevano la giornata rammendando o filando la lana delle pecore e delle capre con fusi e rocche.

Venne molto presto ,per me, il momento di pensare al matrimonio. Avevo diciotto anni quando mia sorella Maria, già sposata con figli, mi fece conoscere colui che sarebbe diventato mio marito e quindi vostro padre.
Nicola era un giovane di Acerenza , aveva conosciuto sotto le armi il marito di mia sorella ed erano diventati amici. Un giorno, passado con il suo gregge (era pastore) per Cancellara, incontrò mio cognato si misero a parlare e venne fuori che uno era già sposato e l’altro in cerca dell’anima gemella . Mio cognato disse :” Se vuoi conoscere delle ragazze , io ho un sacco di cognate. Te ne presenterò una. Detto fatto fissarono un appuntmento: Antonio, tornato a casa, raccontò la cosa alla moglie e propose di presentare a me il suo amico . Maria disse; “E’ una buona idea”. Quando il giorno dell’appuntamento si presentò a casa loro Nicola mi mandò a chiamare e me lo presentò. A me piacque, ma avevo delle riserve sul lavoro che svolgeva.
Ci incontrammo altre volte, sempre in casa di mia sorella , ci parlammo e capimmo che saremmo stati bene insieme.
Nicola aveva molta fretta di sposarsi. Io un po’ meno , pensavo di essere ancora molto giovane; tuttavia accettai che parlasse a mio papà. Anche lui desiderava che io mi sposassi, le femmine a casa erano per lui fonte di preoccupazione. Mio padre parlò con lui e lo trovò un bravo giovane. Prese le dovute informazioni e gli fu detto:” Lui e il padre sono due brave persone.La mamma invece è una vipera”. Comunque Nicola fu accettato anche da mio padre e cominciò il periodo di fidanzamento.
Ai miei tempi durante il periodo del fidanzamento i due promessi potevano incontrarsi e parlare sempre in presenza di qualche parente: non si potevano così manifestare i propri sentimenti o scambiarsi affettuosità. Mio padre era molto attento a che tra me e Nicola non ci fosse nessuna possibilità di toccarsi. E’ rimasta nella memoria di tutti i presenti quella volta che eravamo tutti seduti intorno al caminetto (l’unica fonte di calore anche nei giorni più freddi) io ero vicina al mio futuro sposo e mio padre allora disse:”Nicola vieni qui al mio posto, più vicino al fuoco, io mi brucio” e così lo fece cambiare posto.
Il nostro fidsnzamento durò circa un anno. Io volevo far passare ancora un po’ di tempo, mi sentivo molto giovane e impreparata ad abbondonare la famiglia e prendermi nuove responsabilità. Nicola fu irremovibile voleva arrivare velocemente al matrimonio. Anche mio padre era d’accordo con lui: Sposati,io divento vecchio e non posso reggere la responsabilità di figlie femmine da sposare”.
In quel tempo anche mio fratello Michele, il primo figlio maschio, aveva una fidanzata, Carmnella e volevano sposarsi : Michele diceva:”Tocca a me, sono più vecchio”. Mio padre pose fine alle discussioni affermando che le figlie femmine, non sposate sono fonte di preoccupazione e perciò:- Si sposerà prima tua sorella. Michele si offese e per molti anni fu arrabbiato con me.
Io accettai la situazione e incominciai a preparmi al matrimonio. Doveva cucire il corredo e tutte le sere passavo lunghe ore a ricamare e cucire. Quando Nicola veniva a trovarmi io ero lì china sulle le lenzuola e le tovaglie per la nostra casa futura. Mio padre mi tolse anche alcuni impegni di lavoro in campagna perchè potessi dedicarmi al mia biancheria. Dovevo essere molto precisa nell’ eseguire ricami e trine perchè, come ho già detto , il giorno delle nozze il corredo veniva esposto alla curiosità della gente. Sicuramente quasi tutti gli abitanti di Acerenza sarebbero andati a vederlo per capire cosa valeva questa giovane venuta da fuori paese e, si diceva, proveniente da una famiglia benestante. Quando il corredo fu pronto furono momenti felici quelli trascorsi in riva al fiume a lavare e stendere sull’erba profumata lenzuola, tovaglie, asciugamani, ecc..
Mio marito aveva fretta di sposarsi e così a dicembre , nel periodo dell’Avvento, quando la chiesa proibiva cerimonie solenni in preparazione al S. Natale, ottenuto le dovute dispense ci sposammo, era l’ 11 dicembre del 1933., faceva freddo, il paese era bianco di neve.
La settimana prima ci eravamo recati in Municipio per le “richieste”, il matrimonio civile.
Se la cerimonia in chiesa non fu molto solenne, solenne fu l’accoglienza riservatami dagli amici e parenti di Acerenza con un ricco pranzo nuziale, regali e, alla sera , il ballo. Io aprii le danze con mio suocero perchè Nicola non sapeva ballare, un piccolo neo nella mia felicità, a me piaceva ballare, ma da allora ci rinunciai.
Venne notte e noi sposi ci ritirammo nella nostra casa per riposarci e,per la prima volta mi trovai sola con il mio uomo. Ne avevo quasi paura, ma nutrivo verso di lui stima e fiducia e riuscii così a superare ogni pudore. Mentre noi dormivamo, mio suocero vegliava davanti la porta di casa. Ad Acerenza usava, la prima notte di nozze, fare scherzi agli sposi. Poichè , in altre simili occasioni , gli scherzi erano stati pesanti,( pare che una giovane sposa fosse morta spaventata dalla carcassa di un animale morto appoggiato alla porta e cadutogli addosso), mio suocero voleva evitarci qualche brutta esperienza. Un’altra tradizione da rispettare era mostrare alla suocera le lenzuola fra le quali si era trascorsa la prima notte di matrimonio: le macchie di sangue su di esse erano la dimostrazione della consumazione del matrimonio e della verginità della sposa. E poi c’era la settimana della “vergognanza”;, durante la settimana che seguiva il giorno delle nozze la sposa non usciva di casa.
Mio padre mi diede come dote tutta la biancheria della casa e tremila lire depositate alla Posta con i vincoli dotali allo scopo di darmi un minimo di sicurezza economica, non fidandosi molto di mia suocera. (tremila lire oggi sono meno di niente, allora erano una discreta somma. Quando decisi di ritirarle, negli anni sessanta, non modificarono per niente le mie condizioni economiche. Cominciò così la mia nuova vita tra gioie e dolori. A nove mesi dalle nozze ero già mamma di una bellissima bambina. Il parto non fu semplice, la bambina si presentava con i piedi in avanti. L’ostetrica non era presente perchè impegnata presso un’altra partoriente. Chiamammo la “donna pratica” che abilmente riuscì a risolvere la difficile situazione. C’ era anche il medico condotto, ma mio marito non permise che mi toccasse.
Nata Lucia ( il nome della bisnonna) comiciarono le difficoltà: non avevo latte, ai tempi non c’era la Carlo Erba con il latte in scatola, dovetti nutrire la neonata con latte di asina (il più simile a quello umano) e rossi d’uova sbattuti. Fui aiutata molto da mio suocero. Mia suocera non era contenta, desiderava un nipote maschio, odiava le femmine. Ed ecco, dopo meno di due, un’altra creatura sta per nascere, speriamo sia un maschio, ma nonstante voti e preghiere, nacque un’altra bimba. Questa volta senza difficoltà. Mia suocera, come commento, disse:” Questa farà come sua madre , mi riempirà la casa di piscia a terra”. Cominciarono i primi contrasti.
Si viveva insieme ai genitori di mio marito e si lavorava per loro. io non ero contenta, volevo una vita più indipendente , più nostra. Sognavo di abbandonare il paese e di poter far studiare le figlie. Ne parlavo continuamente con Nicola, che già per amore mio aveva abbandonato il mestiere di pastore per quello di contadino. Fare il pastore voleva dire stare lontano da casa nei pascoli con il gregge per lunghi giorni e solitarie notti. Mio marito decise di tentare la fortuna , si arruolò come volontario per andare a conquistare le terre d’Africa, come voleva Mussolini, l’allora capo del governo in Italia. Partì , io rimasi sola con le due bambine in casa dei suoi genitori che non approvarono la scelta e pensavano fossi stata io ad averlo spinto alla difficile decisione. Rimase in Etiopia circa tre anni. Mi mandava tutto ciò che riusciva a risparmiare sul salario che riceveva come soldato. Io risparmiavo tutto per quando sarebbe tornato. Mi scriveva spesso narrandomi dell’Africa e delle sue difficoltà. Io rispondevo e scrivevo lettere anche per le altre mogli che avevano il marito volontario.
Quella d’Africa fu un’avventura senza risultati utili, lui sognava di sistemarsi lì e di far emigrare anche noi. Come tutti sanno, gli Inglesi posero fine ai sogni coloniali italiani e Nicola ritornò a casa, ricco per l’esperienza fatta, ma dovette riprendere a lavorare i campi. Quando arrivò, la figlia più piccola non lo voleva in casa nonostante lui fosse arrivato con dei giocattoli tra cui una bambola subito distrutto per vedere come era fatta dentro.
Mi sono accorta che non vi ho presentato i familiari di Nicola: il padre si chiamava Cancellara Donato, era un uomo saggio e buono. Amava la famiglia ed era un gran lavoratore. Sapeva essere anche affettuoso ed era attento alle piccole cose. Quante volte alla fine dell’estate tornava dal lavoro dei campi con un piccolo fagottino in cui aveva raccolto acini d’uva maturi e li dava alle bambine felice di vederle mangiare con gusto.
Aveva fatto il militare durante la Prima Guerra Mondiale e ,nella sua assenza, Nicola si era occupato come pastore alle dipendenze di un latifondista e tutto ciò che guadagnava lo consegnava alla madre che deponeva i soldi alla Posta e in seguito servirono per l’acquisto di alcuni terreni.
La madre Montanaro Donata, era una donna severa, chiusa in se stessa , precisa nei lavori di casa e dei campi. Sapeva fare un sfoglia sottile e rotonda che sembrava l’o di Giotto. Il suo letto matrimoniale era rifatto alla perfezione, liscio e spianato come se nessuno vi dormisse mai. Era tradizione del paese, le donne dei contadini dovevano avere una casa ordinatissima e un letto rifatto perfettamente.Io, che volevo guadagnarmi la sua stima e il suo affetto, imparai a fare la sfoglia e i mestieri di casa in modo da garreggiare con lei. Non amava le bambine, forse perchè la sua infanzia e adolescenza non furono certamente felici. Da bambina dovette soffrire la mancanza del padre che come vi ho già raccontato era emigrato in America e non era mai più tornato. Anche la mamma non dovette esserle molto vicina perchè andava a lavorare nei campi a “giornata” per poter mantenere se stessa e le due figlie. In queste condizioni la vita non era fatta di gioie ma di preoccupazioni e sacrifici: “ Quale sarebbe stata la sorte delle due ragazze?”Per questo quando mio suocero chiese in moglie Donata, la madre accettò la richiesta anche se era ancora una bambina. Cancellara Donato era conosciuto come uomo rispettabile e promise che avrebbe avuto cura ed affetto per la moglie bambina e attese, per avere rapporti matrimoniali il momento in cui la ragazza divenne fisicamente matura per affrontarli. Tenendo conto di tutto ciò Donata doveva pensare che era meglio nascere maschio.
Dal loro matrimonio nacquero quattro figli: Canio, Nicola, Antonio e una bambina che morì neonata.
Mia suocera era di principi molto rigidi tanto da quasi impazzire quando il figlio Canio fuggì con la fidanzata Filomena che non era gradita ai genitori dell’uomo che amava. Mia suocera non volle mai ricevere in casa la nuora e i due figli nati dalla loro unione. Mia suocero ,di nascosto, cercava di aiutarli.
. Povera Filomena quanta sofferenza dovette patire! Il marito morì giovane, una mattina fu trovato morto nella masseria, forse per un problema di cuore, lasciandola con Giuseppe e Donata. Da sola e senza mezzi dovette affrontare una vita di sacrifici ed umiliazioni. La suocere non si commosse, “Aveva voluto a tutti i costi Canio , bene non l’aveva goduto per molto tempo”. Mio suocero cercava di fare come poteva il dovere di suocero e nonno.
Nicola, mio marito, era un giovane lavoratore rispettoso della volontà della mamma e del padre. Da bambino era caduto nel fuoco riportando una bruciatura ad una guancia e la cicatrice lo accompagnò per tutta la vita. Era andato a scuola fino alla terza elementare. Non amava la scuola, i maestri erano severi e maneschi. Invece di andare a scuola andava a passeggio nei campi. Gli piaceva leggere ed era curioso e desiderava conscere le cose e soprattutto la storia romana che conosceva attraverso gli episodi di Camillo, Orazio Coclite,Muzio Scevola,ecc.. Da grande capì che la scuola era importante e frequentò un corso serale dove imparò nozioni importanti sull’agricoltura. Sapeva eseguire innesti perfetti , raccontava aneddoti e conosceva molti proverbi. Antonio,il terzo figlio era molto giovane quando io entrai a far parte della famiglia. Aveva un brutto carattere, era prepotente e viziato anche perchè leggermente menomato ad un occhio. Voleva sposare una delle mie sorelle più giovani che non l’accettò e questo creò dei malumori tra me e lui.
Con loro viveva anche la mamma di mia suocera, Agatiello Lucia, una donna devota, andava a messa tutte le mattine anche d’inverno; trascorreva la giornata filando, la sua rocca e il suo fuso erano sempre pronti. Non parlava molto con la figlia di cui non condivideva molti atteggiamenti. Al contrario della figlia amava molto le mie bambine e andava molto d’accordo con il genero. Quando andavo in campagna ad aiutare Nicola spesso lasciavo le bambine in custodia a nonna Lucia. Lei preferiva occupparsi della minore, diceva: “Lasciami solo Melina, è più tranquilla”. Lucia era molto vivace e le faceva anche dei piccoli scherzi come quello di metterle in grembo un topolino. La nonna ne aveva paura e urlava, la bimba rideva felice. Una volta si nascosa dietro una porta. La nonna la cercò dappertutto chiamandola ad alta voce, Lucia non c’era. Ad un certo punto, disperata, si mise le mani tra capelli ed esclamò: “ Ancura non è sciuta scalabbadd !” ( non sarà caduta dalle scale!) ed ecco Lucia uscire dal nascondiglio e, ridendo con le mani in testa, rifarle il verso.
Mia suocera aveva una sorella che aveva sposato un uomo ricco e, a quei tempi viveva a Potenza dove gestiva un’osteria vicino la chiesa di San Michele.
C’era poi zia Anna una donna molto saggia ed ascoltata in famiglia. Infatti fu lei che convinse i genitori a far sposare Canio con la donna da lui scelta e dar loro la possibilità di mettere su famiglia.
Tornato Nicola dall’Africa si riprese la vita di prima. Mio marito lavorava nei campi e riceveva dai genitori il necessario per vivere. Noi giovani non eravamo contenti, ma accettavamo la situazione con la speranza di un avvenire migliore.
Fino a quando restammo ad Acerenza io e Nicola avevamo le due bambine , il maschio nacque nel 1942 quando già ci eravamo allontanati dalla famiglia e vivevamo a Potenza. Lo chiamammo Donato, il nome dei due genitori di mio marito.
Fino a quando visse mio suocero le cose andarono avanti in armonia. Lui con la sua bontà e il suo carisma di capofamiglia riusciva a mantenere i rapporti su un piano di amore e rispetto reciproco. Quando lui morì, non ho mai capito perchè data la sua lealtà, si scoprì che aveva dettato le sue volontà ad un notaio e aveva quasi completamente diseredato il fi glio Nicola a cui toccava la leggittima e tutto il resto rimaneva al fratello con usufruttuaria la madre. Naturalmente a noi questa cosa dispiacque molto. Nicola ne fu offeso e mortificato. Non riusciva a spiegarsi il perchè delle scelte di suo padre .Era stato un figlio obbediente e rispettoso, aveva aiutato la famiglia quando era stato necessario e, col suo lavoro aveva collaborato ad aumentare le proprietà . Pensammo che forse la moglie e il figlio minore lo avevano convinto, quando era molto ammalto, a sottoscrivere un testamento che lui, a mente lucida, non avrebbe mai sottoscritto.
Impugnammo il suddetto testamento che risultò viziato a causa di una frase che stabiliva delle cose non coerenti con la legge. il testamento decadde e perciò la proprietà doveva essere divisa in parti uguali tra gli eredi. Antonio naturalmente non era d’accordo e perciò
pose tutti gli ostacoli possibili ad una divisione, non andava bene nessuna soluzione.
I due fratelli cominciarono a bisticciare e arrivarono a picchiarsi. A questo punto decidemmo di vendere le terre e di andare a cercare un lavoro a Potenza. Non potevamo andare all’avventura perchè avevamo due bambine a cui dovevamo assicurare una crescita serena. Acquistammo, da un paesano Vincenzo Boccia, una locanda, si trovava a Porta Salsa e aveva il pretenzioso nome di Regina d’Italia. Nel 1941 ci trasferimmo quindi a Potenza e cominciammo a gestire questa locanda. I clienti non mancavano, ma il lavoro era pesante, soprattutto per me, bisognava badare a che tutto fosse sempre pulito e in ordine. Spesso mi faceva aiutare da qualche donna di servizio.
Soli, giovani, con due bambine piccole dovemmo affrontare tutte le difficoltà che un lavoro così a contatto con tante persone ci presentava quotidianamente. C’era il governo fascita e molti erano coloro che, poichè iscritti al Partito, venivano a fare i prepotenti miciando rappresaglie. C’era la prostituzione, nonostante tutti i divieti, continuamente si veniva a contatto con donne ed uomini che facevano parte di quell’ambiente corrotto e avanzavano pretese. C’erano i controlli quotidiani della Polizia di Stato: a volte i poliziotti erano persone per bene che si proponevano solo di far rispettare la legge; a volte erano prepotenti che cercavano di ricavare vantaggi dalle situazioni scabrose. C’erano le continue richieste di aumento dell’affitto da parte del padrone di casa. Nonostante tutto ciò la vita era abbastanza serena: si lavorava molto, si cercava di far crescere i bene i figli.
L’Italia era in guerra, come tutti sanno. Fino all’otto settembre 1943 la guerra toccò solo marginalmente la nostra città. Naturalmente spesso si doveva comprare il necessario alla “borsa nera” perchè quello che si poteva acquistare con la “tessera” non bastava a soddisfare tutti i bisogni della famiglia. A noi non mancò mai il pane perchè come proprietari di terreni in affitto avevamo diritto ad una certa quantità di grano che dovevamo far macinare al mulino e diventava farina per un buon pane bianco non nero come quello della tessera. Mancava spesso lo zucchero, l’olio, il sale e allora si doveva ricorrere al “mercato nero”.
L’otto settembre 1943 cominciarono i guai seri per noi. Già Nicola, pur non essendo di leva, era stato richiamato . Dovette andare soldato ed io rimasi sola a gestire la locanda e a curare i tre figli.
Nel pomeriggio di quel giorno il giornale radio annunziò la firma dell’arministizio e, per l’Italia , la fine della guerra. Eravamo tutti felici, ma i guai non erano finiti anzi... quella sera stessa le prime bombe caddero sulla città di Potenza ed io mi trovavo sola a dover cercare un rifugio per me e miei figli. I bombardamenti durarono parecchi giorni per cui, come altri potentini, decisi di rifugiarmi con le bambine sotto la galleria ferroviaria della Calabro-Lucana. I treni non passavano, ci accampammo lì sulle rotaie cercando di sopravvivere , i disagi erano molti. Soprattutto era difficile procurarsi da mangiare. Io quasi tutye le mattine, lasciavo i bambini, e andava a casa a prendere qualche provvista, qualche coperta e tutto ciò che poteva essere utile per diminuire i disagi. Quando uscivo dalla galleria e percorrevo le strade della città, molto spesso vedevo case distrutte, morti lungo le strade, incendi, erano spettacoli terribili anche perchè spesso riconoscevo le persone che vedevo senza vita abbondonati sulle strade.
Sotto quella galleria si erano rifugiate tantissime persone che cercavano in mille modi di sopravvivere nella terribile situazione. Molto non avevano da mangiare e tutti i mezzi erano buoni per procurarsi cibo e denaro. Alcuni uscivano subito dopo i bombardamenti e prendevano nei negozi, mezzi distrutti, tutto ciò che era ancora utilizzabile. Ne mangiavano con le loro famiglie e ne vendevano a chi aveva qualche soldo.
Nei pressi della galleria sostavano sempre militari tedeschi: , che paura quella volta che cercavano soldati italiani e per stanarli misero alle due entrate del tunnel le mine, minacciando di far saltare tutto. Per molti giorni nessuno potè uscire , nemmeno a far cuocere un po’ di pasta sui fuochi di fortuna organizzati davanti agli ingressi.
Una volta toccò proprio a me vivere una terribile avventura: ero seduta con i miei figli nel mio angolino, vidi passare due carbinieri, uno lo conoscevo ( era venuto diverse volte a controllare la locanda e si era mostrato sempre gentile e rispettoso), mi vide, si fermò e dissi:”Mi nasconda i tedeschi ci inseguono” .Io , senza pensare alle comseguenze, alzai la coperta sulla quale eravamo seduti e:”Nascondetevi qui”. Li coprii e i bambini si sedettero sopra : Passarono i tedeschi e non si accorsero di nulla anche se una signora seduta di fronte mezza pazza gridava:”Ci sono i carabineri!”. Nessuno l’ascoltò e tutti fummo salvi. Ma quanta paura!
Io trascorrevo così le miei giornate sola e con il timore che da un momento all’altro potesse accadere qualcosa di terribile.
I miei fratelli a Cancellara pensavano a me, ai bambini e un giorno Raffaele e Michele ,con un asino e qualche vivere, partirono e a piedi raggiunsero Potenza.Andarono subito alla locanda, non mi trovarono, chiesero qua e là e finalmente seppero dove mi ero rifugiata.
Vennero e con loro a cavallo dell’asinello andammo a Cancellara in campagna.Dove oltre al conforto della vicinanza dei miei cari c’era cibo e aria buona. Non sapevo niente di Nicola, ma ero protetta dai miei fratelli.
Un giorno, finiti i bombardamenti, mi fecero sapere che il prefetto aveva ordinato la riapertura di tutti i pubbblici locali. Anche la mia locanda doveva riaprire i battenti.
Presi il figlio più piccolo, lasciai le bambine in campagna, e andai ad aprire il locale.
Mi trovavo a Potenza da pochi giorni, quando una mattina, mentre scrivevo i nomi degli ospiti sull’apposito registro, con la coda dell’occhio, vidi Dino che, seduto vicino a me sul seggiolone, si agitava e rideva felice. Alzai gli occhi e davanti a me vidi una figura umana nera dai capelli ai piedi, era Nicola fuggito dall’esercito sul tetto di un carro merci a carbone. Ci abbracciammo felici e... lentamente la vita riprese. Arrivarono le truppe di occupazione. La mia locanda ospitò giovani di tutte le razze, ma soprattutto neri americani. L’arrivo delle truppe di occupazione fu accolto da tutti noi con gioia. Noi eravamo affamati, da anni non sapevamo cos’era una tavoletta di cioccolata, il pane bianco, i biscotti. Essi arrivavano con tutte queste cose e ridevano vendondo la nostra bramosia. Come tutte le cose anche questa felicità era oscurata dal sapere che la loro presnza era spesso causa di infelicità. Erano giovani che da anni non vedevano le loro famiglie, le loro donne e spesso cercavano contanti con le nostre ragazze. Alcune si vendevano per poter avere cibo, vestiti per loro e le loro famiglie ; altre si innamorarono e, ad occupazione finita, qualcuna raggiunse il giovane innamorato in America. Molte invece furono abbondonate, magari in attesa di un bambino con tutte le tristi conseguenze.
Finita la guerra, cominciò la ricostruzione, ci fu il Referendum (Monarchia o Re pubblica?), il voto alle donne, le prime elezioni.
Intanto le mie bambine crescevano : finirono le Scuole Elementari e le medie. Io avevo l’ambizione di vederle laureate Potenza non aveva una Università, bisogna andare a Napoli, Salerno, Bari ....Si poteva mandare una ragazza da sola in una grande città? E così decidemmo di spostarci tutti. Io volevo andare a Roma, ma non riuscimmo a trovare una sistemazione. A quei tempi abbondonare la propria residenza per un’altra era difficile:la città ospitante accettava, con molte difficoltà, solo persone che avessero un lavoro. Dopo molti tentatavi finimmo a Savona che potè risolvere il nostro problema perchè vicina a Genova. Anche qui dovemmo affrontare molti problemi ma raggiungemmo lo scopo di far studiare i nostri figli e dare loro una vita più comoda della nostra.

Antonietta

A cura di Dreiser Cazzaniga Jr.


sabato, febbraio 11, 2012

Savianismi

«Me ne vado – conclude Saviano - con la certezza che il racconto e la memoria possono salvare un mondo e permettere di mappare una sorta di percorso che pericolosamente ci dice: il peggio è ancora da venire e laddove si perdono le regole si perde tutto ma, come scrive Lilin, il motto degli Urka siberiani è ancora vivo: “C’è chi la vita la gode, chi la subisce, noi la combattiamo".

Frase che sarebbe stata appena accettabile se pronunciata dal rimpianto Belushi.

Odio i nazisti della Transnitria.

Dreiser Cazzaniga

Da La Reubblica del 3 Aprile 2009

venerdì, febbraio 10, 2012

Hiytchens, Dawkins, Bloom, Dio



Qualunque ateismo è l'ateismo di una particolare religione. Ad ogni religione corrisponde il proprio tipo di ateismo e ogni ateismo è differente dall'altro nella forma e nei contenuti a seconda della religione della quale è l'ateismo. Non è la stessa cosa negare il Allah che negare Jahve. Sembra ovvio, una volta che qualcuno lo abbia fatto notare.

Questo fatto comporta una conseguenza inattesa, che un ateismo per costituirsi come tale, debba prima costruire la religione di cui essere la negazione.

Questo è in un certo modo quello che avviene in Italia con l'intorduzione del New Atheism di Dawkins, Hitchens, Wilson etc, da parte dell'UAAR.

Il New Atheism, infatti, è l'ateismo proprio di una religione particolare: la religione americana.

Non del cristianesimo o della religione cattolica, no. Ê la negazione della religione americana.

Che cos´è la religione americana?

Harold Bloom nel suo libro dal titolo La Religione Americana, la definisce in questo modo:

La religione americana si manifesta nella forma di una aviditá informativa. (…) La religione americana si è sempre posta il problema: che cos'è che ci rende liberi? Ma la libertá `politica ha poco a che vedere con questa domanda. Che cosa ci rende liberi dalla presenza di altri io? Cosa ci lascia soli non con il mondo creato ma con quello che precedette questa creazione esterna? Vi è qualche cosa nell'io americano che è convinta che questo abbia preceduto la creazione. Un abisso all'interno dell'io che ritrova la pace quando resta solo con l'abisso che precedette il mondo creato da Dio.

La libertá che assicura la religione americana non è quella libertá che un tempo i protestanti chiamarono libertá cristiana ma è una solitudine in cui la solitudine interiore si senre comoda all'interno di una solitudine maggiore.

Siccome la religione americana, fin dal principio fu sincretica puó stare dentro qualsiasi forma esteriore.
La religione americana, che è tra di noi, si traveste da cristianesimo protestante ma ormai non è più cristana.

Ha mantenuto la figura di Gesú, un Gesú resuscitato piuttosto che crocifisso o il Gesú che ascese al Padre. Non credo che vi sia piú nulla del Dio cristiano anche se i nostri leader e i nostri presidenti lo invocano sempre e in particlare con in mano la bandierina in occasione della guerra.

Questa descrizione non si puó estendere alla Religione Cattolica e quindi l'ateismo che nega la religione americana, questo specifico ateismo è incongruo se applicato alla Religione Cattolica.

Questa è la ragione che fa sembrare tanto buffi gli atei dell'UAAR.



Haraol Bloom dice che quella americana è la sola religione che non promette né salvezza né eternità ma una “infanzia migliorata. Questo spiega perché quelli dellUARR sembrano bambinobi migliorati di quattro anni che fanno le furie migliorate.



Uno dei capi del New Atheism fu il C. Hitchens. Questo breve testo tratto da Wikipedia fa capire come si tratti di un'ateismo proprio della religione americana è inadeguato per negare il Dio dei Cattolici:

Hitchens said that a person "could be an atheist and wish that belief in god were correct", but that "an antitheist, a term I'm trying to get into circulation, is someone who is relieved that there's no evidence for such an assertion." According to Hitchens, the concept of a god or a supreme being is a totalitarian belief that destroys individual freedom, and that free expression and scientific discovery should replace religion as a means of teaching ethics and defining human civilization.

Il contenuto principale del Cattolicesimo, come si sa non è la libertá nella solitudine, non è la liberta dal prossimo. L'ateismo di Hitchens non si applica perció a questa dottrina.

Dawkins, uno degli esponenti di spicco del New Atheism, biologo, afferma:


Many of us saw religion as harmless nonsense. Beliefs might lack all supporting evidence but, we thought, if people needed a crutch for consolation, where's the harm? September 11th changed all that. Revealed faith is not harmless nonsense, it can be lethally dangerous nonsense. Dangerous because it gives people unshakeable confidence in their own righteousness. Dangerous because it gives them false courage to kill themselves, which automatically removes normal barriers to killing others. Dangerous because it teaches enmity to others labelled only by a difference of inherited tradition. And dangerous because we have all bought into a weird respect, which uniquely protects religion from normal criticism. Let's now stop being so damned respectful!

Questo non è vero, per esempio per il Cattolicesimo che condanna il suicidio e l'eutanasia da un punto di vista morale. È vero, invece, per le religione americana che è una religione di guerra e individualista.

I poveri neoatei dell'UAAR sono cosí obbligati per negarli, ad inventarsi un Cristianesimo e u Cattolicesimo che non esistono e che non sono mai esistiti.

Si trovano quindi nella situazione paradossale, per degli atei, di dover creare una religione adeguata agli strumenti di negazione di cui dispongono.

Forse per questo sembrano sempre profondamente irritati.

Dreiser Cazzaniga

martedì, febbraio 07, 2012

Perché i blogs producono idee fisse

Oggi il lavoro non consiste tanto nel purificare l'individuo del suo modo sensibile di esere e di pensare e di converirlo in sostanza pensata e sostanza pensante, quanto piuttosto il contrario: il lavoro consiste nel superare la fissità dei pensieri determinati e in questo modo realizzare l'universale e mettere entusiasmo nell'universale. Infatti è molto piàu difficele rendere fluide le idee fisse che non l'esistenza sensibile.
La ragione è ... che quelle determinazioni hanno per sostanza e per elemento di esistenza l'Io che è il potere del negativo o la realtà pure; le determinazioni sensibili, invece l'impotente immediatezza asratta dell'essere come tale.
I pensieri diventano fluidi quando, il pensiero puro, quando questa immediatezza interiore si riconosce come momento o quando la pura certezza di se stesso si astrae da sé. Tuttavia non prescindendo da se stessa e abbandonandosi quanto piuttosto abbandonando la fissità di porre se stessa, ovvero la fissità di questo puro concreto che è l'Io stesso in contrapposizione con il contenuto che da esso si separa e la fissità delle cose distinte dall'Io che poste nell'elemento del pensiero puro partecipano della incondizionalità di queto Io. Per mezzo di questo movimento i pensieri puri si convertono in concetti e solo così sono ciò che davvero sono, ovvero automovimenti circolari e la coincidono con la loro sostanza spirutuale.

Hegel
Introduzione alla Fenomenologia dello Spirito
Trad gensek



lunedì, febbraio 06, 2012

Sulla confutazione



Se si vuole comprendere una filosofia, bisogna situarsi al suo interno in mod tale che queando la esponiamo ci sembri giustificata. Non bisogna e questo sarebbe un errore imperdonabile, cercare di dimostrarne le mancanze o la falsità. Bisogna davvero sforzarsi di dimostrarla e di presentarla dall'interno, non per poter poi uscir fuori di essa e confutarla – una parola davvero antipatica – quanto piuttosto continuare a restare al suo interno, prenderla sul serio, pensarla fino in fondo e vedere se effettivamente ci conduce da qualche parte o se diamo contro qualche ostaco e difficoltà che ci obbliga a superarla.

Juliàn Marìas
Introduzione alla filosofia
Trad. genseki

Democrazia senza politica


Qualche giorno fa, mentre viaggiavo da Milano a Roma, ebbi, l'opportunità di sperimentare in persona l'ostilità che circonda il tentativo di ridurre il debito sovrano italiano e imporre abitudini più competitive ai ritmi languidi di questa cultura mediterranea.
Camionisti indignati che bloccavano le autostrade, tassisti che fermavano e loro vetture e la maggior parte dei treni cancellati. Gli studenti scrivevano slogan: “alla merda l'austerità” sui muri scrostati di color ocra. I commercianti, scontrosi, sorridevano solo ai gruppi di turisti cinesi invernali.

Tutti questi scioperi e tutta questa animosità erano diretti contro le riforme proposte dal governo “antidemocratico” del primo ministro Mario Monti e il cosiddetto gabinetto tecnocratico, proprio mentre questi faceva pressione su Angela Merkel a fine di moderare l'autoritarismo fiscale tedesco e lasciare un certo margine di crescita per la zona Euro. Alla fine dell'anno scorso, siccome non sembrava che fosse possibile che i politici eletti si chiarissero le idee, il presidente Giorgio Napolitano designò Monti perché formulasse e portasse avanti le riforme strutturali essenziali prima delle nuove elezioni del 2013.

Per disgrazia le proteste sbagliano obiettivo, l'Italia si trova nel pasticcio in cui si trova non per mancanza ma per eccesso di una forma putrida di governance. La democrazia elettorale italiana - come quella degli USA – è a tal punto dominata dagli interessi politici dei partiti che ha finito per essere disfunzionale e del tutto incapace di far fronte alle difficili sfide che affronta il paese.

Monti, la cui saggezza senza pregiudizi e la larga esperienza come commissario europeo sopo proprie di un meritocrata piuttosto che di un tecnocrata, ha ragione quando dichiara che l'assenza di personalità politiche nel governo sarà un vantaggio e non un ostacolo per avere una solida base per le riforme. Mi pare che la democrazia italiana come quella degli USA si è mutata in una vetocrazia, per utilizzare un termine coniato da Fukuyama. In una vetocrazia, i politici eletti stanno in mano al sentimento populista immediato e agli interessi speciali organizzati. In questo modo i partiti privano di contenuto qualsiasi poliica che cerchi di giungere a un compromesso per il bene comune a lungo termine anche prima che lo si possa votare nel Parlamento. Il progetto di legge che va avanti finisce per essere privato di sostanza e significato. Quindi quello che resta è lo status quo.

Nella sua opera fondamentale “Auge e decadenza delle nazioni!, il sociologo Mancur Olson spiegava che questa poderosa accumulazione di interessi organizzati nelle democrazie nella storia ha distrutto sempre gli stati, perché inevitabilmente genera deficit insostenibili e, proteggendo i gruppi interessati che cercano il proprio guadagno, deprime l'economia.

In Italia, oggi, i rappresentanti politici dei sindacati dei tassisti o dei commercianti non difendono una concorrenza aperta per facilitare la vita ai loro clienti, Gli impegati pubblici resistono al taglio dei posti di lavoro e di salario. I banchieri utilizzano la propria influenza sui legislatori per evitare regole. I ricchi si oppongono a pagare più tasse.

Nemmeno può essere la soluzione dare maggior potere agli elettori con una democrazia diretta e non rappresentativa. Se si votasse, quale pensionato starebbe a favore di tagliare il generoso contratto sociale di cui approfitta anche se il portafoglio collettivo italiano non lo consente?

Come si può vedere in California, in cui la democrazia diretta delle iniziative popolari domina la forma di governare, gli interessi particolari espressi dai votanti nelle urne, razionali se presi singolarmente, sommati possono diventare tutta una follia dalle conseguenze impreviste. Come conseguenza di una serie di iniziative approvate anni fa, che tagliano le tasse sul patrimonio e pretendono di castigare i delinquenti risulta che la California spende di più in carceri che in istruzione superiore pregiudicando così le basi del suo futuro.

La democrazia diretta è un'idea specialmente dannosa per la cultura nordamericana della Coca-Cola Light, in cui sembra che la gente desideri un consumo senza risparmi e un governo senza tasse, come sapori zuccherati senza calorie. Per peggiorare ancor più la situazione, il denaro dei gruppi di interesse che il tribunale supremo degli Stati Uniti consente a titolo di “Libertà di espressione” permette di distorcere e manipolare qualunque discorso onesto in qualunque campagna politica.

Per quanto difficile possa risultare ingoiare la sua dose di disciplina, la democrazia depoliticizzata che esercita il primo ministro Monti è la unica forma di governo possibile per mandare avanti l'Italia. E vedremo altri esempi in Occidente per gli stessi motivi che in Italia.

La stessa idea che ha ispirato l'intento di creare un “supercomitato” del Congresso degli Stati Uniti, intento che, per disgrazia, fino ad ora è fallito, è quella di eliminare le manovre di blocco al momento di formulare una politica imparziale e di senso comune per ridurre il deficit a lungo termine.
In California, un gruppo indipendente e con gente dei due partiti, chiamato Comitato di Riflessione a lungo termine, con membri come Eric Schmidt di Google, l'ex presidente del Tribulale Supremo dello Stato e la ex segretaria di stato Condoleeza Rice, ha avuto più successo e ha potuto elaborare un piano di riforma fiscale bipartisan che supera la rottura ideologica che da anni paralizzava l'Assemblea dello Stato. Nel 2014 il piano sarà sottoposto a Referendum. Il gruppo, inoltre ha proposto un organo non partitico, più formale, designato da membri eletti ma composto da cittadini di grandi conoscenze e esperienze per vigilare gli interessi a lungo termine della California.

In nessuno d questi casi si sta suggerendo di eliminare la democrazia di una persona, un voto, e neppure di trasferire la sovranità popolare, a una élite meritocratica come accade in Cina con il Partito Comunista. In tutti i casi menzionati il voto decisivo continua a essere nelle mani dei cittadini elettori. Quello che si elimina è la vetocrazia. In vece di agire solo per interesse egoista o dover sbrogliare la matassa di interessi particolari al momento di votare il pubblico potrebbe dcidere sulle politiche proposte da organi da cui ci si può aspettare che terranno conto dell'interesso comune a lungo termine.

Le attuali difficoltà per governare l'occidente suggeriscono che è necessario che la democrazia evolva verso la istituzione di organi con elementi meritocratici come contrappeso alla cultura politica degli interessi particolari e immediati che domina la democrazia elettorale.

Alla fine dei conti, le istituzioni meritocratiche con autorità delegata non sono un fattore estraneo alla democrazia. Abbiamo banche centrali indipendenti, tribunali supremi e potenti organi di regolamentazione in ambiti come l'alimentazione e i farmaci, l'ambiente e la salute anche nella California della democrazia radicale si sono concessi poteri essenziali a alcune commissioni nominate dal governatore per regolare lo sviluppo della costa, supervisare la distribuzione di acqua e energia e amministrare l'università pubblica dello stato. Tutti questi organi rispondono al cittadino perché sono nominati da rappresentanti eletti democraticamente, ma allo stesso tempo stanno fuori dal processo elettorale propriamente detto.

L'esperimento di democrazia depoliticizzata in Italia sarà seguito con grande attenzione come possibile antidoto alla paralisi e alla disfunzione che affliggono oggi l'occidente. Se la decomposizione politica può sboccare in un buon governo dell'Italia, il cammino intrapreso da Mario Monti sarà utile al mondo intero.

Nathan Gardels
Direttore di NPQ e Global Viewpoint Network di Tribune Media Service International, consigliere principale del Nicolas Berggruen Institute.
2012



domenica, gennaio 29, 2012

Flannery O'Connor



Flannery O'Connor

Da: "Sangue sapiente"

Ebbene io predico la Chiesa senza Cristo, sono membro e predicatore di questa chiesa in cui i ciechi non vedono e i paralitici non camminano e i morti restano belli morti. Chiedetemi di questa chiesa e vi dirò che è quella in cui il sangue di Cristo non intrappola con la redenzione.
  • È un predicatore disse una donna -. andiamocene.
  • Ascoltatemi tutti, porterò con me, ovunque io vada questa verità – grido Haze -
Predicherò che non vi fu caduta perché non vi era dove cadere, non vi fu redenzione perché non vi fu caduta e nemmeno il giudizio per mancanza delle due precedenti condizioni. Nulla ha importanza meno il fatto che Gesù era un mentitore.
Un ometto riunì le sue figliole e le le spinse di fretta dentro il cinema, re ragazzi se ne andarono ma arrivarono altre persone e Haze riprese daccapo quello che aveva detto. Anche questa gente se ne andò e altra sopravvenne e lui ripeté il suo sermone per la terza volta. Anche queste persone se ne andarono e non ne arrivarono più altre e restò solo la donna che vendeva i biglietti dietro il vetro. Non aveva mai smesso di fulminarlo con lo sguardo senza che lui se ne rendesse conto. Portava occhiali con diamanti falsi sulle stanghette e i capelli ammucchiati a salciccia intorno al capo. Schiacciò la bocca contro uno dei fori dello sportello e gridò:
  • guardi che se lei non ha una chiesa dove predicare, non vedo perché debba venire a farlo qui davanti a questo cinema.
  • La mia chiesa è la chiesa senza Cristo e se non vi è Cristo non vi è nessuna ragione per predicare in un posto fisso.
  • Guardi, disse la signora, se non se ne va subito da davanti a questo cinema chiamerò la polizia!
  • È pieno di cinema davanti ai quali predicare. …
Quella stessa sera predicò davanti a tre altri cinema.

trad genseki

martedì, gennaio 24, 2012



Toute règle de vie qui serait uniquement fondée sur une théorie philosophique et des principes abstraits serait téméraire : je ne puis différer d’agir jusqu’à ce que l’évidence ait paru, et toute évidence qui brille à l’esprit est partielle.
Une pure connaissance ne suffit jamais à nous mouvoir parce qu’elle ne nous saisit pas tout entiers : en tout acte, il y a un acte de foi.

Blondel

Ogni regola di vita che si fondasse esclusivamente su una teoria filosofica o su principii astratti sarebbe temeraria: non posso procrastinare l'azione fino a che si sia manifestata l'evidenza, e, inoltre, ogni evidenza che illumini lo spirito è parziale.
La pura conoscenza non è ma sufficiente a muovere i nostri atti: in oggni atto vi è un atto di fede

trad genseki

domenica, gennaio 22, 2012


Nella religione quello che proviamo per prima cosa non è un aiuto per la nostra attività, quanto piuttosto un fondamento per essere.

Zubiri
Il problema di Dio
trad genseki

Leggero


Leggero come la svolta ad una pagina
Tra pascolo e frangia di betulle
Come lo scoiattolo che osserva il beduino
a prudente distanza tra i bagolari
Come la corsa dei ciottoli dal versante
Al torrente che caccia innanzi
L'ombra furente delle ultime nevi.
Noi restiamo nascosti dietro gli specchi
Invece, dove poco a poco si accumulano
Le foglie morte, i ricordi, le elitre perdute
Da tanti ronzii, da prima che i rettili
Saettassero lingue vermiglie
E un vecchio dagli alluci pensili
Si mettesse a suonare il violino a testa in giù
Tra i rami del brachichito.
Leggero come il caffé del mattino
Mentre l'ultimo governo illegittimo bombarda
I binari
E la stazione si alza verso la spiaggia
Dove i gusci delle fregate affondano
Nel mare asperrimo di vino.
Leggero sarà per tutti con un lieve sorriso.

genseki

Illuminazione e mercato

Rileggendo il libretto di Thaddeus Golas, che risulta essere sconosciuto in Italia ma che pare aver goduto di un discreto succeso negli USA, negli ani settanta, prima che la letteratura meditativa, illuminativa, gnostica, e acquariana diventasse un genere niosamente reiterativo, mi è capitato di riflettere su come questo tipo di testi, nel momento del loro sorgere, nel momento della loro origine possedessero una umiliante capacità di seduzione di cui i loro attuali epigoni, sfuocati, sono invece totalmente privi.
Chi mai si lascerebbe sedurre davvero dai manualetti di Giacobbe o di Celestino? Invece Golas, come Leary, si che seducevano.
Castaneda merita un discorso a parte anche se i suoi epigoni maya e toltechi sono davvero pallide melense banalità senza neppure un ricordo della sua capacità di affabulazione.
La forza di seduzione del testo di Golas, come di altri è la stessa di un supermercato nel periodo di Natale.
Quello che Golas chiama illuminazione altro non è che la percezione intuitiva dell'universo delle merci come totalità autarchica.

L'illuminazione è lo spazio che garantisce la possibilità di godere dell'universo della merce simultaneamente e in modo iterativo.
La merce è merce solo per il desiderio, il desiderio è figlio della scarsità. L'orizzonte dell'illuminazione di quegli anni è l'illusione della possibilità di un desiderio che si riproduca nell'abbondanza, che sorga dalla sazietà, un desiderio che sia realizzato nel momento stesso del suo sorgere. Anzi un desiderio che sia originariamente anche la sua realizzazione. In modo tale che fin dal principio non si abbia nulla da desiderare perché tutto quello che si può desiderare è già in nostro possesso ma senza che per questo il desiderio venga meno.

L'illuminazione è come un supermercato di cui si abbia la sicurezza di aver comprato tutte le mercj godendo infinitamente dell'atto di comprarle.
Uno degli aspetti più ironici del testo di Golas, oltre quello di situarsi in un mercato atemporale, sta nel fatto che la pretesa di esporre un insegamento eterno si realizza in un linguaggio che in pochi lustri è diventato opaco.

Mi riferisco qui al passepartout costituito dalla parola “vibrazione”. Tutto quanto è sempre in vibrazione, le vibrazioni possono essere positive o negative, la vibrazione spiega tutto, ogni questione può essere ricondotta alla vibrazione senza che mai si spieghi che cosa sia una vibrazione.
Credo che questa buffa idiosincrasia vibratoria sia dovuta al sistema educativo americano del tempo che probabilmente enfatizzava il conoscimento scientifico e al suo interno quello della regina delle scienze di allora: la Fisica. In fisica “vibrazione” ha un senso. In metafisica non, non ha nessun senso, ma svolge la funzione di dare alla metafisica un'illusione del prestigio di cui gode la fisica. “Tutti gli essseri vibrano” ci insegnava Golas. E questo ci produceva come un solletico, un prurito piacevole. Adesso nessuno potrebbe più capire che cosa diavolo vogia dire questa frase. Adesso le scienza di riferimento sono altre, sono neurologiche e genetiche e tutta la retorica dell'illuminazione ha riconvertito i suoi utensili introducendo reti neuronali e mappe anch'esse neuronali e catene di Dna ,Adn e altre scientificherie.
Resta la nostalgia di questa illuminazione vibrante, come dell'immaginario del comandante Kirk in cui il senso del progresso si concentra nel momento il cui lui e il sig. Spok, il vulcaniano si fermano un istante esitando davanti a una porta trasparente che con un lieve fruscio si aprirà da sola. Finalmente.

genseki


El puntarrón

La prossimitá della follia


L'incapacità di riconoscere la follia, non ha proprio nulla di singolare, e oserei dire, che è  piuttosto prossima a essere la norma,  non si tratta di un fenomeno relativo a individui isolati, ma a intere nazioni che, come la storia ben lo insegna, spesso, a causa di tale influenza (...), si lasciarono condurre verso l'abisso dalla strana capacità di persuasione che possiede la logica apparentemente senza difetti del delirio, sebbene in essa tutto sia in sé contraddizione.

Juan José Saer
da "Le nubi"
trad. genseki

venerdì, gennaio 20, 2012

La posizione della finitudine

In che cosa consiste situarsi in modo corretto nella coscienza compiutamente posseduta della propria finitudine?
In primo luogo va detto qualche cosa a proposito di questa finitudine in relazione con il noi o con l'io di cui costituisce il limite.
La finitudine non è esattamente la morte. Perché anche in una prospettiva cristiana o induista i resurrezione o di reincarnazione quello che risulta cancellata è la morte ma non la finitudine, posto che sia la reincarnazione sia la resurrezione sono innegabilmente discontinuità che si articolano in fine e principio.
Pensare la propria finitudine è un esercizio ben arduo posto che, in realtà quello che siamo stati educati a fare è cercare in tutti i modi di considerarla superata, di stabilirci nel terreno sicuro della durata, sul suolo stabile dell'eternità.
Siamo stati educati a credere in valori che non periscono, a lottare per fini eterni, a stabilire principi immutabili. A pregare Dio.
Tutte cose, queste, assolutamente incompatibili con la nostra lamentevole finitezza.
Questo vale per coloro che hanno ricevuto un'educazione religiosa come per coloro che sono stati tirati su nell'ateismo, nell'agnosticismo, nell'epicureismo o nell'indifferenza.
Pensare la propria finitudine a partire dalla propria finitudine significa inevitabilmente pensare a partire da un dove che ha da essere un quivi e che non può essere mai uno dei tanti altrove. Un quivi definito nel senso strettissimo della sua infima spazialità, mettiamo che sia non più di un tatami, non può certo essere un quivi maggiore di un tatami!

Vi sono due modi principali di stare nel quivi, due tra molti. Uno è quello di radicarsi nel quivi come se si dovesse resistere ai venti pugnaci dell'altrove e come se il quivi fosse superiore all'altrove; l'altro è quello di considerare il quivi uno dei possibili altrove, cioè un caso particolare dell'altrove che per la coscienza della finitudine ci contiene come un quivi e non come un ovunque.

La coscienza finita è coscienza di stare sempre qui. Non perché quivi siano contenuti tutti gli altrove ma perché quivi è il solo altrove possibile per una coscienza finita.

Bisogna che il quivi della coscienza finita non è la negazione dell'altrove, è la forma dell'altrove dal punto di vista della finitudine. Insomma un tatami. La vita quotidiana nelle condizioni attuali, quasi ci obbliga a situarci nell'altrove.
genseki



lunedì, novembre 28, 2011

Heirich Heine

Crepuscolo

Sulla pallida riva del mare
Sedevo solo coi miei pensieri cupi.
Il sole calava all'orizzonte spargendo
Raggi rossi, roventi sull'acqua,
Bianche ampissime onde
Spinte dalla mareggiata
Spumeggiando rompevano con intenso fragore -
Un raro brontolio, sibili, sussurri,
Risa, mormori, sospiri e ronzi
Si confondevano con una ninna nanna.
Mi pareva di udire l'eco delle antiche saghe
Delle care favole arcaiche
Che da bambino
Udivo dai figli dei vicini
Quando nelle sere d'estate
Sugli scalini di pietra del portone
Quieti in circolo accoccolati
Ascoltavamo
Con piccoli creduli cuori
Ed occhi furbi e curiosi,
Mentre le ragazzine,
Accanto ai vasi di fiori profumati
Sedevano di fronte alla finestra,
Con volti di rosa,
Sorridendo alla luce della luna.

trad. genseki

Ritratto di Lisi che conserva in uno scrigno

In picciol carcer tengo imprigionato
Con la famiglia intera d'oro ardente
Il cerchio della luce risplendente,
L'impero grande dell'amor serrato.

E meco porto il pascolo stellato
Dell'alte fiere dal pelo rilucente
E ben celato al cielo de all'Oriente.
Dì luminoso parto migliorato

Porto le Indie tutte nella mano,
Perle che, in un diamante, quai rubini,
Pronunciano con sdegno vocal gelo;

Van ragionando poi fuoco tiranno
Lampi d'un bel sorriso di carmino
Aurore e gale che son pompa al cielo.

*

Quevedo
Trad. genseki

Quevedo



Conto ormai cinquantadue anni e in essi conto altrettanti funerali di me stesso. Irrevocabilmente morì la mia infanzia, la mia adolescenza, la mia gioventù, e anche la pienezza della mia matura etá. Allora come posso chiamare vita questa vechiezza che è sepolcro nel quale io stesso sono la salma di cinque defunti che ho vissuto?


Lettera a Miguel Serrano del Castillo del 16 Agosto 1653


Trad genseki



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.

venerdì, novembre 25, 2011

Enrique Morente canta a José Bergamín

José Bergamín



Il pensamento in sogno trasmutai.

Dante

Mi persi in un bosco oscuro
Sulla riva del mare
E non tornai a incontrare
Nessun cammino sicuro.

Come impossibile muro
Che non si può varcare
Sentii delle stelle il brillare
Nella notte così puro.

Come se il sentimento
Di verità si illuminasse
Simile al firmamento;

Come se si tramutasse
In sogno il mio pensamento
E il cielo lo rispecchiasse.

*
Sonetto inverso

Non so perché sto pensando
Che pur mi tocca morire
Ignorando come e quando.

Inorando come e quando
E dove, mi metto a vivere
Come se stessi aspettando.

Come se stessi aspettando
Di potermi addormentare
Ché non posso continuare
A senir che sto sognando.

A sentir che sto sognando
Per smettere di sentire
Che mi toccherà morire
Ignorando come e quando.

*

Trad genseki

Dussel



L'Altro non lo vedo come libero, come esteriorità; non lo posso pensare, è impensabile, perché l'Altro, lui si rivela a partire da sé, in modo che si trova oltre il logos; è quello che cercava Feuerbach, quello che cercava Heidegger. “Oltre la totalità si trova l'Altro nella sua lbertà, nella sua parola che irrompe sempre come ciò che interpella, perché sorge da oltre la totalità, come ciò che ancora non ha senso, perché appunto si trova oltre ogni senso. Se parla come ciò che già ha un senso vuol dire che è ontico, mondano.

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L'Altro parla e la sua parola trova in me, non un occhio, bensì un orecchio. Per i greci e i moderni, il mondo è l'ambito della luce, lumen, “l'intelletto agente” è luce che illumina. L'intellegibile è l'illuminato, La parola dell'Altro, tuttavia, si trova oltre, nell'oscurità; in modo che la sua parola irrompe da oltre la luce.


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Nell'esperienza del faccia-a-faccia riconosco l'Altro come ciò che si trova oltre il mio mondo. Per questo, sto esplrando il limite del mio mondo; mi sto riconoscendo come non unico, bensì finito.

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Il codice di Hamurabi, antico (una piccola lapide nera del Louvre) dice: “Ho fatto giutizia alla vedova, all'orfano e al povero”, queste paroel non le avrebbe mai scritte un greco e nemmeno un moderno. Vediamo che cosa significano. La vedova non è una donna qualsiai, è la donna senza casa e la donna senza casa nel mondo mesopotamico è l'Altro perché è colei che resta esposta alle intemperie. L'orfano non è come tutti i bambini è il bambino senza casa, quello che sta alle intemperie. Il povero, in questo caso è il nulla, senza città, senza città. La vedova, l'orfano e il povero, tutti e tre, sono l'esteriorità della totalità, chi sa far loro giustizia si apre all'esteriorità e ha una nuova esperienza dell'essere. Hamurabi era semita. Aristotele non disse mai nulla di simile nella Nicomachea, disse, invece: “l'amore è tra eguali” e quindi amore per quanti stanno nella totalità.

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Solo morendo alla quotidianità del mondo è come accade il pensiero filosofico, Chi non rinuncia mai alla quotidianità non può essere filosofo, chi si protegge nella sicurezza della totalità è morto

e non può pensare.


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La cosa più reale di tutto quanto è esteriore al mondo è proprio l'altro uomo in quanto è libertà.


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L'altro che si rivela sorge oltre quello che per me è l'essere.


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Un grande pensatore antihegeliano dice giustamente: “dall'ascoltare silenzioso sorge la comunià”. Chi è capace di ascoltare l'altro in quanto altro è capace di costituire una comunità e non una società totalizzata.
Trad genseki

Enrique Dussel



Abramo


Abramo
Ritorno ad Abramo. Era tanto tempo che non mi ricordavo di lui. Eppure improvvisamente ho sentito tutta la nostalgia di non appartenere più alla sua discendenza, di non fare parte dei suoi eredi. Sarebbe bello, quando sarà giunto il momento, sentire di reclinare il capo tra le braccia di Abramo.
Trovare la pace nell'essere parte della sua famiglia, nel sapere di essere foglia che si separa da quel vecchio albero che sempre rinnova in freschi polloni.
Ho spesso lasciato tutto quello che avevo per ricominciare altrove seguendo la voce del dio vanitoso del mio capriccio. Forse la voce, l'intenzione, la chiamata erano il frutto di superficialità, ma la partenza, l'abbandono stavano su di un altro piano, Nel movimento, non nelle se ragioni si nascondeva una qualche verità.
genseki

Murcia huerta

In fondo alla valle di latte

In fondo alla valle oscuro come un ragno
Il borgo aveva assassinato i suoi torrenti
I fiumiciattoli e i rigagnoli
Sibilando sgangherato da mille sirene
Chiamava all'appello dell'assenzio
Le biciclette sconquassate
Mentre gli assi e i fanti di coppe
Si accomodavano in terza classe.
L'erba si faceva amara e fredda
Il latte sceglieva di scorrere
Ora per le vene piú profonde della terra-

**

Barnagasso

Barnagasso soleva sedere di fronte al mare,
con il suo fascio di notizie fresche
Con il cartoccio di mitili stanchi
E il fez
I grossi piedi ben piantati nella sabbia
Respirava la frescura salina
Di ogni infrangersi di tutto quello che era schiuma
Signore dell'onda estrema, Barnagasso,
Dal gesto lento e unto
Conosceva per nome le alghe
Che si abbracciavano alle sue caviglie
Dietro il capo una corona di palme
Oscillava al ritmo di un salmo copto
Barnagasso era là quando le colonne del mare
Furono piegate dal firmamento
Ora traeva melodia dalla curva delle onde
Morte sulla rena bianca
A pochi millimetri dal suo alluce
Il fez macchiato di sudore.

venerdì, novembre 18, 2011

Reincarnazioni

Le chiese nere come ceppi carbonizzati
In tutto quel gemere d'oro crepuscolare
Nello scricchiolare senile delle roveri
E gli sbadigli sarcastici dei lupi
Ci chiamavamo ad una festa di campanili
Ad un'aurora di colombe tra i coppi e gli abbaini
Allora fu lo strepito degli zoccoli sul selciato
Che bruciò quella possibile reincarnazione
A farci restare da questo lato dello specchio
A contare le banconote del riscatto
Sull'erba troppo verde di un campo di golf
In saldo.

*
Non era possibile svegliarsi
Nella notte di bronzo dello specchio
Per vomitare tutto quello zinco
Sulle felci lavate dalla luna.
*

Murcia huerta

Leggende

Tutte quelle monete quei dobloni
Il mantello grigio del pellegrino cucito con steli di verbena
Il rovescio cupo della sorgente
E il sorriso di lucertola della vergine
Accoccolata sotto il frassino
Mentre non cessava di sgocciolare
dalle cortecce ricamate di lichene
Come stole del tempo d'avvento.
D'un avvento infatti restavamo in attesa
Ignari di misteri e di soteriologia
Consci come rospi della soffocante
Fecondità di tutta quella vita nell'estremità dell'autunno
Erano pozzi tra muschio e grandine
Gli occhi delle nostre anime
Bevevamo l'elisir di ortica
Con le mani nel tesoro del pellegrino
Il suo rosario sgranato nella tosse della sorgente
Ci rammemorava il prezzo del sangue versato.
*

sabato, ottobre 29, 2011

Xavier Zubiri


Sulla realtà


Non è sufficiente che le cose siano reali perché costituiscano un problema per noi, bisogna che si presentino in una certa forma perché si possa parlare di un problema. I vero problema consiste nel fatto che l'oggetto presente, cioè la realtà in quanto tale, non è un elemento su cui ricade liberamente il mio atto intellettivo. …
L'oggetto su cui ricade la domanda sulla realtà in quanto tale non è meramente estrinseco quanto piuttosto qualche cosa che, in una o in altra forma, mi si presenta a partire da me stesso. Ho un modo particolare di riferirmi alle cose in virtù del quale, inesorabilmente, la realtà in quanto tale mi si presenta come qualche cosa di intrinseco al mio atto di riferirmi alle cose e non semplicemente come qualche cosa di estrinseco, come qualche cosa che è un apporto delle cose.

**
(L'impressione di realtà) è qualche cosa che ci presenta il carattere di realtà come qualcosa che l'oggetto possiede in sé, che rinvia a ciò che è suo proprio.

**
L'intelligenza umana, in quanto intelligenza, è intrinsecamente volta alla sensibilità in quanto sensibilità, e reciprocamente, nel caso dell'uomo, … , al livello in cui sorgono nella coscienza le impressioni della sensibilità umana si trovano intrinsecamente assorbite in un atto intellettivo.

**
Intorno all'essenza.


La funzione formale dell'intelligenza, non è quella di concepire, quanto piuttosto quella di percepire le cose reali proprio in quanto reali. Quella di formare concetti è una funzione ulteriore che riposa su questa funzione primaria e che da essa deriva. E questo vale tanto per l'intelligenza umana quanto per quella divina.
Dio non concepisce primariamente le cose reali in quanto reali in concetti obiettivi in quanto concetti, bensì in una visione di esse in quanto reali o realizzabili. L'intellegibile una volta fattp oggetto dell'intelletto è il reale in quanto reale.Per questo la relazione primaria e radicale delle cose con l'intelligenza non è relazione concettuale ma un essere afferrate in essa come reali. Pertanto prima di una verità ontologica (che io chiamerei del concetto) vi è una “verità reale” che ne è il fondamento.


Trad genseki

Huerta

Eidos

Da quanto tempo era steso sul divano
Pensando all'albero del pepe
Al suo modo di ritagliare la luce
Sullo sfondo viola di un temporale
All'evidenza della contingenza
Di questo corpo disteso che si sfrangia
Nelle direzioni che definiscono il suo spazio
E quelle piccole bacche rosa che devono
Essere acide acide e forse senza ossicini
Con un cuore come un astragalo
E che sembrano attrarre le gazze
Qui sul divano disteso lascio
Che la percezione della sua quiete
Disgreghi al vento della casualità
Il mio corpo e ecco l'albero dello pseudo pepe
O pseudo albero del pepe
Muovere le foglioline come unghie di cera
Come torvi rimasugli di pinne
Sullo sfondo di un incendio di garofani
Di zingarelle e di agrumi.
*
La poesia è un territorio rubato al sonno
Esteso tra la notte e l'alba
Ove le parole cercano a tastoni di diventare corpo
E il corpo di sentirsi finalmente reale
Nel formicolio silenzioso del suo farsi
E disfarsi sempre restando sulla sponda
Tra il sogno e il discorso.

gesneki

mercoledì, ottobre 26, 2011

Xavier Zubiri



Xavier Zubiri

Durante tutta la mia vita ho conosciuto solo una emozione che mi ha commosso, l'emozione della problematicitá pura.

Fin da giovane provavo dolore nel vedere come tutto si trasforma in problema. (...) Questo dolore, tuttavia, non era in sé doloroso. (...) Era piuttosto la fonte, in fondo e fino ad ora l'unica vera fonte, di autentica gioia.
Mi volli afferrare positivamente a questo carattere problematico dellèsistenza.

Lettera a Heidegger
trad genseki

sabato, ottobre 22, 2011

Puntarron

Nuove poesie di genseki

La pioggia ha lavato gli ultimi ciuffi
Delle speranze e delle illusioni.
Ora lo vediamo l'albero è proprio un albero
La luce un groviglio di vermi
Eppure la lepre che fugge ha un profumo
Pungente di incendio il suo alito affumicato
Ricorda la tua pelle rosa o la carne
E la nostra povera morte è questo accettare
La fatica di digiunare dalle apparenze
Di una gloria mai sopita.

*

Anche il sonno è soltanto vapore
Dormendo accanto al focolare
Quando tante perle si scheggiano
Sulle vetrate dell'apparire
Qualcuno ci lasciò qualche falange
Cercando di potare l'ombra
Tutto quello che seccava lo trascinava il vento
Nessuno ci soccorse quando decidemmo
Di svegliarci.

*

Entrare nella musica era come entrare nel bosco
Entrambe le selve ci avrebbero salvato
La musica era tutta dorata, come un liquore
Come un autunno nella sua armilla
Ora sappiamo che restare accoccolati
Sul pavimento di terracotta
Non ci permette di decifrare l'ombra
Come il ricamo dell'avventura
Lo scrosciare verdastro della gronda
Si confonde con la sfilata sfuocata
dei gatti delle loro code e i baffi e tante stelle
Nel bosco e nella musica è tutto il nostro morire.

lunedì, settembre 12, 2011

Avanguardia e narrazione

Parte I


Negli anni cinquanta e sessanta i teorici del "Nouveau Roman" affermavano con veemenza che il romanzo era l'unica arte che, nel corso del XX secolo, non aveva portato a compimento la propria rivoluzione avanguardista, a differenza delle arti plastiche, della musica e della poesia che la stavano sviluppando da tre quarti di secolo. Se il cubismo, il dodecafonismo, il surrealismo e altre scuole degli anni dieci, venti e trenta avevano, al loro apparire, suscitato scandalo, anatemi e polemiche, ma n ormai erano state accolte nel limbo sereno in cui gli andirivieni del gusto finiscono per collocare i classici. Al contrario, tuttavia, nel 1973, Jean Ricardou, in un suo libro sul "Nouveau Roman" scriveva: "Siamo ormai alle edizioni complete, ai premi letterari, ai grandi quotidiani, all'Universitá, sicuramente il "Nouveau Roman" ha potuto imporre alcune caratteri della sua attivitá, ma l'accoglienza che ha ottenuto presso gli ambienti culturali sembra singolarmente concessa controvoglia". Oggi, trent'anni dopo, si può comprovare come questa resistenza sia ancora viva e che, nonostante una ricezione parialmente positiva nelle istanze culturale ufficiali come l'edizione della Pléiade di Nathalie Sarraute e il Premio Nobel a Claude Simon che puó essere interpretato come un riconoscimento a tutta la scuola, il rifiuto, in molti casi, continua ad essere cocciuto e violento.

Perché tanto furore? Varie possono esserne le cause, la piú evidente è che la complessitá di un'opera d'arte che la allontana dall'abitudine, non solo sconcerta, ma a volte, quando non si ha la preparazione per affrontarla, delude e offende. La ricezione tumultuosa delle novitá, a volte radicali, che sono una costante nella storia delle avanguardie, suole essere composta di razionalizzazione ma anche di risentimento. Nel caso del "Nouveau Roman" questo persistente ripudioincuriosisce posto che ha cessato da tempo di essere una novitá e ha il suo posto nella letteratura francese.

Un rifiuto cosí ottuso deve avere qualche causa che sarebbe interessante indagare e che non dipende dal carattere singolare del "Nouveau Roman" ma, piuttosto dalla funzione che la societá attribuisce al genere narrativo.

Si sa che la poesia lirica godette sempre di uno statuto piú libero della poesia epica perché la lirica atta esprimera la personalitá e l'intimitá del poeta poteva permettersi (dal punto di vista del pubblico, assolutamente non da quello dei poeti!) una maggiore irresponsabilitá dell'epica che spesso era utilizzata per eprimere il punto di vista di una intera societá. Quando, a partire dalla prima metá del secolo XIX la poesia si scriverá anche in prosa, l'uso che i poeti faranno di questo nuovo strumento finirá per dare un contributo decisivo alle avanguardie, proprio come, quando il genere epico adottó la prosa dando luogo al nuovo genere del romanzo, si produssero contemporaneamente, nei molti tentativi di ques'arte singolare, fenomeni contradditori e persino conflittuali.
La rappresentativitá sociale ereditata dall'epica sembra obbligare il romanzo a privilegiare la linearitá, l'azione, la trasparenza ( nel senso che Sartre da a questa parola come quello di un linguaggio non utilizzato nella sua opaca materialitá come nella poesia, bensí come un intermediario invisibile tra il lettore e il signficato). Anche se l'epica, a partire per lo meno da Don Chisciotte, ha cessato di essere preminente nell'evoluzione delle forme narrative ( e si potrebbe anche dire che il racconto in occidente evolve verso una retorica anti-epica), i procedimenti che veicolavano i suoi valori sociali e letterari continuano ad essere onnipresentied è evidente che l'esercizio di ogni narrativa valida ha consistito nell'opporsi ad essi. È questa opposizione che spiega la ricezione conflittuale di ogni opera narrativa dalla seconda metá del XIX secolo.

Juan José Saer

Trad genseki

venerdì, settembre 09, 2011

Drop Box

José Ortega y Gasset

La filosofia del pieno mezzogiorno di Ortega y Gasset impedisce alla nottola di levarsi in volo.


Preferisco concepire la filosofia come un fluido succedersi di luce e di ombra, nella radura, anche a mezzogiorno, la luce del sole filtra tremula tra le fronde si tinge di sfumature di verde e ocra, oppure è nebbia leggera del mattino che sfuma i contorni dei concetti e ci rimanda al loro discreto svelarsi come velati.


genseki




L'uomo vive abitualemente sommerso nella sua vita, come un naufrago nel suo mare, trascinato istante dopo istante dal torbido torrente del suo destino, vive, cioè. in uno stato di sonnambulismo interrotto soltanto da lampi intermittenti di luciditá nel corso dei quali scopre confusamente come è strano il fatto di vivere, allo stesso modo in cui il fumlmine, in un battito diciglia, rivela le anse profonde della nera nube dal cui seno scaturí. Aveva proprio ragione Calderón, e in un senso piú banale e terra terra di quanto pensasse: la vita è sogno come è sogno ogni realtá che non abbraccia se stessa, che non prende pieno possesso di sé,che resta dentro di sé e non riesce a fuoruscire da sé posizionandso sopra di sé. In questo sono eguali l'incolto el'uomodi scienza; anche il fisico èun sonnambulo e non solo nella vita quotidiana ma anche quando fa fisica sonnambulizza. La fisica è un sogno. Un sogno matematico.La sola possibilitá che l'uomo possiede per svegliarsi, per ricordare e vivere in pienaluciditá consiste precisamente nel filosafare.Insomma, la nostra vita o è sonnambulismo o filosofia. Lo dico chiaro come avvertenza preliminare: La filosofia non èun sogno - è insonnia - attenzione infinita,volontá di perpetuo mezzogiorno esasperata vocazione alla veglia e alla luciditá.

Ortega y Gasset
La ragione storica


Trad genseki

giovedì, luglio 07, 2011

La radura

Alla radura si giungeva
Seguendo i solchi paralleli
Tracciati dalle ruote dei carri
Furono queste le tracce ultime
Da pochi ancora ricordate
Che permettevano di entrare nel mondo
Perché nella radura il mondo parlava
Il linguaggio delle cose si esprimeva
In forma visibile e udibile
Come un pullulare di ronzio e scintilla
Di voli luminosi, batttiti d'elitra diamantina
Scrosciare lieve di piume viscido sibilare
Inerme dei ciotoli. Il linguaggio si faceva intensità
Significato libero dalla prigionia della relazione
Dalle catene del dare e dell'avere.
Entrava nella radura come in un tempio
Si sarebbe tolte le scarpe e le calze
Ma i suoi piedi avevano vergogna di lui
Tremando ubriaco di rose canine e ranuncoli.

La cittá

La città

La città si apriva come un urlo cavo
Sulla sommità della scala immensa
Se guardavo in alto era vertigine
Dissolversi sotto le ciglia di ogni sogno
Cercavo rifugio in tutti gli angoli
Nelle edicole ritagliate negli antichi muri
Nelle finestre che velavano appena il pudore delle candele
Ma i focomelici minacciavano,
I mendichi, la bottega dove vendevano le trippe
Lavate nel latte, bianche come le cuffie delle suore
Tornavo al borgo come in una bara di vetro
Le luci degli altri fari erano anime psicopompe
L'urlo della città mi aveva lavato tutto vuoto
Eppure non fu il borgo fu la radura
Che mi donò infine le parole e la pazienza.

Moteagudos y otoños

Il borgo II

Non era il borgo coscienza
Infine scoperta delle relazioni
Piuttosto misura dell'estraneità
Di chi osservava e sapeva osservare
La rumorosa fermentazione della pianura
Dei prati prima della fienagione
Del grano prima del rossore del papavero
E in tutto questo riconosceva le stelle
E alzava lo sguardo come in altri tempi
Alla volta celeste vaste fronti
Volgevano il loro stupore
Il borgo erano vecchie vene
Grige percorse dalle diramazioni del muschio
Ricami di salnitro
Ogni tanto un albero di cachi scoppiava rosso
Fradicio trai denti
I cani randagi allora pullulavano
Nelle osterie il vino puzzava di fenolo
Sulla costa in fondo alla radura
Espero delineava pianure di cobalto
Nel borgo battevano i denti le febbri e le fami
Arturo beffardo un giorno mi prese per mano
Non osavo alzare lo sguardo alla mia fronte
Nella radura riposai i piedi accanto alle orecchie
I fauni arrostivano le castagne trincavano barbera
Arturo era un bugiardo e un monello
Ma anch'io mi lavavo poco
Fuggivo dove nessuna carne potesse turbare il mio freddo.

febbraio 2009

Il borgo

Non aveva parole il borgo
Perso nella forma della sua distanza
Trasfigurato in acqua e in estranea trasparenza
Affondava nella sola palude
Da cui il sole
Non avrebbe potuto redimerlo.
Erano nebbie, fiori di castagno,
Rune sciolte, canti di levrieri nell'alba del biancospino
Una casa di pietra
Fuliggine.
Il borgo si apriva oltre la finestra
Sovente una tenda di pioggia
Garantiva la permanenza di questo limbo
Il suo odore di muschio
La morte, però, si sa, è sempre più forte
Della pioggia, delle macchie di umido,
Delle travi sconnesse del soffitto
Dei fantasmi degli interrutori a forma di chiave.
Così non smettiamo di scorrere
Dentro e fuori da noi stessi
Dimentichi di ogni patria o borgo
Che non sia radura.




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gendronniere

Memoria

Succede che nella memoria restino fissate, in modo invariabile le distanze temporali come si rivelarono all'immaginazione per la prima volta. Il trascorrere del tempo, poi, non ha il potere di aggiungere o ti togliere niente. Si tratta di distanze temporali vissute nella mente come immagini, non come dati, o misure, anni, decenni secoli. Il fenomeno è più forte quando la distanza è remota quel tanto che basta perché nel momento della sua rivelazione fossero ancora vive persone che potevano testimoniarne l'estensione.
È difficile descrivere in termini astratti questa curiosa irregolarità prospettica nella percezione del tempo nella memoria, la si può meglio intuire attraverso un esempio.
Per me la distanza che mi separa dal 1920 è sempre quella che percepii come sensazione quando qualcuno mi raccontò un episodio relativo a quella data cui io potei dare, per la prima volta una forma rappresentativa concreta. Se questo avvenne, poniamo nel 1960 la distanza che intercorre, nella mia memoria tra me e il 1920 è e resta sempre di quarant'anni. Anche se adesso gli anni sono novanta e per un fanciullo di oggi la distanza dal 1960, anno della mia rivelazione dell'esitenza concreta del 1920 è più o meno della stesso ordine. Quest'ultima considerazione non cessa mai di stupirmi. Nel mondo della memoria le distanze temporali obbediscono a leggi diverse da quelle del mondo dell'esperienza. Vale la pena esplorare
genseki

Fenomeni della memoria

Succede che nella memoria restino fissate, in modo invariabile le distanze temporali come si rivelarono all'immaginazione per la prima volta. Il trascorrere del tempo, poi, non ha il potere di aggiungere o ti togliere niente. Si tratta di distanze temporali vissute nella mente come immagini, non come dati, o misure, anni, decenni secoli. Il fenomeno è più forte quando la distanza è remota quel tanto che basta perché nel momento della sua rivelazione fossero ancora vive persone che potevano testimoniarne l'estensione.
È difficile descrivere in termini astratti questa curiosa irregolarità prospettica nella percezione del tempo nella memoria, la si può meglio intuire attraverso un esempio.
Per me la distanza che mi separa dal 1920 è sempre quella che percepii come sensazione quando qualcuno mi raccontò un episodio relativo a quella data cui io potei dare, per la prima volta una forma rappresentativa concreta. Se questo avvenne, poniamo nel 1960 la distanza che intercorre, nella mia memoria tra me e il 1920 è e resta sempre di quarant'anni. Anche se adesso gli anni sono novanta e per un fanciullo di oggi la distanza dal 1960, anno della mia rivelazione dell'esitenza concreta del 1920 è più o meno della stesso ordine. Quest'ultima considerazione non cessa mai di stupirmi. Nel mondo della memoria le distanze temporali obbediscono a leggi diverse da quelle del mondo dell'esperienza. Vale la pena esplorarle.
03/07/11

Dawkins contro Dio

Considerazioni sull'esistenza di Dio

La negazione del'esistenza di Dio, nella forma in cui è esposta e propagandata dalle associazioni di atei e agnostici che si ispirano a Dawkins affronta un primo ostacolo del tutto insormontabile, un ostacolo semantico, sembrerebbe, per cui è indubitabile che esiste un significante DIO con una costellazione, uno sviluppo, una estesione di significati. L'esistenza del concetto di Dio non può essere ragionevomente negata.
Non si tratta quindi da parte degli atei di negare l'esistenza del concetto di Dio, quanto piuttosto di affermare la volontà di distruggere questo concetto, di cancellarlo.
A questo livello gli atei non sono coloro che negano Dio, essi sono, più correttamente coloro che vogliono distruggere il concetto di Dio.
L'affermazione: “Dio non esiste” può essere razionalmente sostenuta su molti piani ma non sul piano semantico, sul piano del segno, sul piano del significato e neppure su quello del concetto. È evidente a tutti che esiste un segno dio con la sua copia di significato e sigificante, esiste un concetto di dio. Come negarlo? Negarlo non si può, si deve distruggerlo. Ora, se si distrugge il segno dio, o il concetto, tutto il sistema dei significati e dei concetti debe essere completamente riorganizzato. Come dicevano i vecchi strutturalisti, un sistema è, appunto una rete di elementi in relazione di interdipendenza oppositiva. Se un elemento della rete si toglie, tutte le relazioni della rete vanno ridefinite, o si ridefiniscono automaticamente. È un po' quella famosa transvalutazione di tutti i valori del Zarathustra.
L'ateismo, comunque non può essere negazione, è obbligato a essere distruzione e poi riforma, ridefinizione.
Certo, è facile obiettare che questo ragionamento è tutto interno al linguaggio e al pensiero e che quello che gli atei vogliono fare è dimostrare è che nella realtà non vi è nessun dio, che Dio non ha un'esistenza reale fuori dal pensiero e dal linguaggio e che la necesità di abolire il segno e il concetto di dio dal linguaggio e dal pensiero altro non è che adeguare il linguaggio e il pensiero alla realtà.
Questa obiezione ha il difetto di considerare il pensiero e il linguaggio come elementi che non appartengono alla realtà. Eppure, il pensiero e il linguaggio una qualche realtà sembrano proprio averla. Un realtà tanto reale che è in grado spesso di modificare il reale.
L'ateismo sarebbe allora una negazione dell'esistenza di Dio al di fuori del pensiero e del linguaggio.
Fu detto ai tempi della grande filosofia che dio è una creazione degli uomini, se è una creazione degli uomini in forma di segno o di concetto non è possibile che non esista. Un prodotto è qualche cosa che esiste in seguito ad una azione,una attività.
genseki