venerdì, ottobre 31, 2014




Giunse a natura il bel pensier gentile
 per informar tra noi cosa novella; 
ma pria mill'anni immagino, che a quella 
faccia leggiadra, man ponesse, e stile.

Poi nel più mansueto, e nel più umile 
lieto ascendente di benigna stella, 
creò quest' innocente fera e bella
alla stagion più tarda, alla più vile.

Ardea la terza spera nel suo cielo
onde si caldamente Amor s'informa, 
il giorno che il bel parto venne in terra.

Ed io mirava la più degna forma, 
quando vesti d'un si mirabil velo 
quest'anima gentil che mi fa guerra.

Giusto de' Conti


Poemas Humanos

Vallejo
Da: “Poemi Umani”
trad. genseki


Ma prima che finisca

Ma prima che finisca
Tutta questa fortuna, perdila, accorciala,
Prendine la misura, se superasse il tuo cenno, superala
Guarda se ci sta, distesa nella tua estensione.

Ben la so dalla chiave,
Anche se spesso non so se la fortuna
Vada sola, appoggiata alla disgrazia,
O suonata, solo per darti gusto,
Nelle falangi tue.

Ben la so unica, sola,
In solitaria sapienza.

Nella tua orecchia bella è la cartilagine
E per questo ti medito e ti scrivo
Nel sogno ricordati di pensare che sei felice
Che profonda è fortuna al terminare,
Ma seco reca al giungere un aroma
Caotico di asta morta.

Fischiando alla morte
Cappello ad alta tesa,
Bersaglio ti defili a vincere la pugna delle scale,
soldato dello stelo , filosofo del seme, meccanico del sogno
(Animale mi senti?
Mi lascio comparare in quantità?
Taci e silente mi fissi
Attraverso le età della parola).

Schivando la fortuna, tornerà
A chiamarla la tua lingua, a congedarsi
Fortuna disgraziata nel durare.

Prima terminerà violentemente,
Dentata, dura stampa,
Allora sentirai come vo’ meditando
Come l’ombra tua è questa mia svestita
Allora fiuterai quanto ho sofferto.


*

Confida nella lente e non nell’occhio

Confida nella lente e non nell’occhio;
Nella scala, giammai nello scalino;
Nell’ala, non nell’uccello
E in te solo, in te solo, in te solo.

Nella malvagità confida, non nel malvagio
Nel bicchiere ma non nel liquore;
Nel cadavere, non nell’uomo
E in te solo, in te solo, in te solo.

Fidati dei molti non di uno;
Dell’alveo, giammai della corrente
Dei pantaloni, e non delle gambe
E in te solo, in te solo, in te solo.

Fidati della finestra, non della porta;
Della madre, ma non dei nove mesi;
Del destino, non del dado d’oro,
In te solo, in te solo, in te solo.

*

Due bambini anelanti

No. Non hanno spessore le sue caviglie; Non è il suo sprone
Dolcissimo, che colpisce le due guance.
Solo la vita è, vestaglia e giogo.

No. Plurale non ha la sua risata,
né per essere uscita da mollusco perpetuo, agglutinante,
Né per essere entrata in mare scalza,

Essa è quella che pensa e va, ed è finita.
È la vita; nient’altro che la vita.

Lo so, lo intuisco cartesiano, automa,
Moribondo, cordiale, infine splendido.
Nulla v’è
Sul crudele sopracciglio del teschio;
Nulla tra ciò che diede ed afferrò con guanto
La colomba, e con guanto,
L’eminente lombrico aristotelico;
Nulla davanti e nulla dietro il giogo
Nulla resta del mare nell’oceano
E nulla
Nell’orgoglio severo della cellula.
Solo la vita; tale; ed audacissima.

In estesa pienezza
Portata astratta, fausta, effettivamente,
glaciale ed impetuosa, della fiamma;
Freno del fondo, coda della forma.
Ma quello
Grazie al quale son nato, ventilandomi
E crebbi con affetto e dramma propri,
La mia fatica lo rifiuta,
Lo avvolgono i miei sensi e la mia anima.
Solo è la vita stabile e teatrale.

Su questa rotta,
L’anima mia estingue la serie dei suoi organi
E per questo indicibile cielo indemoniato,
Il mio apparato di sibili tecnici,
Passò la sera nel mattino triste
E palpito e mi sforzo e sento freddo.

*

Compagno, serve ancora po’ di calma

Compagno, serve ancora un po’ di calma
Un molto immenso, nordico, completo,
Feroce, d’una calma piccolina,
Al servizio minor d’ogni trionfo
All’audace servizio dello scacco.

Ubriaco fin troppo, e non havvi
Tanta follia nella ragione quanto
Questo tuo muscolare raziocinio, né
Fallo più razional che l’esperienza.


Ma, per parlar chiaro
A ben pensarci, sei fatto d’acciaio
Se sol tonto non fossi
A rifiutare
D’entusiasmarti tanto per la morte
E per la vita, sol con la tua tomba.

Occorre che tu sappia
Contenerti in volume senza correre né affliggerti,
La tua realtà molecolare intera
E più oltre, la festa degli evviva
E meno oltre, gli abbasso leggendari.

Tu sei fatto d’acciaio, come dicono,
A patto che non tremi, e che non fugga
A crepare, compare
Del mio calcolo, enfatico figlioccio
Dei miei Sali luminosi!

Vanne, nient’altro; decidi,
Considera la crisi, somma, avanti,
Tagliala, abbassala, guastala;
Il destino, le intime energie, i quattordici
Versetti del pane: quanti diplomi
E poteri, al bordo fededegno del tuo slancio!
Quanto dettaglio in sintesi, con te!
Quanta pressione identica ai tuoi piedi!
Quanto rigore e quanto patrocinio!

Idiota è
Questo modo di patire,
In luce modulata e virulenta,
Se solo con la calma fai segnali
Seri, caratteristici, fatali.

O uomo andiamo, fammi dunque vedere;
Dimmi quel che m’accade,
Che io anche se grido, resto sempre ai tuoi ordini.

*

Questo…

Questo
Avvenne tra due palpebre; tremai
Nella mia guaina, collerico, alcalino,
Immoto accanto al lubrico equinozio
Al piè del freddo incendio in cui m’estinguo,
Scivolata alcalina, vo dicendo,
Di qua dell’aglio, sciroppo sopra i sensi,
Più dentro, molto più di queste ruggini,
Quando va l’acqua al ritornar dell’onda.
Scivolata alcalina
Anche e soprattutto, nel montaggio ciclopico del cielo.

Che dardi e arpioni lancerò, se muoio
Nella mia guaina; sboccerò in foglie di banana sacra
I miei cinque ossicini subalterni,
E nello sguardo il medesimo sguardo
(dicono edificarsi nei sospiri
Tattili fisarmoniche di ossa,
Che morendo così quanti si estinguono,
Muoiono ahimé fuori dall’orologio,
Afferrando una scarpa solitaria)

Se tutto lo comprendo, il colonnello
E il resto, nel lacrimoso senso della voce
Da solo mi torturo, e tristemente estraggo,
Nella notte, le unghie;
E poi non ho più nulla e parlo solo
Correggo i miei semestri
E per gonfiar le vertebre mi tocco.

*

Al cavillar la vita, al cavillare

Al cavillar la vita, al cavillare
Pian piano nello sforzo del torrente,
Allevia, e un seggio offre all’esistenza,
Condanna a morte;
Cade tutto ravvolto in stracci bianchi,
Cade come pianeta
Bollito il chiodo nella pesantezza; cade!
(La mia sinistra, acredine ufficiale;
E tasca vecchia, in sé considerata, questa destra).

È tutto lieto, tranne la mia gioia
E tutto, lungo, meno il mio candore,
La mia incertezza!
Se giudico la forma, tuttavia vado avanti,
zoppicando all’antica,
Per le lacrime mi dimentico degli occhi (Interessantissimo)
Salgo fino ai miei piedi da una stella.
Tesso ; d’aver filato, vo tessendo.
Cerco ciò che mi segue nascosto tra arcivescovi,
Sotto l’anima mia e dietro il fumo del mio alito,
Tale era la delusione sensuale
Della vergine capra che ascendeva,
esalando fatidici petroli,
Ieri domenica in cui persi il mio sabato,

Tale la morte, con suo audace consorte.

*

Chitarra
Il piacer di soffrire e di odiare, mi tinge
La gola dei suoi plastici veleni,
Ma la setola che impianta ordini magici,
e taurina grandezza, tra la prima
E la sesta
E l’ottava mendace, tutte soffre.

Il piacer di soffrire… Chi? Per chi?
Chi, i denti? Per chi la società?
I carburi di rabbia dell’alveolo?
Come essere
E star senza dar collera al vicino?

Vali più del mio numero, uomo solo,
E valgon più che tutto il dizionario,
Con la sua prosa in verso,
Con il suo verso in prosa,
La tua funzione aquila,
Il tuo congegno tigre, dolce prossimo

Il piacer di soffrire
Di aspettare speranze sulla mensa
La domenica con tutte quelle lingue,
Il sabato d’ore della Cina o del Belgio,
La settimana con i suoi due sputi.

Il piacere di attendere in ciabatte,
Di attendere contratto dietro un verso,
Di attendere con forza a mala rabbia;
Il piacer di soffrire: inganno di femmina
Morta con una pietra alla cintura
E morta tra la corda e la chitarra,
Piangendo i giorni mentre canta i mesi.

*

30/04/2006 10.31


Per il puro calore ho tanto freddo
Per il puro calore ho tanto freddo
Sorella Invidia!
Leccano i leoni la mia ombra
E il topo morto mi rosicchia il nome,
Madre, anima mia!

All’orlo dell’abisso vo,
Cognato Vizio!
Tintinna il bruco la sua voce,
E la voce tintinna il suo bruco,
Padre, corpo mio!

Mi sta innanzi il mio amore,
Nipotina colomba!
In ginocchio, il terrore
Di testa, la mia angoscia
Madre, anima mia!

Fin quando un giorno senza due
Tomba mia sposa,
Risuoni il mio ultimo ferro
Di vipera dormiente,
Padre, corpo mio!

*
Son restato a scaldare l’inchiostro in cui mi affogo

Son restato a scaldare l’inchiostro in cui mi affogo
Ad ascoltare la mia grotta alternativa,
Notti di tatto e giorni di astrazione.

Rabbrividì l’incognita in amigdala
E crepitai d’annua melanconia,
Notti di sole, dì di luna, tramonti di Parigi.

Ed ancora, oggi stesso, verso sera,
Digerisco sacratissime costanze,
Notti di madre, giorni di pronipote
Bicolore, lasciva, urgente, bella.

E ancora
Giungo fino al mio aereo da due posti,
Nel mattino domestico brumoso
Che emerse eternamente da un istante.

E ancora,
Anche ora
In fondo all’aquilone ove ho raggiunto
Il bacillo felice e dottorale,
Eco che caldo, udente, terro, sole e luno,
Incognito attraverso il cimitero,
Prendo a sinistra, fendo
L’erba con alcuni endecasillabi,
Anni di tomba, litri di infinito,
Inchiostro, penna, laterizi e perdoni.

*

La ruota dell’affamato
Dentro i miei propri denti vo fumando,
Dando voce, spingendo,
Calandomi le brache …
Vuota stomaco mio, vuota budella,
Dai denti miei mi tira la miseria
Con uno stecco infilzato ad un polsino.

Una pietra ove sedermi
Non c’è per me?
Nemmeno la pietra in cui inciampa la donna che ha partorito,
La madre dell’agnello, la causa, la radice,
Non ci sarà adesso per me?
Oppure l’altra
Che ha trafitto l’anima piegandosi!
Almeno una calcarea o cattiva (umile oceano)
O quella che non serve nemmeno per tirarla contro l’uomo,
Datela a me, quella li!

Almeno quella che troveranno sola e trafitta in un insulto,
Datela a me, quella li!
Almeno la contorta o coronata, ove risuona
Solamente una volta il passo di rette coscienze,
o, almeno, quest’altra, che gettata in degna curva,
Va a cader da se stessa,
Professando da autentica interiora,
Datemela adesso quella li!

Un pezzo di pane! Non v’è neppure quello ora per me!
Ormai essere devo ciò che sempre sarò,
Ma datemi
Una pietra per sedermi,
Datemi
Per favore, un pezzo di pane ove sedermi,
Datemelo,
In spagnolo
Qualcosa che io possa infine bere, mangiare, vivere, riposare,
Poi me ne andrò…
Trovo strana la forma, strappata
E sporca la camicia
E non ho proprio nulla, e questo è orrendo.

*

Trad, genseki






Poesie


Il padiglione del vuoto

Vado con la vite
Ponendo domande alla parete
Un suono senza colore
Un colore coperto da un manto.
Però vacillo e momentaneamente
Cieco, posso appena sentirmi.
D’improvviso ricordo,
con le unghie vado aprendo
il tokonoma nel muro.
Ho bisogno di un piccolo vuoto
In cui ridurmi
Per poter riapparire,
Palparmi e porre la fronte al suo posto.
Un piccolo vuoto nel muro.

Sono in un caffè
Moltiplicatore di noia
L’insistente daiquirì
Ritorna come inutile volto
Per morte e primavera.
Percorro con le mani
Il risvolto che mi par freddo.
Non aspetto nessuno
Convinto che qualcuno dovrà pur venire.
D’improvviso, con l’unghia
Abbozzo un forellino nel tavolo.
Ora ho il tokonoma, il vuoto,
L’insuperabile compagnia
La conversazione in un angolo di Alessandria.
Sono con lui in un carosello
Di pattinatori al Prado.
Era un bimbo che respirava
Tutta la tenace rugiada del cielo,
Col vuoto, ormai come un gatto
Che ci avvolge il corpo intero,
D’un silenzio pieno di luci.

Tenere accanto a ciò che ci circonda
Accanto al nostro corpo
L’idea fissa che l’anima nostra
E l’involucro suo son contenuti
In un piccolo vuoto dentro il muro
O in un foglio di carta di seta
Graffiato con l’unghia.
Son fatto un punto che scompare e ritorna
Intero mi contiene il tokonoma.
Mi rendo invisibile
E nel rovescio ricopro il mio corpo
Nuotando sulla spiaggia
Circondato da bacellieri con nivei stendardi,
Matematici e giocatori di pallone
Che descrivono un gelato di mamey.
Il vuoto è più piccolo di una carta da gioco
E può essere grande come il cielo,
Ma possiamo farlo solo con un’unghia
Sul bordo di una tazza da caffè
Nel cielo che ci cade su una spalla.

Il principio s’unisce al tokonoma,
nel vuoto può nascondersi un canguro
senza perdere il giubilo del salto.
L’apparizione di una cavità
È misteriosa e sviluppa il terribile.
Nascondersi è tremare,
Suonano i corni dei cacciatori
Nel bosco congelato.
Ma calmo è il vuoto,
Lo possiamo attirare con un filo
Inaugurarlo nell’insignificanza.
Graffio d’un’unghia sopra la parete
Cade la calce
Qual pezzo di conchiglia
Della celeste tataruga
L’aridità nel vuoto
Sarà il primo o l’ultimo sentiero?
M’addormo, nel tokonoma
Evaporo nell’altro che continua il cammino.

***


Invisibile rumore

Quando s’innalza nel cielo spogliato
Danzando nell’abisso dell’altura
Che cancella nel frutto la figura
Cui danno forma i sensi del suo aroma

Onda breve disfatta nel matraccio,
impero illuso di una mano impura
distacco, fuoco vinto, biancheggiare
d’un mar finito sue ceneri doma.

Per l’odore del frutto trattenuto
Vanno le mani elaborando un senso
A restaurare l’inerzia d’un sorriso.

Così la freccia i suoi silenzi move
E cieca va cercando tra la neve
La propria stella quale frutto e muore.

***

Freccia e distanza sognano il rumore
Molle rugiada cade sulla seta,
A mezzaluna luce nuova pena
Che il suo silenzio magistral ci vieta.

Nell’articolazion sì dolce posa
Lenta dell’irridente fiume l’ombra
Del ciel che rende neve la sua morte,
Come ubriaco della sua scansione.

Non ciò che passa e che muto risuona
Non ciò che cade senza inganno o figura,
Ciò che invece ricade dietro l’ombra.

Peccato senza colpa, eterna pena
Che accompagna e che sfregia l’amarezza
Di ciò che cade e che nessuno noma.


***


Ma se ci assisti; ora là ti vedo
Onda su onda, manto dominato
Che giunge ad invitarmi a ciò che credo;
Il mio verbo, il tuo cielo, l’incarnato.

Tra i rami del ciliegio buon ristoro,
O di vimini in cesti governato
Il brutto nel passaggio ridestato
Si muterà nel volto dell’amato.

Si bagnerà lo spillo nella rosa
Sogno sarà col suo senso l’aroma
Noia l’aria che muove il cavaliere.

L’albero abbasserà la bella voce
La morte cesserà d’essere un suono:
l’eternità è all’ombra tua più breve.

***

Intermezzo ispanico di Pietro

A Gabriella

En el barco de estrelas llega el frìo
Tù dejalo llegar
Hablamos en la tienda de piel
Pajarillos latiendo
A la vela del corazòn.

***

En el barco de tus ojos
Llega el fuego
Lo espero
A luz de los alamos escondidos.

***

Pajaros de tus dientes
Me dan gana
De volar en el cielo de tu piel
Como chispa brotando
Sobre ramas
Nuevas en la primavera de tus manos.

***

Nieve te haces
brotando
En la extensiòn del prado de corderos
Tus pies miden sin miedo
La distancia que nos une.

***

Battaglia cinese

Separati dalla collina ondulata
Due eserciti mascherati
Lanciano interminabili barditi di battaglia.
Il capo nella sua tenda da campo,
interpreta la furia ancestrale del popolo.
L’altro fissando la linea del fiume,
Vede in un altro corpo la sua ombra e si rinnega.
La musica crescendo con il sangue
Precipita la marcia nella morte.
I due eserciti, come avvolti da nubi,
Si addormentano cancellando gli scarti temporali.
Come mutati in pietra stanno i capi
E contan l’ombre sfuggite dai corpi,
Contano i corpi fuggiti lungo il fiume.
Uno degli eserciti riuscì a mantenere
Unita la sua ombra al proprio corpo
Ed il suo corpo con il fiume fugace.
L’altro fu vinto da un immenso deserto sonnolento.
Rende il suo capo la spada con orgoglio.

***

Ah, te ne fuggi!

Ah, te ne fuggi proprio nell’istante
In cui avevi ormai raggiunto la tua miglior definizione
Ah, cara amica che tu non voglia credere
Alle domande della stella appena amputata
Che inumidisce le sue punte in altra nemica stella.

Ah, se potessi essere certo che all’ora del bagno
Quando nella medesima acqua discorsiva
Si bagnano il paesaggio immobile e i più fini animali:
Antilopi, serpenti dal passo breve, evaporato
Sembrano tra i sogni sollevare tranquilli
I capelli più lunghi e l’acqua del ricordo.
Amica se ci avessi lasciato
Nel marmo puro di tutti gli addii
La statua che ci avrebbe accompagnato
Ora che il vento, il vento burlone
Qual gatto si distende
Perché lo definiamo.

***

Minerva definisce il mare

Estrae Prosepina il fiore
Dell’infernale mobile radice
E il granchio seppellito alfin s’innalza
Alla grandezza ammirata del pistillo.
Cinge Minerva dispensatrice
Imbruna e confonde il mare.

Il granchio porta una corona.

Battente spuma, anemone
Sviscera l’orologio della notte
La pinna pettorale del nuotatore Ida.
Il suo petto, delfino oltredorato,
Coltello dell’aurora.
Saltano i pesci ciechi della grotta
Ritorcono, dissimulano, affrettano
I comandi dorati della dea
Colomba emanatrice.
Tra le colonne avvolte dalle alghe
Serpenti, i nascondigli delle aringhe
Socchiudono le labbra biforcute
Dentro i fiori remando i lor contorni
E’ lo specchio che serra il domino
Inciso nella porta cavernosa.
È un albero il suo lampo
Nella notte, nel suo sguardo
È il ragno azzurro che va disegnando
Le stalattiti del proprio tramonto.
Accampano nell’eros conoscente
Il mare che prolunga i suoi agnelli
Di rovine raddoppiate al salubre.
Ed al rintocco di dentati pesci,
Ecco il granchio che porta la corona.
Caduceo di serpi e di verzura
Il mare fronteggia lo specchio,
La sua lotta silente di riflessi
Che disdegna ogni oltraggio
Del nuotator gettato alla marina
Per macinare migliore farina.
Gettando il volto nell’acqua dello specchio
Va interrogando gli staffilati
Trilli del colibrì e il balenottero.
Il dito e il dado
Puntellano il caso
L’eternità nel suo gocciolìo
Il falso tremito del murice secato.
Il mascheron della Minerva
Il grandinare
Delle rovine del suo corinzio
Balbettare,
Ingannano il sale che brucia
Le viscere del mare.

Il ballerino si estende con il fiore
Freddo nelle fauci del pesce
Tra le rocce si estende
Per non giungere al mare.

È rotto il mascheron della Minerva
Non ora la piana di carezze della fronte
E il casco che ricopre le uova della tartaruga.
Saliva sopra il fico della danza,
Esteso il ballerino, in fior riassunto,
Il mare non lo poté toccare,
Tagliato il fuoco per mano dello specchio.
Senza invocarti, maschera colpita di Minerva,
Continua a distribuire agnelli di schiuma.
Scalinata tra il fiore e lo specchio
Il ragno che spalanca l’albero della notte,
Non poté giungere al mare.

Ecco il granchio che porta una corona.

***

La foglia caduta ammiro

La foglia caduta ammiro
Ché nel tuo oblìo decresce
La qualità del sospiro
Fermo che a voce si mesce.

E l’ombra del tuo ritiro
A notte non appartiene
Se insisto e quell’ombra ammiro
La tua assenza crescente non viene

Del vuoto la sostanza
Solo trova il suo concerto
Lo svelarsi elaborando

Presagio di rigido corpo
O dea perduta nel cielo
Che col mio corpo perseguo.

***

Corpo nudo

Corpo nudo nella barca
Un pesce vi dorme accanto
Che fuggito vuota il corpo
D’un nuovo punto d’argento.

Tra quel punto ed il fogliame
Estatica barca esala.
Mi trema la brezza al collo
L’uccello svaporava.

Il magnete tra le foglie
Tesse duplice corona.
Soltanto un ramo caduto
Illesa coglie la barca
Quell’albero che ricorda
Sogno da serpe ad ombra.


Gonzalo Arango




Picnic nell'aldilá



Quella notte mi invitarono a un picnic sulla riva del mare.

Appoggiato a un tronco con il cervello pieno di fumo, la logica divenne cenere nel sacro rogo.

Di colpo sentii che la pelle mi abbandonava con una dolcezza ronzante e si incendiava a stella, lassù, lontano.

Ero affascinato dal prodigio.

Per le mie vene non scorreva sangue, bensí un etere serafico che mi alleviava dalla pesantezza del corpo.

Chiusi i circuiti del pensiero, volavo all'infinito dentro me stesso. Verso Dio.

Un certo momento mi assalí un terrore relativo alla mia vita. Sentii che trasmigravo...

Un torbido sentimento di colpa pesava sulla mia anima per osare entrare negli enigmi.

Presentii, terrorizzato, che stava per succedere la stessa cosa della mia pelle: una forza brusca, soprannaturale, mi avrebbe strappato da me stesso per lanciarmi nel vuoto.

Con una paura impotente mi afferrai al tronco per evitare la caduta, ma il legno cominció a scricchiolare disintregrandosi, in un divorzio dal mio corpo, come se la materia mi avesse esiliato dalla sua realtá.

Assolutamente indifeso evocai ció che amavo di piú, la cosa piú bella che avrebbe potuto trattenermi da questo lato del mondo: quella donna e la perturbante promessa della sua tenerezza sessuale.

Tutto inutile.

Nulla poteva raggiungermi nella vertigine di quell'abisso in cui giravo lontano da ogni possibilitá umana.

Naufrago del cielo, perduto nel turbine delle costellazioni, scintilla di nulla nell'eternitá, ero trascinato da quella marea di terrore verso un regno di luce spettrale, alle illimitate colline del non-essere...

Si non mi ricordo male, questo giallore mistico imitava un cielo religioso in cui la luce era beatitudine.

Sicuramente ero morto sulla terra. Questa evidenza si impose con una tale chiarezza che non aveva senso ribellarmi.Consentii alla mia morte e nemmeno potevo ricordarmi come corpo.

Eccomi qua spogliato della materia, vagare senza memoria in cieli vuoti.

Mio Dio, che deserti! Pure solitudini... luce senza limit...senza distanze... ove mi sento perduto.

Non vedo Dio e non ho speranza di incontrarlo.

Mi metto a cercare disperatamente quella donna che amai sulla terra da cui una volta di piú mi sarebbe giunta la salvezza.

Questa illusione gravita in me come un destino

Percorro tutti gli stadi dell'eternitá: nulla, nessuna presenza, nessun segno. L'umano è assente dal mondo.

O Dei, dve nascondete i mortali?

L'idea che dovró vivere tutta l'eternitá in questa assenza, duole alla mia anima come un esilio.

Sento la tenera e terribile nostalgia della terra, la sete di succhi, il giubilo del rum intorno al fuoco, una cascata in montagna che lava una donna nuda, la mia donna in un campo di girasoli, una amaca sotto le stelle di Tolù. Odore di campi arati, fiui di miele, di rugiada, oh sì!, la terra, regno trasparente di luce di pienezza!

Quando ritornai i pellicani giocavano sulle onde dell'immenso loto, bolle di sole nell'aria.

La terra era un sogno che risvegliava dall'incubo di Dio, e era verde.

La benedissi



***



Poema tristissimo



Se muoio

Ti invito al sole

Anima mia

E non dimenticare

Di portare con te

Il tuo corpo



Soffriremo felici

E insieme saremo

Carne di luce

Nella memoria di Dio



E se Dio non esiste

Fa lo stesso



Ci ricorderemo del sole

Che ci piaceva tanto

A Calì in Colombia

Nuovo Mondo. Ricordi?



Gonzalo Arango

trad genseki





mercoledì, ottobre 29, 2014

I Panero


La vita è una favola di streghe

Ê bello perdere quando si avvicinano gli uomini
Bella è la rovina e la fine
Bella la morte piena di escrementi
Nell'azzurro cemento
Ove persi la vita.

*

Ah! Colomba trionfante
Che voli sugli escrementi
Invocando qual nome tremante
Che invocasse il dolce papavero del cemento
Alla cui luce si spegne questo concento.

*

Non sapendo se esisto
Non sapendo
Da solo non sapendo, circondato da fiori pallidi
Che abitano il cemento
E la colomba dorata che investo
Senza poter sapere se esisto.

*

Bello è l'uccello azzurro della rovina
Dove una regina guarda nelo specchio
E Biancaneve si domanda se esiste.

*

Immobile come la morte è il poema
E scivola l'uccello fonema
Come un rettile sul mio nome
Ah! Crudele uccello della rovina
Che dietro l'arbor vago la mano situa
Sapendo per le foglie che io esisto.

*

Oh dio padre della morte
Uccel di rovina
Fior del disastro
Albero che nasce in escremento
Escremento di vita e suo narcotico
Dove albero maestro
Brilla la bandiera della rovina
Bandiera di vecchiezza e di rovina.

*

Ah! Colomba che nasci sulla rovina
Che nella botte inciampi della rovina
Nella botte dell'odio e del fallimento
Dive come un uccello
Albeggia rovina.

*

Ah! Uccello dell'odio
Uccello senza becco della morte
Uccello che nasci, non dalla fronte di Zeus
Ma dal peggior mostro
Il disastro.

*

Viva la sconfitta, viva il brillare oscuro della rovina
Che assalti il lettore in vicoletti oscuri
Dove Ecate brilla all'incrocio dei sentieri
Ah! Circe traditrice che saccheggi Sicilia
Le strappi il nome per poi battezzarla
Con quello dell'uccelo e di rovina.

*

Della poesia solo restano le voci
Che nel letto oscuro insultano e sbeffeggiano
Questo vecchio pazzo che sono
Chje adora l'uccello di rovina
Ah! Tremito dell'albero sotto la grandine
Che colpisce la mia testa
Mi disfa il volto
Scrivendo nel poema
Il bianco seme del nulla.

*

La firma del disastro e della rovina
Che conduce i morti
Oscura epifania
Abbraccio del poema che abbraccia il nulla
Dell'inferno peggiore dell'orrore e del disastro.

*

Lieve è il vento del poema
Come gli uccelli lontani che Rudel cantava
Tutti leggono nella chioma di Pandora
Il torbido leone senza la criniera
Con se stesso nel periglio del nulla
Dove senza nessuno
Ancora galleggia una chioma

*

L'uccello della voce, ah l'uccello della voce
Che nell'inverno brandisci ancor la chioma
Scalpata da un Sioux a bordo pagina
Dove come un albero galleggiano i miei capelli
Porati via da vento di rovina.

*

Leopoldo Maria Panero
trad. genseki

Teopoesia

Ogni poesia (in modo molto diretto o molto indiretto cerca Dio, ... questa ricerca, peró contiene in sé il fallimento. Trovato (e perduto) ad ogni istante, scritto (e cancellato) ad ogni istante, il nome di Dio è contenuto nella poesia di ogni autentico poeta (...) ad ogni istante il poeta decifra il nome di Dio e ad ogni istante questo nome a lui si occulta.

Dámaso Alonso

Dopo l'amore

Con il tamburello delle mie ossa
Accompagnavo il ritmo del tuo cuore
Erano così stanchi i mei occhi
Di scorrere nell'alveo della vista!
La tua pelle abbandonata tra il basilico
Era quanto restava dell'abbraccio
La vecchiaia era giunta con l'ombra
del temporale
Mi sarei ridestato troppo tardi
All'ombra di me stesso.



martedì, ottobre 28, 2014

La senda bonita


Poesie di Arcónceli

Ad Arcónceli una foresta in orazione
Rosari in fiamme -
Ai calessi aggiogati Angeli Custodi
Mi trascinavano lassú
Fino alla fossa battesimale
Scuotevo le mie ossa
Come un impiccato le nacchere
Ero fresco come la notte
Come il fango del cimitero
Nudo e crivellato aspettavo
La sua radiazione
Il suo dono per me
Al tramonto latrati canini
Ricamavano la luna di delizia

*

Il balcone come una preghiera
Come il seno di una vestale
Si sporgeva sul mistero sacramentale del giardino
Sul boschetto degli stami
Sul prato di squame;
Respiravo col naso
Nelle mani stringevo il Rosario:
Il Terzo Mistero Doloroso?
La mia corona di spine
Erano le tue ossa
Le tue unghie i miei fagelli
Lividi
Mi ero lavato da tempo
Le mani con il vino
Col vomito della speranza
Trafitto da una squadrglia di scarabei
Mi sollevavo fino lla tua croce

*

Il mio cuore era pronto a fiorire
Ma tu tardavi ancora
Forse eri soltanto una favola infantile
Un vecchio leone addormentato
In una tenda beduina
Forse non accoglievi che guerrieri
Capaci di usare la disperazione
Come scudo, come ascia bipenne
Il mio cuore era un ramo di mele
Fiorito troppo tardi
Le tue api raccoglievano altrove il polline
Per il miele delle tue ferite

*

genseki

lunedì, ottobre 27, 2014

Cristo


El arbol encarnado en leño humano

L. Panero

Leopoldo Panero


Epitaffio

Ê morto
Crivellato dai baci dei suoi figli,
Assolto dagli occhi piú dolcemente celesti
E il cuore piú tranquillo che in altri giorni,
Il poeta Leopoldo Panero,
Che nacque nella cittá di Astorga
E maturó la vita nel silenzio di una quercia.
Molto amó,
Bevve molto e ora,
Gli occhi bendati,
Attende la resurrezione della carne
Qui, sotto la pietra.

Leopoldo Panero (1909 – 1962)
Trad. genseki

Glossa per un epitaffio

Lettera al Padre

And Fish catcth regeneration
Samuel Butler: " Pescator di morti"

Solo tu de io, e irrimediabilmente
Uniti dalla morte torturati ancora da
Fantasmi che lasciamo per pigrizia
Che ci graffino il corpo e lottino per le spoglie
Del sudario, ma entrambi morti, e sicuri
Della nostra morte; lasciando che lo spettro prosegua in vano
Con il torbido affare dei dati: muto,
Il corpo, questo impostore nel ritratto, e tutti e due seguendo
Quest'altro gioco dell'anima che non risponde a nulla,
Che lotta con la sua ombra nello specchio – soli,
Caduti di fronte a lui vedendo
Dietro al cristallo la vita come pioggia, dietro il cristallo stupefatti
Dagli altri, da quelli Vous êtes combien che ci sopravvivono
E dicono che ci conoscono, e cichiamano
Con il nostro nome grottesco, ah! Il sordido il
Viscoso tempio dell'umano.
E tuttavia
Solo noi due, e uniti dal freddo
Che appena sfiora cappa brillante
Solo noi due in questa pausa
Eterna del tempo che non sa nulla non vuole, ma dura
Come la pietra, solo noi due, e ci amiamo
Sul letto della pausa, come si amano
I morti
“Amó”, dicesti, autorizzato dalla morte
Perché sapevi di te come terza persona
“Bevve”, dicesti, perché Dio stava (Pound dixit)
Nel tuo bicchiere di whisky
“Amó, bevve” dicesti, ma adesso aspetta
Aspetta? E infatti la resurrezione
Da un cristallo invalido ti avvisa
Che con armi la nostra morte fiorisce
Per te che solo
Sapevi della morte. Qui
Sotto o sopra?
Di questa pietra
Tu che dorasti la natura soprannaturale e il
Dolore soprannaturale degli edifici nudi
In quale prospettiva
  • Dimmi – accogliere la morte?
    Sul tavolo di anatomia
Tu che danzasti
Impazzito sulla piazza deserta
Incampando
Ferendoti le mani al trapezio del silenzio
In piedi contro le foglie morte che
Si attaccano al tuo corpo e contro l'edera che tappava
Ossessivamente la tua bocca gonfia di ubriaco,
Danzi, danzasti
Senza spazio, caduto, ma
Non voglio errare nella mitologia
Di questo nome del padre che manca a tutti noi
Perché forse siamo soltanto fratelli di un'invasione dell'impossibile
E i tuoi passi ripetono l'eco dei miei in un lungo
Corridoio dove
Retrocedo infaticabile, senza
Mai muovermi
Ah! i fratelli, i fratelli invisibili che fioriscono,
Nel Terrore! Ah! I fretelli, i fratelli che si difondono
Inutilmente della luc del mondo con le mani,
Che si proteggono dal mondo per Paura, e coltivano nell'ombra
Del loro orto nefasto la minaccia dell'eterno, nel
Mondo malvagio dei vivi Ah! I frateli,
E l'uccello,
L'uccello che vola sul mondo in fiamme, dicendo soltanto
Ai mortali che si agitano al di sotto, dicendo
Soltanto: ABISSO, ABISSO!
Abisso, si, tiepida tana
Del nostro amore di fratelli, padre
Ma tanto soli
Tanto soli! Fantasmi che rendono visibile l'edera
                                -Come ederamerlino come bimbatestatagliata come
Donnapipistrello la bambina che giá è albero -
Crescono foglie
Nella foro, e un fiorire ti strappa
Dalle labbra cannibali di nostra madre Morte, madre
Della nostra preghiera
Fioriscono i morti fioriscono
Uniti forse dal sudore gelato
Morto di molte teste affamate dei vivi
Ti aspettiamo uccello, uccello nato
Dalla testa che esplose al crepuscolo
Uccello disegnato nella pietra e pieno
Di quanta dolcezza è possibile, del suo sapore
Alieno che è piú della vita, della sua crudeltá
Che è piú della vita
Ira
Della pietra, ira che la realtá insulta,
Che bastona
Nella capanna pigra della menzogna con verbi
Che non sono, risplendono, ira
Suprema dei mondi!
(Ti aspettiamo
Sulla riva sottile di ció che cade, sul prato
Notturno che attraversano lenti
Gli elefanti
Percepite il freddo
La
Cospirazione delle alghe
Gelatina, squama mano
Che spunta dalla tomba
Mani che sorgono dalla terra come steli
Solchi arati dalla morte,
Teste di impiccati che fioriscono.
Di decapitati che diaolgano
Alla luce decrescente delle candele
Chi ci dará la rima
La musica, il suono che spezza la campana
Della asfissia, i cristallo opaco
Del possibile, la musica del bacio!
Di questo bacio, finale, padre, in cui spariscano
In un soffio le nostre ombre, per
Afferrati da questo metro impossibile e feroce, restiamo
A salvo dagli uomini per sempre,
Solo io e te, amata mia,
Qui, sotto questa pietra.

Leopoldo Maria Panero

Da: “Poemas del Manicomio de Mondragón”
Trad. genseki

venerdì, ottobre 24, 2014

Fragmentos de "El Desencanto" de Jaima Chávarri

Max Jacob


Francis Poulenc | Le Bal Masqué Chant Profane sur des poèmes de Max Jacob

Max Jacob

Poesie scelte
trad. genseki

Malvina

Eccone una che, spero, vi spaventi
La signorina Malvina non molla il suo ventaglio
Se lo tiene ben stretto
Fin da quando ella è morta.
I guanti grigio perla sono stellati d’oro
E come un cavatappi
In un valzer gitano
Viene a morir d’amore
Accanto alla tua soglia
Proprio vicino al sasso
Dove posi le canne.
Mettiamo che sia morta, diciamo,
Di diabete
Morta di quel profumo
Che aveva appeso al collo.
Oh che onesto animale sì casto e poco folle
Golosa senza gusto
Avea sangue pesante
Di docente di lettere di ruolo
Era con il cilindro che le facean la corte.
Ella avrebbe gradito le maniere degli ussari!..
Fantasma di Malvina che Iddio ti benedica!

***

La dama cieca

La Dama cieca dagli occhi sanguinanti sceglie le sue parole
E non parla a nessuno dei suoi mali.
Ha capelli muschiosi,
Gioielli in pietra rossa
La Dama grassa e cieca cui sanguinano gli occhi
Scrive cortesi lettere con margini e interlinea.
Le pieghe della felpa le costan molta cura
Ma si sforza di fare qualche cosa di più.
Non parla del cognato che qui non è stimato,
Perché beve e fa bere anche la Dama cieca
Che ride, allora ride con un sordo muggito.

***

Riparatore invalido di vecchi autoveicoli
Ahimè l’anacoreta è tornato al suo nido.
Sangue della mia barba, son vecchio per Parigi
L’angolo delle case m’entra nelle caviglie.
Il mio gilet a quadretti, si dice, ha un’aria etrusca,
Il cappello marrone, non s’adatta ai miei stracci.
Avviso, è un volantino che ho posto alla mia porta:
Questa vecchia baracca puzza di capra morta.

***

A una Santa nel giorno della sua festa

Santa, santa, quando m’opprime
La tentazion del peccato
Mostratemi ch’è un delitto
Solo averlo pensato.
E nel giorno beato
Tutto a voi dedicato
Il Signore pregate
Che da sconce passioni
Purifichi il mio cuore.
Di guerra sulla terra
Che non sia più questione
Goda la Francia intera
Di vostra protezione.
Pregate che comprendano
Gli uomini tutti quanti
Il potere del sangue del nostro Salvatore
E che sotto il suo giogo
Tutti pieghino lieti.
Poiché siam tutti figli
Di quell’Unico padre
Con una sola fede
Fratelli obbediremo
Al Dio di questa legge.
Sono il Diavolo e la sua banda
Lascia che ti risponda
Pecca a destra, pecca a manca
Girati come vuoi
Tu abiti nella mia stanza
Esser di Dio non puoi.

***

Conchiglie d’ali! O foglie morte
Labbra dischiuse d’insetti rossi,
Non sono foglie quelle alla soglia
Ma sono insetti color del mogano
Mi parleranno? S’involeranno?
O sopra i coppi vorran salire?
Piovve ripiovve intorno al presbiterio
Attendo e intendo passi di cavalieri.
Attendo e intendo gracidar ranocchie
Attendo intendo il sibilo dei rospi
Salimmo infine sulle foglie di zucca
Attendo e intendo gocciolare d’acque.

***

Marina a Roscof

fLa palma nana vieta lancia in resta
Al giorno chiaro di sfiorare i peri.
Chi dunque ha riso nella sera offesa?
Hanno cantato. Saranno gli ebanisti.
O vita! O morte! O terra di mistero
Che cosa celi che svelano le sere?
Di che tesori sei tu tesoriera?
O vita! O morte! Dove son le cisterne?
Hanno cantato! Intorno all’organino
Son le coriste di canto gregoriano
Che ogni sera in mezzo al campo d’orzo
Fondono l’anima col poema cristiano.
L’una col libro e l’altra col pedale.
Attendo! Intendo la pianta che mi parla.
Lo sguardo attendo dei fiori morituri.
Petalo! Attendo un occhio sulla perla
Che nessun’ombra potrà mai incupire.

***

Il cielo e il mare color della lavagna
Quando lo straccio vi cancella il gesso!
C’è un battelliere sulla riva opposta?
Verso il piccolo Hotel del promontorio.
Nera e profonda è l’acqua,
Alti e lisci gli scogli non offrono riparo,
La luce smorza l’abat-jour di nuvole
La terra ondeggia … che cosa succede
Nelle scodelle come marezzate?
Cosa s’aggira agli angoli deserti
“Comprendo ciò che dite quando siete silente”
Cupa una cappa! Una garitta verde
Presto la notte: sarà dura in mare.

***

Il Contadino

Sotto gli olmi più vecchi di mio padre
Sotto gli olmi più vecchi di mio nonno
Sotto gli olmi di Mont Frugy d’Odet.
Sotto i castagni delle rive d’Odet
Ove son nato oggi ho visto passare
Il contadinello ammalato.
No, non guardarmi come se andassi a morire
Tu sei me stesso, sempre ti ho conosciuto
Un bimbo, un bimbo del cielo o dell’inferno?
Sorridi
Ti riconoscerò dal tuo sorriso.

***

S’apre la porta! Parlano!
Non c’è nessuno! Io sento che c’è qualcuno.
Accendo la lampada e s’anima il muro;
I fiori di carta sanguinano dalle ali
Ogni animale sanguina dai petali.
Tutto s’anima e avanza fino al centro
Del tappeto dove è un cono il crepuscolo
Del caminetto: In quale stato mi troverà
Domani il mio domestico! A tentoni,
Nell’ombra trovano le mie dita l’angolo del letto,
O letto, mia salvezza se non mi porta via!
Nessuno troverà quell’uomo coricato
Al suo posto c’è una bestia
Una bestia viscosa.

***

La Guerra


I viali esterni, di notte, sono pieni di neve; i banditi sono soldati; mi attaccano con sagole e risate, mi spogliano: fuggo per ricadere in un altro isolato. E’ il cortile di una caserma, o quello di una locanda? Quante sciabole! I lancieri! Nevica! Mi pungono con una siringa: è veleno, per uccidermi. Un cranio di crespo velato mi morde un dito. Vaghi riflessi proiettano sulla neve la luce della mia morte.

***

Un cappello di paglia dall’Italia


Là dove Algeri è un presagio di Costantinopoli, le spalline d’oro non furono altro che rami d’acacia e viceversa. Vanno di moda grappoli d’uva di celluloide, le signore li appendono dappertutto a mo’ di gioielli. Un cavallo che mangiò gli orecchini d’una delle mie amanti è morto avvelenato, il carminio del suo muso e la fucsina del pampino si mescolarono in veleno mortale.

***

Il corno chiama come una campana
Come un colore nelle foreste.
Corno lontano d’albero a roccia.
Ora che parte la caccia al Liocorno
Esci con quelli che ti sono amici.
Sella e cavallo mostrano il sentiero
Sella e cavallo legati ad un albero.
Siedono a tavola fuor della magione
Mangiano gamberi con la maionese.
Vieni! All’appello dei tuoi cari amici.
Udivo grida venire dalla casa
Mi ritrovai seduto tra brillanti bottiglie
Quando mi accorsi che non conoscevo nessuno
E i lamenti di dolore provenienti dalla casa
Si mescolavano ai discorsi svagati, alle canzoni.
Lontano il gallo come scoppio di risa
L’angelo mio custode mi sussurrò all’orecchio:
- Sta in guardia! Troppo tardi che la terra tremava
Sotto di me, Signore Iddio soccorso!

***

Agonia

Mio Dio son tanto stanco di non aver speranza
Di rotolar la botte della mia decadenza
Senza giammai riuscire a rinunziare al mondo.
Porto Satana in me come un intermediario,
Il mio blasone intacco quando scuoto le briglie,
Rivolgo nella notte le mie visioni ai morti,
Con il cranio percoto le rocce dell’inferno
Le coltri del mio letto son di lana di ferro.
Sovente nel mio sonno la stessa isola elettrica
Marchia con il coltello i nomi patronimici
Sulla mia pelle. Membra, pacchi d’anguille
Che con un gaio ghigno i diavoli spidocchiano.

***

Viaggio

Strada di notte, notte della strada! Luna
Sul lago, lago nei tuoi occhi. Carrozza
Che rapisce il nostro viaggio di notte
Occhi di viaggio sono ora i tuoi occhi
Occhi di viaggio di convalescenti. Quando
Il postiglione cesserà di cantare
Soltanto allora ti dirò il mio pensiero
E’ una questione di geologia architettonica
Sull’infinito dei monti e di lor forme, C’era
Sulla coperta ad artigli una tazza di
Porcellana ove la luna formava un punto. Nel
Mezzo sole della carrozza – il postiglione
Canta – tu canta, o postiglione – credevo che la luna
Fosse la tazza, e la coperta ad artigli fosse
Le montagne, e che non fossimo più sulla
Terra. Non c’è più luna! O notte delle strade!
O strada delle notti: sono i tuoi occhi occhi di
Mare ed io non ti conosco. Così
Procedevamo con tutta la nostra indulgenza verso
Un paese che non è lontano e che non volevo
Conoscere e ove una certa angoscia
Mi mostra che mi conduce il postiglione
Cantando. Ora è il momento della paura!

***

Amore del prossimo

Qualcuno ha visto il rospo attraversar la strada?
Non è che un omettino: grande come una bambola.
Striscia sulle ginocchia: fors
forse per la vergogna.
Ma no, soffre di artrite e trascina una gamba,
Dove va zoppicando? Vien fuori dalla fogna,
Il povero pagliaccio.
Nessuno che abbia scorto il rospo per la strada.
Un tempo nessuno mi notava per strada,
Si beffano ora i fanciulli della mia stella gialla.
Com’è felice il rospo… Senza la stella gialla.

***


Non ritorneranno più

Quando ritorneranno i becchini alla fossa di Ofelia? Ofelia ancor non giace nella sua tomba immortale; sono i bechini che ci finiranno a un cenno del caval bianco. E il bianco destriero si reca tutti i giorni a brucare quei sassi. E’ il cavallo bianco della locanda del cavallo bianco, proprio davanti alla tomba. La tomba è una finestra che s’apre sul mistero.

***

Jabès su Max Jacob

Penso che scrivere sia anche scrivere in modo piatto. Credo che nonè necessario cercare di allontanare la trivialitá da un testo a qualunque prezzo. La trivialitá è un mezzo. Partendo da essa, possiamo andare piú a fondo. Altrimenti come facciamo a sapere che stiamo apporfondendo? La trivialitá è la superficie, una superficie che dobbiamo esplorare, per poi frantumarla.
Max Jacob mi rese molto sensibile a questo tipo di problemi. Quando gli lasciavo i miei testi a volte mi diceva – troppo coinciso – altre volte – troppo diluito -, o – troppo lirico -. - Legga i classici per il pudore -, mi scriveva, o – troppo laconico – legga Chateaubriand per la frase -solo molto piú tardi compresi che scrive voleva dire essere allo stesso tempo coinciso e profuso e anche scrivere a volte in modo piatto: la piattezza serve da supporto all'imagine, al pensiero e fa sí che risaltino.

**

Max Jacob detestava il caos. Soleva dire che la forma di una poesia debe essere perfetta proprio come un uovo e che sebbene all'interno del testo debe essere vigente una libertá totale, il testo stesso debe trovare imperativamente la struttura che gli è propria. “Quando un cantante ha una voce ben rodata, puó divertirsi facendo gorgheggi” Scrisse nel 1916 nella prefazione del “Cornet à dés”.

**

Il fatto che i surrealisti non abbiano mai riconosciuto Max Jacob come uno dei loro predecessori si debe alla sua conversione al cattolicesimo e anche al fatto, che a differenza di oro, egli non si sentí mai un discendente di Rimbaud e Lautréamont.

Frammenti da: Du désert au Livre intervista di E. Jabès con Marcel Cohen

Trad. genseki

mercoledì, ottobre 22, 2014

Poesie di Arconceli

Arconceli

Dirotta lavava la pioggia
L'albero sciupato dei ricordi
Betulla o vertiginoso ontano
Da radici di fango
Fino alla diaspora delle serpi
Mi lasciavo ascoltare
Come un sacco di pelle
Il lamento delle sue stigmate
Solo i diamanti ormai
Potevano bruciare il cielo
Ad Arconceli mi dissanguavo sul muschio
Ogni goccia di sangue partoriva un paradiso

*

Nella foresta dei suoni sfinito
Mi svuotavo degli ultima attimi
Di senso
Allora sí che brillavano le sillabe
Come brillavano!
Altre libertá si forgiavano in Arconceli
Necessarie come le fragole
Alla perfezione della quercia
Fragorosa la danza del faggio
La danzavano i fantasmi
Dei conigli dei rabbini
Degli ultimi daini lebbrosi.

*

Il sipario della nebbia si alternava
Era un sottobosco di bottiglie vuote
L'ebrezza si sfregava
Alle cortecce piú rugose
Fu quando ci congedammo dalla nostra pelle
Tutte le poesie erano morte
Come le squame iridate dell'autunno.

genseki

Palinsesto

"Er resplan la flor enversa"
Lo disse Raimbaut d'Aurenga
Convertendo stracci in fischi
E fischiando al diavolo: "Tiger burning in the night"
Qual mano immortale, quale occhio
Poté creare la tua spaventosa simmetria
Lo disse Blake mentre i suoi piedi ardevano
Nel fuoco segreto del nulla dove abitano
Pulci e insetti piú viscosi della vita,
O tigre, tigre che ardendo con forza
Ci riscatti dalla vita.

*

Palinsesto II

O donna che s'oblía
Amor de loing
Lanquan li jorn son lonc en mai
O corpo senza vita del poema
Quando son lunghi i giorno di maggio
Perché non vi é altro coraggio
Che quello di scrivere di fronte al nulla

*

Oh! concerto di tenebre
Quando gli azels cantano sulla tomba
Del poema
Cuore del silenzio
Cuore del nulla
E scrivere il poema
È come sorridere su una vergine morta
Laddove non piango
E il poema è come una vergine morta
Come il silenzio della schiuma,
Come la bava del poema
Davanti a una vergine morta.

Leopoldo Maria Panero
Trad genseki

lunedì, ottobre 20, 2014

Prisionero de si mismo

"Voy a intentar narrar cómo pensaba que me podría relacionar en la cárcel. Empezaré por cómo me imaginaba yo que era una población de delincuentes. No había tenido nunca ni a ningún nivel, ni tan sólo una hora o un minuto, ningún contacto con la cárcel.
Como bien se sabe, desde que la Policía Judicial le da a uno la bienvenida, el trato es a base de golpes. Además, son tales las técnicas de opresión en los países tercermundistas y subdesarrollados que uno acaba por firmar cualquier acto que no cometió.
A partir de ahí, uno se va volviendo o no paranoico porque no se trata de paranoia sino de realidad. ¿Quién no tiene núcleos internos de contenido paranoico sin tocar?. Yo creo que todo el mundo, y aquella realidad los potencia aún más. Entonces, cuando uno cae en manos de ellos, empieza el caos. Un caos en el cual la amenaza constante y presente es la de la muerte.
Por lo que uno oye, ve, por lo que te hacen, por tus compañeros y la gente que está ahí no se trata de muerte psicológica sino de muerte real, de la muerte en vida. Después de pasar por las dependencias judiciales la llegada al Penal es fácil. Cuando supe que me tocaba una cárcel de 1.300 personas, me figuraba, deducía, (no por necesidad de investigar sino de saber) que la estructura de un delincuente es la de una persona rebelde, fóbica al miedo y por lo tanto enmascarada de violencia y agresión como mero mecanismo de subsistencía.
En un ambiente como aquel no ser violento propiciaría que me sometieran no porque me falte capacidad para ser agresivo y violento sino porque no me convencía aquello de pagar con la misma moneda. Era gente de un nivel cultural muy bajo, sin ningún conocimiento personal, con esa costumbre tan propia de los penales de querer dirigir a los demás, de vivir a través del otro dándole seguridad, protegiéndole.
Dentro de la cárcel, dentro de los dormitorios, existe un inframundo independiente de los vigilantes y de la dirección. Aquellas normas y valores de los delincuentes estriban en el reconocimiento del que más robó, asesinó o violó. Al peor de todos se le considera el jefe mayor.
Yo, al no tener ninguna de esas conductas delictivas de la cual presumir delante de ellos, sino todo al contrario, fantaseaba que el orden, el silencio y el hablar bien podía ser una provocación.
Me angustiaba el cómo dar el primer paso, no esperar a que se acercaran sino ir yo hacia ellos. No sabía quiénes eran mis compañeros de celda. El robo es algo corriente en la cárcel. Por mi propia patología, soy exagerado en todo. La austeridad no es mi fuerte, y me imaginaba que esto podría representar una mayor provocación. Lo que sí tenía claro era que no respondería a ninguna agresión. Así podría dar pie a que no siguieran manteniendo el mismo tipo de diálogo. Mi edificio agraciada o desgraciadamente era el peor, el más ruinoso, violento y con mayor nivel de drogadicción. Tuve la suerte o la desgracia de caer allí.
Había otra alternativa que nunca quise coger: consistía en acercarme a la dirección para que me dieran la oportunidad de trabajar en algo. En estosmomentos, me sentía muy mal internamente por la pérdida de la libertad.
El medio ambiente era muy agresivo, muy hostil.
Los compañeros de edificio son invasivos, intentan tomarle el pelo a uno. No se quieren sentir menos que uno, y entoncestodo nuevo tiene que pasar por la novatada, y la novatada es explotarlo a uno. Lo primero que hice no conscientemente, por lo menos no creo que lo haya tenido calculado fue no perder el centro de atención sobre mí, mantenerme lo más posible alerta; no como vigía paranoide sino atento a mis respuestas, a mis palabras,al contenido de mis palabras, atento a mi respiración, atento, atento a mí.
Al estar tan ocupado en aquello, no me daba tiempo de ver el exterior, ponerme a analizar, a cuestionar a los demás. Me era más productivo estar conmigo, más sano que buscar disculpas fuera: las había y en abundancia si las quería encontrar, porque en un ambiente como éste existen todos los factores de provocación. Opté por no perder mi centro de gravedad, y cuando digo gravedad me refiero al presente, al estar consciente. Un estar consciente de la cárcel, de no ponerme la etiqueta de superioridad económica, intelectual o psicológica, sino de ser sencillamente uno más.
Era posible e imposible serlo porque no teníamos nada en común. Lo único que compartíamos era la pérdida de la libertad. Yo asumía el por qué estaba aquí y veía que en el fondo ninguno de ellos aceptaba
la cárcel en el sentido en que no se responsabilizaban de los actos que provocaron el ingreso en ella. Veía en las manifestaciones de destrucción de la institución, la misma rebeldía, y en el reclamo y en la demanda la
no-aceptación de haber delinquido.
Mi situación era ir limpiándome lenta y claramente porque directa o indirectamente yo había optado por estar aquí. Podría disculpar la forma y la situación en que ocurrió pero era muy consciente de haber decidido estar aquí.
Eso me tranquilizaba, me daba la posibilidad de no estar en el exterior, de no perder el tiempo en el reclamo. Por tantas cosas qué digo, por la agresión a través de la violencia, me era difícil relacionarme con mis compañeros y también con el área de vigilancia.
Me parece evidente que cualquier trabajador se identifique consciente o inconscientemente con el lugar en el que trabaja. Lo que intento decir,es que los custodios (las personas que trabajan en un penal) tienen una
maldad reactiva convertida en bondad, y que tienen los mismos pensamientos y la misma reacción puesta del lado de la pseudo-bondad.
Me costó aceptar que la autoridad nada tenía que ver con losconocimientos intelectuales, económicos o de crecimiento personal. El aceptar la autoridad por la autoridad no era congruente con mi situación pseudo- evolucionada, y que un patán, un ignorante, alguien grosero,violento e inhumano pudiera ejercerla fue todo un trabajo para mí, me confronté con que yo no podía hacer otra cosa que integrar lo que sentía y lo que pensaba. Me descubría constantemente escabulléndome en interpretaciones y justificaciones de lo que me rodeaba. De no haber proseguido con la auto-observación constante, hubiera caído en las tentaciones que se me presentaban y esto es una jungla de tentaciones. Se trataba ante todo de no ponerme en la actitud de desvalorizar a los demás,descalificarles por ignorantes.
Lo primero que hice en este edificio (que ya comenté que era el peor, por rebeldes, por antisociales, por agresivos, por fármaco dependientes, por reincidentes, con una población nada uniforme sino muy diferente en delitos y personalidades), lo primero que hice fue localizar a los líderes, saber quiénes eran los que gritaban más fuerte, los que de una manera u otra llevaban la batuta. No era premeditado, sino que iba percibiendo mis intenciones sobre la marcha. No me costó localizarles ni comunicarme con ellos. Ya sabían porqué yo estaba aquí, ya tenían la información de mi caso por periódicos de mucho escándalo y me creían un pez muy gordo.
Fui acusado de narcosatánico. Me parece que ellos no me la creyeron y pensaron que era parte de una estrategia montada por mí.
Durante mucho tiempo, insistieron en que les contara qué hacía yo con los cadáveres y las magias negras. Cuando les dije la verdad hubo encuentro. Hablé por separado con cada uno de ellos. Siempre he creído que la palabra va a la mente, y que la gente pregunta desde la cabeza y ese preguntar es pura satisfacción narcisista, egocéntrica. Yo intentaba llegarles al corazón, que mis respuestas tuvieran la capacidad suficiente
como para llegar a la esencia de ellos: al corazón.
Contestar con la verdad y que ellos tuvieran el derecho de creerme o no, pues es difícil en el imperio de la mentira que me la creyeran a mí a la primera; Yo sabía que esto lleva tiempo, pero sucede que merecer la confianza es toda una labor: se gana con la actitud, no a través del convencimiento intelectual, que confíen en mí me llevaría mucho tiempo.
Por mi propia seguridad tenía que actuar de inmediato. Estaba atento a no intentar dar un doble mensaje y no despertar fantasías. Era muy consciente de que lo que sembrara se me iba a rebotar. Al saber ellos que
yo era terapeuta me vieron como alguien en quien confiar. Empezaron a hacerme preguntas, a preguntarme sobre su familia, ellos creían que yo era abogado), a consultarme como médico hasta que (y eso me costó mucho trabajo) les logré aclarar que mi trabajo era ser terapeuta: es decirestar en el lugar más adecuado, en el imperio del sufrimiento. Les decía que yo estaba en el lugar idóneo, en el campo más fértil para trabajar. Les solía leer y contar historias a menudo. Les acostumbraba a que se escucharan hablar, a que se dieran cuenta de cómo se traicionaban y se delataban a sí mismos, cómo eran ellos mismos cómplices o traidores en la relación con la policía tanto como con sus compañeros de banda o de cárcel. Les invitaba a que despertaran a que abrieran los ojos, a que vieran qué mal se engañaban a sí mismos.
Me gané su confianza siendo uno de ellos pero sin victimizarme. No quitarme el saco sino dejármelo bien puesto, cosa que les desconcertaba porque veían que yo no negaba mi posición de delincuente.
Ese desconcierto en lugar de provocar en ellos inseguridad e incertidumbre hizo que yo fuera bien recibido. No tenían porqué desconfiar de mí. No tenía ni la conducta ni las características de un delincuente y eso les hacía confiar. Poco a poco, al relacionarme con ellos, iban reflexionando sobre el por qué de su estancia en la cárcel, ¿por qué repetían tanto? ¿por qué provocaban tanto a los custodios y a las áreas? ¿por qué buscaban inconscientemente todas las disculpas posibles para poder seguir siendo retenidos o para seguir siendo castigados?
Hicieron un buen trabajo. Muchos lograban captar cómo se trampeaban a sí mismos en esta aparente lucha intelectual de que lo único que les importaba era su libertad, cuando eso era mentira, porque terminaban haciendo lo imposible un día antes de salir para quedarse.
Era como el síndrome del niño golpeado que termina identificándose con el objeto opresor. Lo cual era ya una perversión. Yo les explicaba que al identificarse con el opresor terminaban negándose a sí mismos.
Tenía que hacerlo con mucha sutileza y claridad para no ser malinterpretado, ya que esto iba aparentemente en contra de su manera de pensar. Les hacía notar que el trabajo es sano y saludable y que el lugar donde vivimos es donde estamos, no donde queremos estar; que es nuestra casa y nosotros la hacemos casa o cárcel. No se podía negar que esto fuera cárcel pero yo no creo que la pérdida de la libertad física sea el valor más grande sino que la cárcel estriba en el impedimento de la libertad de expresión.
La invasión de tanta violencia del exterior, la violencia tan gratuita de mis compañeros, tanta agresión, tanto descontento, tanto resentimiento, para mí eso sí que era cárcel y lo sigue siendo.
Transformar a 1.300 era toda una odisea. Lo único que quería era vivir un poquito más en paz, que pudieran escuchar un poco de música clásica(la que ellos escuchaban no hacía más que reforzar la misma angustia, ansiedad y violencia). Intentaba que a través de la música se pudiera descansar y estar en silencio. El silencio aquí es casi imposible por los mismos niveles de angustia en que se vive, pero se logró bastante.
Hay que cuidarse de esos 1.300. Si te golpean y subes a dirección, te consideran un traidor, entonces no sólo te castigan sino que te rechazan dentro de la población y pierdes su confianza. Hay una ley general abajo: que si eres robado tú tienes que recuperar esa prenda (incluso a golpes) pero no puedes apoyarte ni en los vigilantes ni en la dirección, porque has traicionado a la población, a las normas delincuenciales por decirlo de alguna manera. Es necesario andar con mucho cuidado, lograr establecer buena relación con los líderes, con los compañeros.
Otra cosa que yo necesitaba era mantenerme, no perder la libertad, no disolverme entre todos, no perder mi centro, mi yo, mis ideales, mis pensamientos. La regla de oro para mí era rogarle a Dios que no me volviese duro, que no perdiera la capacidad de sentir, de amar, aunque eran grandes las tentaciones. Yo no quería ser violento, duro, insensible, demandante.
Otra preocupación mía era que mis ojos no perdieran la capacidad de llorar y así lavar mi alma. El precio a pagar por negar el sufrimiento y el dolor era la muerte en vida, por eso no quería endurecerme, convertirme en una piedra, volverme insensible. Sentir que en la mente tenía un mantra (OM NAMA CHIBA YA) fue una gran ayuda, un gran apoyo. Prefería decir Om Nama Chibaya que sentir latigazos, devolver las agresiones o querer aplastar a alguien. Luego, por las tardes, reflexionaba sobre las muchas posibilidades que tiene uno de no hacerse responsable de su situación. Hay cosas que dependen de uno y otras que no, pero sí tenía conciencia de que yo tenía que responsabilizarme porque era el único que podía hacer algo ahí. Este era el lugar más adecuado para hacerme la cárcel más cárcel o hacerme un proceso de crecimiento. El lugar también más difícil para ver de qué tamaño soy, de qué tamaño era yo y cuáles eran mis límites y mis capacidades. Era una revisión general y tenía disculpas de sobra para justificarme pero no se volvería a repetir esa oportunidad para aprender. Darme cuenta de eso fue importante. De otra parte, querer ser uno más era pura pretensión. No tenía nada que ver con mi realidad interna.
Era algo falso, soberbio, pues al no sentirme uno más por mis conocimientos era precisamente como yo podía servir a los demás.Me hubiera podido quedar empachado de lo poco que sabía pero era más útil ayudar a los compañeros y así ayudarme también a mi mismo.
¿A qué conclusión quiero llegar con todo eso? ¿Tenía esta visión de las cosas cuando me internaron? Hay una sola respuesta: que ha sido la cantidad de años de tratamiento terapéutico personal. Vi la inversión, la generosidad de ese proceso, el regalo que ha sido para mí, aunque puede parecer un poco loco decir que los frutos de la terapia fueron la capacidad de estar en la cárcel.
Pero es cierto: gracias a mi proceso, a mis maestros, a mi maestro Claudio Naranjo era capaz de asimilar, de aceptar, de comprender que tenía que pasar por ahí, y hacerlo del modo más limpio y auténtico posible.
Gracias al proceso terapéutico, se generaba el encuentro entre el dolor y la aceptación. Por un lado, estaba inmune a tantas provocaciones que en ese momento no me tocaban, y por otro lado me sentía vulnerable ante tanto sufrimiento. La enfermedad es la incapacidad de aceptar el dolor, el dolor entre humanos. Aunque suena loco decirlo, es bello el trabajo que se puede hacer aquí, el trabajo que se tiene que hacer aquí, por eso cada día siento menos deseos de salir.
La vida es donde uno está y es cierto que para vivir cualquier lugar es bueno. Los obsesivos del movimiento solemos creer que la libertad física es la que nos otorga la capacidad de satisfacemos y de placer. Cuando uno se da cuenta de que eso es así sólo en apariencia, encuentra la paz, la tranquilidad consigo mismo. Con ese eterno ir, escapar de uno, cuesta trabajo dar con el lugar donde uno tiene que anclar. Por lo menos a mí me sucedió que era un descanso muy merecido abdicar, huir de mí, no oponerme.
El segundo paso fue también importante. Me impuse participar en las actividades del centro. Ir a la escuela me daba mucho gusto. Quería hacer todo el recorrido de la escuela. El grado mayor que hay es bachilleres.
Yo no tenía ganas de ir a bachilleres. Tenía ganas de ayudar a hacer un trabajo muy especial. Sentía que aún no era el momento de dar la cara. No me sentía todavía limpio y me apunté a primero de enseñanza primaria. Recordaba que la primera y única oportunidad que tuve de cursar primaria fue cuando era pequeño. En aquel entonces me sentía torpe, tonto, feo, bobo y aterrado por haber sido separado de mi madre. Ahora quería ir a la escuela seguro de mí mismo, sin terror, sin ser forzado. Quería aprender por
voluntad y deseo propio.
Tuve la gran suerte de conocer a esas maestras pedagogas que son a la vez sanas y naturales. Para mí fue un verdadero encuentro con los conocimientos. Me pareció de una gran permisividad el no ponerme trabas
para el aprendizaje. Quería aprender. Tenía ganas de saber. Veía las dificultades que tenía antes con las tablas de multiplicar y recuerdo también los tablazos de mi padre. Las tablas no eran responsables de la fobia que les tenía. Todas las reglas gramaticales iban entrando y colocándose con la facilidad y memorización extraordinarias. También los planetas y la biología. Era tal el hambre de aprender que parecía que se despertara después de cuarenta años. Ahora la libertad de aprender la veo como algo natural en el ser humano, y esa mujer fue el paso siguiente y necesario. Fue cuando empecé a escribir, a leer, a comprender muchísimas cosas. El orden, la autoridad no eran un orden infra-humano sino un orden cósmico, el orden de un sistema necesario para un buen vivir en este planeta, en este país, en la tierra.
Había que estar simplemente atento a no molestar. Era ese orden mismo el que proporcionaba ponerse a su disposición con una buena actitud hacia él para que las cosas sucedieran y sucedieran las buenas cosas.
Ese encuentro fue muy significativo en mi vida aquí, pues donde he sentido mi libertad ha sido en la cárcel. Después de que terminé el año saqué un diez.
Nunca había acudido con tanto gusto a una entrega de diplomas. Con alegría, dispuesto, iba a recibir lo que me había costado lograr por esfuerzo propio y ese esfuerzo era muy gratificante. Tiene su gloria el esfuerzo. El ir a la escuela era para mí ir con alegría. Después, iba a seguir el segundo año de primaria.
Debo decir que en esa clase éramos un grupo de cuarenta personas, un grupo brillantísimo, un verdadero grupo que hablaba mucho del ser humano.
Yo intervenía mucho ahí. Fue un grupo modelo, un grupo de mucha cosecha como individuos que éramos. Teníamos una disciplina, un orden, una limpieza, un buen nivel académico. La gran mayoría de los que asistían a primero de primaria iban con la misma carga con la cual uno va de pequeño.
La cárcel se volvía a repetir como la primera cárcel que tuvimos, que fue la escuela al principio. Era meternos en un lugar que no queríamos (y aquí cárcel en la cárcel). Resultaba duro que lo entendieran.
Con mis compañeros nos juntábamos para hacer las tareas y los dibujos. Era bonito por la actitud de ellos y también porque yo aprovechaba aquellos momentos de las tareas para el desarrollo de la convivencia, para estar juntos, para platicar, para convivir (¡tan difícil aquí!)
Algo se transformó dentro de mí y no fue intencionado. Como consecuencia casual fui invitado a trabajar al pabellón de los psicóticos, a dar un curso de verano. Éramos sólo dos personas para un grupo de 64 enfermos mal atendidos a nivel psiquiátrico, con irregularidad total en la toma de medicinas, pero en trato, cero en tratamiento psicológico, cero en movilidad. Se les trataba mal y mal era la organización. Era la vergüenza de las vergüenzas, con todo los daños que acarrean las enfermedades crónicas o mejor dicho que se hicieron crónicas por no haber sido bien atendidas.
Cabe mencionar que se trata de patologías y contenidos patológicos algo diferentes de los pacientes tradicionales del exterior.
Normalmente los terapeutas trabajamos con sueños, pensamientos y fantasías, mientras aquí, con psicóticos delincuentes, el tabú ha sido realmente trasgredido. Es presente. Se ha encarnado. Aquí la patología abarca como mínimo parricidas, matricidas y no es lo mismo soñar con asesinar a la madre, al hijo, al padre o al hermano que haberles matado de verdad.
¿Qué alternativas les podía ofrecer yo para que se volvieran cuerdos?¿Qué otro modo más grato tenía yo para brindarles después de sacarles de donde estaban? Lo que únicamente les proponía a cambio era la conciencia de lo que hicieron y un muro alrededor.
A mí me costaba trabajo comprender eso y aceptar que les iba a sacar de un mundo muy personal (bueno o malo) a tener conciencia de sus 30 ó 40 años de cárcel, lo cual no es muy agradable. Tampoco es compensatorio vivir en la conciencia de 40 años de prisión o muy posiblemente de una cadena perpetua, ya que a esas personas sólo les puede sacar la misma familia que ellos dañaron, y por eso muchos de ellos están en una situación no explícita pero sí implícita, de cadena perpetua, de morir aquí por el abandono de sus familiares. Entonces se ponía peor todavía el negocio de la terapia y el negocio de la salud; y la negociación era precisamente ofrecerles a ellos algo muy fuerte: que esto es la verdadera prisión, no ya la interna, sino que no había más que ofrecer. Yo estaba más o menos en las mismas que ellos, en el sentido de que no hay un lugar adecuado para ser persona, sino que uno es el que hace el lugar, el que lo convierte
en algo agradable o en el infierno.
Empecé a trabajar con ellos, unos 42 que iban desde psicóticos, lesionados cerebrales por inhalantes, personas con daños congénitos, esquizofrenias de todo tipo, lesiones neurológicas, toxicómanos crónicos ...Era mucho material humano y había mucho que hacer pero yo me sentía en pañales y con total ignorancia sobre la realidad tan pesada y fuerte que tenía enfrente.
Aquí se requería de alguien que no negara el miedo y tuviera experiencia en haber caminado por los pasillos del infierno personal, conocer la locura del otro por empatía con la propia. Haberla vivido y reconocerla sería la única posibilidad de contactar con ellos, de relacionarse con ellos, gente tan mal tratada. Tenían desconfianza de la desconfianza y yo miedo del miedo.
Recuerdo que duré más de quince días en la puerta, era lo único que hacía:me sentaba en la puerta e iba revisando todos mis prejuicios, mis cobardías y mis soberbias.
Cuando me aclaré de mis prejuicios, de mi miedo principalmente, fue cuando di el primer paso, intentando no invadir su casa, el terreno de ellos, por una pretensión personal de conocimientos. Era muy consciente de que el primer paso para tocar su tierra era verles como personas. El momento que les vi como tales fue cuando ví, di el paso y me metí en ellos. Después de un añoy ocho meses, hoy es reconocida como la primera comunidad terapeútica delincuencial y propuesta en todo México. Les será evidente a todos ustedes que no sé aplicar la terminología gestáltica adecuada, pero he preferido "estar atento" en el vivir cotidiano antes que en el buen uso de lo aca-endémico.